Quello
stesso martedì grasso 13 di febbraio 1883, in cui a Venezia moriva Richard Wagner,
a Londra Karl Marx trascinava le ultime settimane della sua travagliata vita
alle prese con “un orribile mal di testa”. A Treviso era giorno di mercato. Vi
confluivano da tutta la provincia migliaia di contadini, affittuari e mezzadri che
della nerissima miseria in cui erano costretti a vivere non ne potevano proprio
più. Tra essi quattro capifamiglia, che anche se non avevano ben chiaro il
concetto, stavano per dar luogo ad un episodio della lotta di classe, uno
scontro tra siori e poareti.
Arrivò
in carrozza anche Giuseppe Da Re con un suo gastaldo, Giacomo Perocco, uno dei
più solerti esecutori delle nequizie del suo cinico e spietato padrone. Chi era
esattamente questo Da Re? Una sera di undici anni prima, era il 1872, in una
tettoia ai margini della laguna, “nelle risaie di Lito Marino”, 250 tonnellate
di fieno di sua proprietà presero fuoco e andarono distrutte, un falò che fu
visto a Venezia e richiamò, condotti sulle barche, non pochi curiosi.
Da
Mestre, schiumante come uno s’cioso,
arrivò su un calesse il Da Re, imprecando contro la barca a vapore dei pompieri
che s’era incagliata nella barena, e soprattutto all’indirizzo dell’Internazionale. Tutta colpa – così disse
– “di quella terribile Società” che dopo aver messo a soqquadro Parigi stava
mettendo disordine ovunque “per vie occulte”. E a confermarlo nelle sue
certezze sull’opera dei sovversivi fu un successivo incendio, divampato due
anni dopo e che interessò un suo grande pagliaio vicino alla piazza di Favaro
(sulla strada che da Mestre porta a Treviso).
I
rapporti redatti dal commissario distrettuale e dai regi carabinieri non
ricercavano le origini dolose degli incendi così lontano come aveva
ipotizzato il Da Re. Questi si era guadagnato l’odio dei contadini a causa del
“trattamento non troppo umano dei propri dipendenti, e specialmente col voler
spingere di troppo la speculazione delle subaffittanze nei latifondi che tiene
ei stesso in affitto […] elevando a misura insopportabile pei contadini i
canoni degli appezzamenti che assegna a coltivazione”. Di là delle cautele del
burocratese, il Da Re è noto universalmente come un affamatore.
Questi
aveva iniziato come garzone nella bottega del padre salumiere, si era
arricchito con le commesse dapprima con l’esercito austriaco e italiano poi (quella
della corruzione e degli appalti è storia antica), possedeva alcune fornaci e
migliaia di “campi” (unità di misura, quello trevigiano: 5.204 m2,
quello padovano-vicentino 3.862), soprattutto aveva in affitto dagli anni 1860
circa 9.000 campi tra le province di Treviso e Venezia, proprietà del barone
Federico Bianchi (*), suddito austriaco e nipote dell’omonimo generale, il cui
nome completo era Federico Vincenzo Ferreri Bianchi(**), che sconfisse
Gioacchino Murat nella battaglia di Tolentino (Monte Milone).
Mentre
il Da Re, sceso dalla carrozza, entrava subito in banca, il suo gastaldo,
Perocco, passeggiava per la Piazza del Grano. I quattro capifamiglia gli si
fecero intorno rinfacciandogli la falsità dei conti e richiedendo i crediti in
frumento che ciascuno di loro vantava. Al diniego del Perocco, uno dei tre,
Luigi Peron, sfrattato su due piedi dopo trent’anni da un terreno agricolo a
Casale sul Sile e costretto a vivere in pieno inverno (l’inverno di un tempo)
sotto il portico di un vicino, iniziò a bastonarlo aiutato dagli altri tre.
Mancava il Da Re, peccato, perché avrebbero bastonato lui pure e con ancor
maggior giustizia. Allora i quattro, incitati degli altri proletari che
popolavano la piazza, si diressero verso la banca per fare altrettanto col peocioso grassatore.
È
a questo punto che intervenne la sbirraglia che arrestò non l’affamatore ma le
sue quattro vittime. Pochi giorni dopo, a Casale, trenta capifamiglia macellarono un “vecchio bue invalido” del Da Re, dividendoselo tra loro e
consegnando a un suo gastaldo la pelle dell’animale, in segno di riconoscimento
del debito che avevano contratto nei confronti dell’amministrazione del
fittanziere. Se invece avessero macellato il Da Re e appesa la sua pelle in
chiesa, è vero che avrebbero subito la reazione dei padroni e della loro
giustizia, ma almeno sarebbero morti per una giusta causa invece che di fame e
pellagra (***).
In
fin dei conti che cosa chiedevano questi contadini? Non erano abituati a maneggiare
denaro, chiedevano solo qualche sacco di farina per sfamare alla meno peggio se
stessi e le proprie numerose famiglie. Per loro la cosa più importante era di
calcolare quanto gli sarebbe rimasto da mangiare dopo aver pagato l’affitto,
dopo aver, magari, lasciato tutto il prodotto dei bozzoli a storno dei debiti.
Chissà poi perché i siori, che non faticano
e vivono in larghezza, possono vantare crediti verso quelli che invece sgobbano
da mane a sera e tirano a campare mantenendo tutta la società (****). È una faccenda
che si ripete, pare, da qualche tempo a questa parte. Che c’entri in qualche
modo la grande proprietà privata?
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(*)
Identifico Federico Bianchi in Ferdinand von Bianchi, duca di Casalanza (Pest 1810
– Mogliano 1864), padre di Friederike von Bianchi, duchessa di Casalanza (1855
– 1924). Un’altra Federica Bianchi di Casalanza, pronipote del capostipite,
nata a Thaus nel 1889, già nella residenza di Este, sposò nella seconda decade
del ‘900 uno svizzero del casato de Kunkler, dal quale ebbe un unico figlio,
Pieradolfo. Con il capitale portato in dote dal marito, la baronessa Federica
riscattò la parte di eredità della cugina e divenne unica proprietaria della
tenuta che prese la denominazione Bianchi de Kunkler. Si trasferì da Este e
condusse in prima persona l’attività aziendale. Alla sua morte, nel 1957, subentrò il figlio Pieradolfo
che in gioventù non aveva avuto gran passione per la cura della tenuta.
Pieradolfo
de Kunkler, nato nel 1921, si laureò in agraria a Bologna nel 1946, e divenne
un imprenditore di rilievo nel settore dei vini e fu titolare tra l'altro del Latte Bianchi di Mogliano (marchio
acquistato dalla Granarolo), nonché
proprietario di terreni all’estero, in Canada soprattutto, e della citata villa
Bianchi, con grandioso parco e vastissime pertinenze, in Mogliano. Non
si sposò e non ebbe eredi diretti. La villa e
il patrimonio (stimato in circa 200 milioni di euro) pervennero nel 2000 a Federico
Carlo Bianchi, lontano cugino di origini goriziane del barone. Il testamento diPieradolfo, molto malato e in dialisi, fu redatto a mano da un notaio sotto
dettatura del barone, in cui s’indicava solamente il nome dell’erede universale,
precisando inoltre di “revocare qualsiasi precedente disposizione
testamentaria”.
La
villa, dopo che la giunta provinciale di Treviso aveva rinunciato all’esercizio
di prelazione per alienazione del complesso, è stata venduta due anni or sono
da Federico Carlo Bianchi, per dichiarati tre milioni di euro, a una società
finanziaria veneziana che ha tra le sue controllate i marchi Duvetica e Carlo
Moretti di Murano (Brands Safe Holding è fallita nel 2017 e Duvetica è stata acquistata nel 2018 all'asta da una holding sudcoreana, la F&F).
(**)
Il generale austriaco (la sua famiglia era originaria del lago di
Como), fu proprietario delle tenute di Mogliano Veneto, dove si ritirò perché malato. Dall’imperatore d'Austria, con decreto del 6 agosto 1815, gli fu
conferito il titolo di barone, da Ferdinando di Napoli quello di Duca di
Casalanza, in memoria del luogo ove siglò la vittoria contro Murat, e un
assegno annuo di 9.000 ducati. La villa, ultimata nel 1717, e le tenute di
Dese, Marcon, Preganziol, Bonisiolo, Casale, Zerman e naturalmente nei dintorni
del nucleo centrale della proprietà, il generale le aveva acquistate assieme
dai banchieri Papadopoli, che a loro volta l’avevano acquistata dalla famiglia Lin, di origine
bergamasca, appartenenti alla nuova nobiltà veneziana dal 1686. Il generale morì
di colera nel 1855 e fu sepolto nella chiesetta con campanile posta sul retro
della villa, dove si trovano altri otto sarcofagi.
(***)
Le classi dirigenti dell’epoca non erano così ingenue da attribuire la pellagra
alle condizioni di estrema miseria in cui vivevano i contadini. Si preferiva parlare di «sorghi turchi
immaturi e guasti», anche nel caso del sindaco di Mogliano Veneto, tale Luigi
Rosada, un agiato proprietario, che nel 1873 istituì una commissione sanitaria
per verificare la qualità della farina di granturco, cioè di mais, essenzialmente
unico alimento di cui si nutrivano le plebi contadine.
Sarebbe
bastata una dieta più varia e ricca e la pellagra non sarebbe più stata quella
piaga che a un certo punto interessò circa il 30 per cento della popolazione
contadina veneta e friulana. Oltre a provocare desquamazione e perdita della
pelle, diarrea, la pellagra provoca demenza. Essa fece la sua comparsa
quantomeno nel Settecento, ma divenne malattia endemica solo nell’Ottocento e
segnatamente a seguito della crisi agraria provocata, in particolare, da un’esasperata
speculazione sui grani condotta dai grandi borghesi veneziani.
Fino
la caduta della Repubblica, nel 1797, in prevalenza, le élite terriere, il
patriziato veneziano e le aristocrazie terriere veneto-friulane (queste ultime
non partecipavano se non in sottordine al potere politico istituzionale),
esercitavano sulle proprietà fondiarie un dominio che era riuscito a modellare
la campagna veneta in quella che è stata chiamata “la civiltà della villa”.
Infatti tutt’ora nella campagna veneto-friulana esistono innumerevoli ville
(nella sola zona di Mogliano sono decine), le “ville venete” note
turisticamente solo in parte e secondo consolidati cliché.
La
coltura del mais, che provocherà in seguito il fenomeno della pellagra, aveva
consentito sotto la Repubblica un aumento demografico delle campagne e una
razionalizzazione delle colture, un rinnovato interesse verso i possedimenti
fondiari divenuti la base economica chiave del sistema sul quale l’aristocrazia
fondava il proprio primato economico, e il suo lusso. Infatti, il Settecento è
il secolo di massimo splendore di Venezia, il secolo d’oro dell’aristocrazia
veneziana, con i suoi teatri, la musica, le feste, i vizi, la raffinatezza
artistica e culturale.
Una
parte non piccola della ricchezza profusa e dissipata dalla nobiltà e dai ceti
intermedi che vi concorrevano, veniva dallo sfruttamento del lavoro dei
contadini. Tuttavia, i nuovi nobili – dopo che era stato riaperto il Libro d’oro nel quale registrare i nuovi
titoli in cambio di onerose “donazioni” volontarie (ciò evitava di dire che la
Repubblica, dissanguata dalle spese militari per la difesa dei possedimenti
contro i turchi e le incursioni dei pirati slavi, vendeva i titoli nobiliari) – si formavano sul ceppo delle
proprietà fondiarie che i patrizi (in crisi demografica) avevano in terraferma,
assorbendo gli schemi di vita e gli atteggiamenti paternalistici, “prodotto
raffinato e non immemore di un’antica grandezza”, “figure di un paternalismo
munifico, illuminato […] che non avranno riscontro in alcun’altra parte
d’Italia”, come scrive Gaetano Cozzi.
Ma
non durò a lungo. I nobili di terraferma e i patrizi veneti, fra
Sette-Ottocento, pur apprestando notevoli opere di trasformazione fondiaria
(disboscamenti, bonifiche ed irrigazione, per esempio) e di miglioramento delle
rese, non operarono il passaggio ad una agricoltura mista e di allevamento che
sarebbe stata invece necessaria.
(****)
La campagna aveva un aspetto molto diverso dall’attuale, era frazionata in campi con strade bianche per l’accesso, fossati per lo scolo delle acque, tante
siepi e filari di gelsi (per i bachi da seta). Tutto ciò comportava l’impiego di molta manodopera e la perdita cospicua
di terreno coltivabile. Ora è un susseguirsi di terreni spianati, intervallati
da qualche canaletto per la raccolta delle acque piovane. Una sola persona con
una grossa macchina può, in breve tempo, arare una grande distesa di terreno;
in seguito con altro macchinario eseguire la preparazione e la messa in opera
della semina. A fine stagione con un’altra macchina può procedere alla raccolta del prodotto compiendo per esempio,
in caso di coltivazione a frumento, la contemporanea trebbiatura ed imballaggio
della paglia direttamente sul posto.
Viene da chiedersi perché gli eredi dei quattro sfortunati vendicatori non dovrebbero andar fieri delle loro fabbrichette, delle loro villette e dei loro SUV. Per molti di noi il "benessere" di questi anni è stato anche il riscatto dalla fame secolare. Non è facile farci credere che quanto abbiamo avuto fin qui può esserci tolto dallo stesso sistema che ci ha permesso di averlo.
RispondiEliminaLa saluto con affetto
Ale
non ho nulla contro le fabbrichette e nemmeno contro le fabbriche in quanto tali, né contro i singoli padroni (se non fanno i farabutti). in discorso c'è il sistema, non il singolo.
Eliminaciao
Cara Olympe,
RispondiEliminada far invidia ai famosi ANNALES
caino
volevi dire senza la esse? ciao
EliminaNo,no, proprio "les Annales".
RispondiEliminaNel senso che si può fare la storia della lotta di classe, partendo da casi locali.
caino
ps -mentre ci sono, vorrei dire ai padroni delle fabbrichette, che è proprio come Lui dice.
Infatti prima dei "Comunisti", arriverà il sistema morente.
Come disse Lapalisse un minuto prima di morire era ancora vivo