venerdì 26 febbraio 2016

Una questione tutta politica


In questo blog esprimo dei punti di vista assunti da un mosaico di piccoli studi, di piccole osservazioni che, pur difettose sotto vari aspetti, non credo possano mancare di un qualche interesse. Senza aspirare a tesi troppo specialistiche, cosa che non è nelle mie corde, e senza velleità d’innalzare colonne corinzie in un’epoca in cui s’apprezzano di più i pilastri di cemento.

Il mio scopo, almeno nelle intenzioni, è quello di rendere potabili al comune lettore alcune cose che oggi in tanta parte non lo sono. E soprattutto di suggerire di non avere ripugnanza preconcetta verso taluni studi e concezioni che purtroppo in passato sono stati malintesi e adoperati a modo di dottrine foriere di drammatici “abbagli”.

Spesso m’interrogo sull’utilità di tale mia pretesa (un po’ folle, l’ammetto), e tuttavia nella vita di ogni anima comune sono molte di più le cose intraprese che non hanno un utile e un seguito, rispetto a quelle, viceversa, che producono frutto.

Per contro vi sono fatti d’ordine molto particolare che a me, disponendo di un’impostazione marxista, non interessa discutere. Per esempio manifestazioni e condizioni dell’economia che sono trattate in altri blog da specialisti ai quali non nego migliore frequentazione e maggior pratica con certi fenomeni.

Poi ogni tanto questi specialisti dell’interpretazione borghese dell’economia scendono dall’iperuranio per descrivere asetticamente solo e tutta la verità di cui sono custodi, dicendo apertis verbis che, dopo l’errore della decontribuzione a scadere, “saremo costretti al contratto di lavoro aziendale, ed al gradone all’ingiù nelle condizioni retributive che esso implica”.

Solo in tal caso accorderanno al governo i loro “due cent” di credito, solo perché sia imposta per legge la contrattazione a livello aziendale e dunque il taglio dei salari, spacciando la cosa, come buoni giudici della realtà, per un portato necessario dell’economia.

In realtà l’economia non c’entra assolutamente nulla se non nella misura in cui si tratta di trasferire salario dalle tasche dei lavoratori a quelle dei padroni (e dei lacchè al loro servizio).

Quella di ridimensionare la quantità di redditi finalizzati alla riproduzione delle classi lavoratrici e d’imporre una diversa ripartizione del plusvalore, è in realtà non una mera descrizione ma un’aperta proposizione tutta politica e dunque ideologicamente orientata per imporre alle classi subalterne gli interessi della borghesia.


E poiché si tratta di una questione tutta politica sarebbe invece il caso di mettere gli occhi sul fatto che a pagare le imposte ormai sono rimasti, oltre ai lavoratori dipendenti, solo la piccola e media azienda, mentre lo Stato e l’UE permettono con le loro leggi – o con le asimmetrie esistenti tra le leggi dei diversi Stati europei – alle multinazionali di evadere le imposte alla grande.

4 commenti:

  1. Il guaio, è che i lavoratori dipendenti e piccola e media azienda, vanno a votare. Ci credono ancora. Hanno bisogno di aggrapparsi a qualcosa? Credo proprio di sì.
    Almeno facessero cadere la maschera democratica che questo sistema ha, astenendosi in massa nell'andare a votare!

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    1. Vi sono tutte le condizioni per accedere ad informazioni sufficienti per dimostrare che questo non solo non è un sistema democratico, ma è un sistema intrinsecamente criminale (per criminale non intendo un sistema illegale, anzi, quasi tutto avviene legalmente) e che persegue obiettivi assolutamente opposti a quelli dichiarati.

      So bene che quanto sto dicendo apparirà ai più come un’esagerazione e una deformazione della realtà. Ed è per questo che cerco di evitare questo tipo di argomenti se non trattandoli a livello molto superficiale.

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    2. Chissà perchè, quello che lei dice, non mi appare nè un'esagerazione, nè una deformazione della realtà.

      Tanti saluti.

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  2. abbiamo anche noi il nostro stato, esosamente rentier, che redistribuisce, come tutti gli altri, secondo criteri di classe cioè di mantenimento dello status quo sociale.

    Il prezzo di una merce, oggi, dipende parecchio dal costo del sistema paese; da questo punto di vista riattivare un vantaggio competitivo alle merci italiane è cosa lunghissima, si fa molto prima a tagliare sul salario differito-welfare. Più che una soluzione una pezza.

    Ma, lungi dal cercare di suggerire correzioni alle italiche storture capitalistiche, e precisando un mio commento precedente, mi pare che l'Italia sia cresciuta in fretta e altrettanto velocemente sia diventata anziana, capitalisticamente parlando.

    Quando parlo di approccio che si rifiuta di divenire adulto non sto per nulla rifacendomi alle tesi che vedono nell' Italia il paese della "mancata rivoluzione borghese" per cui, dato il persistere di alcuni retaggi feudali, si da come cronica l'arretratezza capitalistica rispetto ai diretti concorrenti, ma parlo del proletariato e della piccola borghesia che ancora pensano a difendersi nel localismo.

    la decisione legislativa che ha ancor gran peso in economia è il frutto marcio dei vari gap lasciati aperti (perfino benefici in un certo momento) nello sviluppo complessivo della società italiana (primo fra tutti la questione meridionale) sono nodi venuti al pettine tutti insieme via via che il sistema-paese (facile a dirsi difficile a farsi in un paese piccolo ma eccezionalmente stratificato) doveva razionalizzarsi (riformarsi) come tale per reggere l'inevitabile confronto con altre società capitalisticamente più omogenee o con più slancio, a maggior ragione nella buriana della crisi mondiale dei profitti.






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