La
Venezia del ‘700, libertina e mascherata, tanto cara ai film
d’ambientazione storica e agli stereotipi carnascialeschi, quella della vita mondana raffigurata
dal Longhi, nascondeva una realtà di povertà diffusa, spesso di miseria,
laddove non era raro vedere persino dei nobili squattrinati chiedere
l’elemosina. La prostituzione era un fenomeno che forse non aveva eguali in
Europa, anche tenendo conto di Parigi e Roma. La carampana, oggi intesa
nell’accezione comune di donna anziana e male in arnese, deriva da Ca’ Rampani,
nome del palazzo nel quale la Serenissima alloggiò le prostitute non più in
giovane età. Alla plebe era lecito prostituirsi, anzi era lo stesso governo a
favorire il meretricio. Alle patrizie veneziane invece era proibita la
prostituzione, salvo il fatto che ogni nobile donna aveva un suo salotto di
società, una piccola corte di personaggi tra i più vari. Ufficialmente il
salotto si chiamava casino.
La
Repubblica aveva un termometro infallibile – oltre al contributo dei delatori –
per misurare il grado di stabilità politica e sociale della città: l’affluenza del
pubblico di ogni ceto sociale nei numerosi teatri e il dibattito pubblico che
seguiva le rappresentazioni. Come oggi succede per certi programmi televisivi
che tengono incollati alla tv per cinque sere di fila milioni di utenti
del canone Rai, per la gioia di chi da una simile baldoria ricava di che vivere
con larghezza, nonché per la soddisfazione del governo che indisturbato taglia
le pensioni alle vedove.
Un
dibattito – quello veneziano – che spesso sfociava nella diatriba più accesa,
nella querelle, e che poteva coinvolgere la reputazione e il destino anche di
personalità di spicco. Come nel caso di Pietrantonio Grataról, ricco
proprietario che dopo una brillante carriera amministrativa divenne uno dei
segretari del Senato, carica che lo avrebbe messo a conoscenza diretta degli
affari più delicati della Serenissima e che apriva la strada al segretariato
del Consiglio dei dieci e a posti nella diplomazia veneziana.
Il
Grataról amava vestirsi in modo a dir poco lezioso e chiassoso, non passava
certo inosservato, anche perché aveva un modo di camminare che i suoi
concittadini chiamavano “all’inglese” e arrotava la erre à la française. Fu un impenitente libertino, frequentatore di teatri,
di attrici e ballerine, di casini alla moda e bische, attività peraltro
diffusissime, impersonava un raffinatissimo e vanesio grand commis, ossequioso
fino al servilismo più smaccato, e tuttavia, a differenza dei volgari leccaculo
di oggi, Grataról fu anche persona colta e non digiuna di latino, di eloquio
elegante, preciso e zelante, inappuntabile quando indossava la toga e si recava
a Palazzo Ducale.
Fu
fondatore e primo maestro venerabile della prima loggia massonica di Venezia,
denominata l'Union, che ottenne riconoscimento ufficiale dalla grande loggia
inglese dei Moderns. La massoneria era proibita a Venezia, e tuttavia i massoni
erano più numerosi delle folaghe in laguna e ne facevano parte le più alte
cariche dello Stato. Dapprima i massoni con il Grataról si ritrovavano tutti i
lunedì alla locanda di San Giuseppe a campo San Cassian, dove potevano gustare,
tra l’altro, “i cento risi con la quageta”, un piatto citato anche nella
commedia del Goldoni, Chi la fa l’aspetta
o sia i chiassetti del carneval. Una leccornìa che oggi, epoca di stravaganze
vegane, solo pochi intenditori sanno apprezzare.
Poi,
a causa delle investigazioni dell’Inquisizione, il Grataról e i suoi fratelli
massoni si trasferirono nella locanda da Carlo, in San Beneto. Ma i guai per il
Grataról non vennero da queste frequentazioni, bensì dalla vendetta di due
amanti della stessa attrice, Teodora Ricci, che se l’intendeva con il segretario
del Senato. Gli altri due amanti di Teodora erano il capocomico Antonio Sacchi (1708-1788),
il più celebre Arlecchino del secolo, e il commediografo Carlo Gozzi.
Il
Grataról aveva però anche un’altra amante, non certamente segreta dati i tempi
e le circostanze, ossia l’avvenente Caterina Dolfin, moglie del più potente
personaggio politico di Venezia, tale Andrea Tron, procuratore di San Marco,
soprannominato “el Patrón”.
Il
Grataról, con questo suo nuovo amorazzo, l’attrice Teodora Ricci (il cui marito
Bartoli reggeva il moccolo), s’era messo contro il Sacchi e il Gozzi, ma
soprattutto la potente e gelosa procuratoressa Caterina Dolfin, detta la Trona.
Il Sacchi e il Gozzi, pur se concorrenti per lo stesso letto, si misero
d’accordo per vendicarsi del Grataról, trovando poi l’appoggio di Caterina
Dolfin, furente per essere stata messa in disparte per una semplice attrice.
Sotto
l'effetto della gelosia e dell'orgoglio ferito, Carlo Gozzi forzò in senso
satirico la traduzione di una commedia di Tirso da Molina su cui stava
lavorando, dandole il titolo di Le droghe
d'amore. Nella commedia in tre atti titolata un personaggio secondario,
denominato don Adone, alludeva in caricatura alle caratteristiche fisiche e
comportamentali del vagheggino Grataról. Fu data in lettura dal Gozzi alla
Dolfin, la quale aggiunse di suo qualche ulteriore tocco caricaturale al
personaggio del Grataról.
Ovviamente
fu sparsa la voce ad arte, ed in breve furono venduti a carissimo prezzo tutti
i biglietti della commedia che andò
in scena il 10 gennaio 1777. Il Grataról, messo sull’avviso di quanto
s’andava macchinando, aveva inutilmente tentato d’impedire che si
rappresentasse una commedia in cui egli veniva posto alla berlina. Il Don
Adone, impersonato dal comico Vitalba, apparve sul palcoscenico mettendo in
mostra le affinità tra il personaggio della commedia e il segretario del
Senato: con l’aria svagata, le movenze affettatamente effeminate, le battute
leggere e sprezzanti cui era aduso l’originale.
Il
giorno dopo tutta Venezia rideva e il Grataról si rese conto, attraversando
piazza San Marco, degli effetti che aveva prodotto la commedia. Non appena la
gente lo vide passare cominciò a farsi intorno sogghignando e dandosi di
gomito. Lo accompagnavano nel suo cammino esclamando: “El xe elo, Don Adone”, e
indirizzandogli gesti volgari e coprendolo di contumelie. Il Grataról si vide
bruciata la carriera e vilipeso l’amor proprio.
Per
farla breve, il segretario del Senato, angustiato e sconfortato oltremodo
dall’affronto e dalla derisione pubblica di cui era fatto quotidianamente
oggetto, mentre si replicava la commedia con il tutto esaurito, decise infine
di fuggire da Venezia, senza la dovuta e imprescindibile autorizzazione delle
autorità, e anzi aiutato da ben noti e altolocati massoni d’oltralpe. Per
l’illegale assenza fu processato in forza di una legge del 1665 che vietava
ai patrizi, segretari e notai di Cancelleria di allontanarsi dalla patria senza
legittima "permissione". Fu bandito in perpetuo con alternativa
della forca; tutti i suoi beni furono dichiarati confiscati e su di lui fu
posta una taglia di 2000 ducati.
Girovagò
per l’Europa, aiutato dai suoi amici massoni. Il caso del segretario del Senato
veneziano ingiustamente perseguitato fece clamore, permettendo al protagonista
di uscire allo scoperto con una propria accorata autodifesa, la Narrazione apologetica di Pietro Antonio
Gratarol nobile padovano (la sua famiglia era di origine patavina),
pubblicata a Stoccolma in cui descriveva la corruzione e gli intrighi dominanti
nel Consiglio dei Dieci. Nel libro si vendicava anche dell’ambiente veneziano
che aveva tramato contro di lui e in particolare della Dolfin, definita quale
"prostituta patricia soggiogatrice d'un semi-dittatore insigne per
talenti, per ricchezza, per passioni, per tirannide".
Partì
dunque per l'America del Nord il 29 agosto 1784, da dove poi in compagnia di
altri avventurieri partì per l’India, facendo scalo in Brasile, e dopo varie
peripezie fu abbandonato con i suoi compagni dal capitano del vascello nel
Madagascar, dove di lì a poco, in un ambiente ostile, trovò la morte per febbre
violenta nei primi giorni di ottobre del 1785. Dodici anni più tardi perì anche
la Serenissima e molti patrizi finirono per chiedere l’elemosina, ma Caterina
Dolfin continuò a tenere i suoi salotti ancora per qualche anno, anche se la
situazione politica internazionale mutava troppo rapidamente per non fare anche
di lei una sopravvissuta. Morì per un aneurisma, a Venezia, il 14 novembre
1793. La salma fu sepolta a San Marcuola.
Le
rivelazioni del Grataról avevano attirato il ridicolo e il disprezzo per suo
marito e per quel mondo di dissolutezze e dissipazioni, di intrighi meschini e
di pettegolezzi infami. Andrea Tron non fu eletto doge e gli fu preferito il
senatore Paolo Renier. Il Sacchi morì in mare nel 1788 sulla nave che lo
portava da Genova a Marsiglia. Il Gozzi non rappresentò più alcuna commedia.
Teodora Ricci riscosse per un breve periodo successi a Parigi, finché nel 1780
il re licenziò la compagnia pur assicurando una pensione agli attori. Teodora
tornò a Venezia e infine morì nel famigerato manicomio di San Servolo.
Ad
ogni modo la vicenda col Gozzi e la Dolfin fu semplicemente un pretesto, in
quanto pare che Grataról avesse nemici ben più potenti.
Altra intrigante vicenda di cui nulla sapevo. E i cento risi con la quageta suona irresistibile...
RispondiEliminanon col riso qualsiasi e assolutamente non con quagete d'allevamento, col butirro e non col l'ogio, el brodo da un lesso alla padovana. insoma robe de 'na volta che adesso se fa solo in casa perché le ostarie non le esiste più da un toco e gnanca le coghe. adesso ghe xe masterscief e le più incredibili porcarie e miscioti. un buon piato ga da aver non più de do o tre ingredienti se no el xe un paston ch'el sa de tuto e da gnente
EliminaQuindi è finita, non si trova più. Inutile sperare nemmeno nei bacari... Grazie comunque per l'evocazione del sapore perduto!
Eliminabacari? è tutto gestito dai cinesi
Elimina"Ingiuste non son le sue leggi, ingiusta dunque non potrei dir la Republica. Bensì ingiusto devo gridare nella Republica tutto quello, che dalle sue leggi si scosta: ingiusta l'autorità eccedente la misura dalle leggi accordata: ingiusta l'esecuzion delle leggi non conforme all'intenzion delle stesse: ingiusta di tali abusi la tolleranza".
RispondiEliminaquanta retorica romantica il gratarol, quanto attaccamento alla repubblica. Son più penetranti le annotazioni di renier e manin. O di goldoni, casanova, gozzi... In tutti si evidenzia come il processo di 'italianizzazione' della serenissima iniziasse prima della caduta della repubblica, molto prima. Fra brogli, serrate, tradimenti, conflitti d'interesse, raccomandati, bagoli, tutto pare uguale a oggi. Per alcuni aspetti si potrebbe lamentare che è l'Italia ad essersi poi venetizzata: La costituzione "la più bella del mondo" come la mamma; governo pieno di figli di puttana.
EliminaPost come al solito interessante.
RispondiEliminaScusa l'ignoranza ma cos'è la "quageta" ?
AG
quaglia
EliminaMercì
EliminaNon si frequenta mai questo blog senza uscirne più ricchi.
RispondiElimina(Olympe coga venesiana, poi, xe na maraveja)
Hans
momenti bruso a tecia per darte reta
EliminaÈ indiscutibile che i circenses svolgano la funzione di imbonitori e che l'affluenza ai loro spettacoli misuri la fase del sonno che dormono i loro spettatori. Anche il sesso, comunque declinato o "inclinato", può essere usato allo stesso modo, come "distrattore" sociale. Invece, anche se inevitabilmente coinvolti in intrighi d'alcova,spezzerei una lancia per entrambi i fratelli Gozzi, purtroppo scolasticamente poco frequentati. Carlo, in particolare, fra le altre cose è stato anche l'ispiratore del manuale tuttora più usato nelle scuole che formano soggettisti e sceneggiatori hollywoodiani, "Le trente-six situations dramatiques". Come dire che respiriamo un po' il clima (mica così salubre) di quella Venezia, non solo quando ascoltiamo Puccini, ma anche quando andiamo al cinema.
RispondiEliminaLa saluto affettuosamente,
Ale
ah, non sapevo. grazie. ciao
EliminaChe delizia questo racconto...Grazie..
RispondiEliminaRoberto