martedì 16 febbraio 2016

Le droghe d'amore


La Venezia del ‘700, libertina e mascherata, tanto cara ai film d’ambientazione storica e agli stereotipi carnascialeschi, quella della vita mondana raffigurata dal Longhi, nascondeva una realtà di povertà diffusa, spesso di miseria, laddove non era raro vedere persino dei nobili squattrinati chiedere l’elemosina. La prostituzione era un fenomeno che forse non aveva eguali in Europa, anche tenendo conto di Parigi e Roma. La carampana, oggi intesa nell’accezione comune di donna anziana e male in arnese, deriva da Ca’ Rampani, nome del palazzo nel quale la Serenissima alloggiò le prostitute non più in giovane età. Alla plebe era lecito prostituirsi, anzi era lo stesso governo a favorire il meretricio. Alle patrizie veneziane invece era proibita la prostituzione, salvo il fatto che ogni nobile donna aveva un suo salotto di società, una piccola corte di personaggi tra i più vari. Ufficialmente il salotto si chiamava casino.

La Repubblica aveva un termometro infallibile – oltre al contributo dei delatori – per misurare il grado di stabilità politica e sociale della città: l’affluenza del pubblico di ogni ceto sociale nei numerosi teatri e il dibattito pubblico che seguiva le rappresentazioni. Come oggi succede per certi programmi televisivi che tengono incollati alla tv per cinque sere di fila milioni di utenti del canone Rai, per la gioia di chi da una simile baldoria ricava di che vivere con larghezza, nonché per la soddisfazione del governo che indisturbato taglia le pensioni alle vedove.



Un dibattito – quello veneziano – che spesso sfociava nella diatriba più accesa, nella querelle, e che poteva coinvolgere la reputazione e il destino anche di personalità di spicco. Come nel caso di Pietrantonio Grataról, ricco proprietario che dopo una brillante carriera amministrativa divenne uno dei segretari del Senato, carica che lo avrebbe messo a conoscenza diretta degli affari più delicati della Serenissima e che apriva la strada al segretariato del Consiglio dei dieci e a posti nella diplomazia veneziana.

Il Grataról amava vestirsi in modo a dir poco lezioso e chiassoso, non passava certo inosservato, anche perché aveva un modo di camminare che i suoi concittadini chiamavano “all’inglese” e arrotava la erre à la française. Fu un impenitente libertino, frequentatore di teatri, di attrici e ballerine, di casini alla moda e bische, attività peraltro diffusissime, impersonava un raffinatissimo e vanesio grand commis, ossequioso fino al servilismo più smaccato, e tuttavia, a differenza dei volgari leccaculo di oggi, Grataról fu anche persona colta e non digiuna di latino, di eloquio elegante, preciso e zelante, inappuntabile quando indossava la toga e si recava a Palazzo Ducale.

Fu fondatore e primo maestro venerabile della prima loggia massonica di Venezia, denominata l'Union, che ottenne riconoscimento ufficiale dalla grande loggia inglese dei Moderns. La massoneria era proibita a Venezia, e tuttavia i massoni erano più numerosi delle folaghe in laguna e ne facevano parte le più alte cariche dello Stato. Dapprima i massoni con il Grataról si ritrovavano tutti i lunedì alla locanda di San Giuseppe a campo San Cassian, dove potevano gustare, tra l’altro, “i cento risi con la quageta”, un piatto citato anche nella commedia del Goldoni, Chi la fa l’aspetta o sia i chiassetti del carneval. Una leccornìa che oggi, epoca di stravaganze vegane, solo pochi intenditori sanno apprezzare. 

Poi, a causa delle investigazioni dell’Inquisizione, il Grataról e i suoi fratelli massoni si trasferirono nella locanda da Carlo, in San Beneto. Ma i guai per il Grataról non vennero da queste frequentazioni, bensì dalla vendetta di due amanti della stessa attrice, Teodora Ricci, che se l’intendeva con il segretario del Senato. Gli altri due amanti di Teodora erano il capocomico Antonio Sacchi (1708-1788), il più celebre Arlecchino del secolo, e il commediografo Carlo Gozzi.

Il Grataról aveva però anche un’altra amante, non certamente segreta dati i tempi e le circostanze, ossia l’avvenente Caterina Dolfin, moglie del più potente personaggio politico di Venezia, tale Andrea Tron, procuratore di San Marco, soprannominato “el Patrón”.

Il Grataról, con questo suo nuovo amorazzo, l’attrice Teodora Ricci (il cui marito Bartoli reggeva il moccolo), s’era messo contro il Sacchi e il Gozzi, ma soprattutto la potente e gelosa procuratoressa Caterina Dolfin, detta la Trona. Il Sacchi e il Gozzi, pur se concorrenti per lo stesso letto, si misero d’accordo per vendicarsi del Grataról, trovando poi l’appoggio di Caterina Dolfin, furente per essere stata messa in disparte per una semplice attrice.

Sotto l'effetto della gelosia e dell'orgoglio ferito, Carlo Gozzi forzò in senso satirico la traduzione di una commedia di Tirso da Molina su cui stava lavorando, dandole il titolo di Le droghe d'amore. Nella commedia in tre atti titolata un personaggio secondario, denominato don Adone, alludeva in caricatura alle caratteristiche fisiche e comportamentali del vagheggino Grataról. Fu data in lettura dal Gozzi alla Dolfin, la quale aggiunse di suo qualche ulteriore tocco caricaturale al personaggio del Grataról.

Ovviamente fu sparsa la voce ad arte, ed in breve furono venduti a carissimo prezzo tutti i biglietti della commedia che andò  in scena il 10 gennaio 1777. Il Grataról, messo sull’avviso di quanto s’andava macchinando, aveva inutilmente tentato d’impedire che si rappresentasse una commedia in cui egli veniva posto alla berlina. Il Don Adone, impersonato dal comico Vitalba, apparve sul palcoscenico mettendo in mostra le affinità tra il personaggio della commedia e il segretario del Senato: con l’aria svagata, le movenze affettatamente effeminate, le battute leggere e sprezzanti cui era aduso l’originale.

Il giorno dopo tutta Venezia rideva e il Grataról si rese conto, attraversando piazza San Marco, degli effetti che aveva prodotto la commedia. Non appena la gente lo vide passare cominciò a farsi intorno sogghignando e dandosi di gomito. Lo accompagnavano nel suo cammino esclamando: “El xe elo, Don Adone”, e indirizzandogli gesti volgari e coprendolo di contumelie. Il Grataról si vide bruciata la carriera e vilipeso l’amor proprio.

Per farla breve, il segretario del Senato, angustiato e sconfortato oltremodo dall’affronto e dalla derisione pubblica di cui era fatto quotidianamente oggetto, mentre si replicava la commedia con il tutto esaurito, decise infine di fuggire da Venezia, senza la dovuta e imprescindibile autorizzazione delle autorità, e anzi aiutato da ben noti e altolocati massoni d’oltralpe. Per l’illegale assenza fu processato in forza di una legge del 1665 che vietava ai patrizi, segretari e notai di Cancelleria di allontanarsi dalla patria senza legittima "permissione". Fu bandito in perpetuo con alternativa della forca; tutti i suoi beni furono dichiarati confiscati e su di lui fu posta una taglia di 2000 ducati.

Girovagò per l’Europa, aiutato dai suoi amici massoni. Il caso del segretario del Senato veneziano ingiustamente perseguitato fece clamore, permettendo al protagonista di uscire allo scoperto con una propria accorata autodifesa, la Narrazione apologetica di Pietro Antonio Gratarol nobile padovano (la sua famiglia era di origine patavina), pubblicata a Stoccolma in cui descriveva la corruzione e gli intrighi dominanti nel Consiglio dei Dieci. Nel libro si vendicava anche dell’ambiente veneziano che aveva tramato contro di lui e in particolare della Dolfin, definita quale "prostituta patricia soggiogatrice d'un semi-dittatore insigne per talenti, per ricchezza, per passioni, per tirannide".

Partì dunque per l'America del Nord il 29 agosto 1784, da dove poi in compagnia di altri avventurieri partì per l’India, facendo scalo in Brasile, e dopo varie peripezie fu abbandonato con i suoi compagni dal capitano del vascello nel Madagascar, dove di lì a poco, in un ambiente ostile, trovò la morte per febbre violenta nei primi giorni di ottobre del 1785. Dodici anni più tardi perì anche la Serenissima e molti patrizi finirono per chiedere l’elemosina, ma Caterina Dolfin continuò a tenere i suoi salotti ancora per qualche anno, anche se la situazione politica internazionale mutava troppo rapidamente per non fare anche di lei una sopravvissuta. Morì per un aneurisma, a Venezia, il 14 novembre 1793. La salma fu sepolta a San Marcuola.

Le rivelazioni del Grataról avevano attirato il ridicolo e il disprezzo per suo marito e per quel mondo di dissolutezze e dissipazioni, di intrighi meschini e di pettegolezzi infami. Andrea Tron non fu eletto doge e gli fu preferito il senatore Paolo Renier. Il Sacchi morì in mare nel 1788 sulla nave che lo portava da Genova a Marsiglia. Il Gozzi non rappresentò più alcuna commedia. Teodora Ricci riscosse per un breve periodo successi a Parigi, finché nel 1780 il re licenziò la compagnia pur assicurando una pensione agli attori. Teodora tornò a Venezia e infine morì nel famigerato manicomio di San Servolo.

Ad ogni modo la vicenda col Gozzi e la Dolfin fu semplicemente un pretesto, in quanto pare che Grataról avesse nemici ben più potenti.


14 commenti:

  1. Altra intrigante vicenda di cui nulla sapevo. E i cento risi con la quageta suona irresistibile...

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    1. non col riso qualsiasi e assolutamente non con quagete d'allevamento, col butirro e non col l'ogio, el brodo da un lesso alla padovana. insoma robe de 'na volta che adesso se fa solo in casa perché le ostarie non le esiste più da un toco e gnanca le coghe. adesso ghe xe masterscief e le più incredibili porcarie e miscioti. un buon piato ga da aver non più de do o tre ingredienti se no el xe un paston ch'el sa de tuto e da gnente

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    2. Quindi è finita, non si trova più. Inutile sperare nemmeno nei bacari... Grazie comunque per l'evocazione del sapore perduto!

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  2. "Ingiuste non son le sue leggi, ingiusta dunque non potrei dir la Republica. Bensì ingiusto devo gridare nella Republica tutto quello, che dalle sue leggi si scosta: ingiusta l'autorità eccedente la misura dalle leggi accordata: ingiusta l'esecuzion delle leggi non conforme all'intenzion delle stesse: ingiusta di tali abusi la tolleranza".

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    1. quanta retorica romantica il gratarol, quanto attaccamento alla repubblica. Son più penetranti le annotazioni di renier e manin. O di goldoni, casanova, gozzi... In tutti si evidenzia come il processo di 'italianizzazione' della serenissima iniziasse prima della caduta della repubblica, molto prima. Fra brogli, serrate, tradimenti, conflitti d'interesse, raccomandati, bagoli, tutto pare uguale a oggi. Per alcuni aspetti si potrebbe lamentare che è l'Italia ad essersi poi venetizzata: La costituzione "la più bella del mondo" come la mamma; governo pieno di figli di puttana.

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  3. Post come al solito interessante.
    Scusa l'ignoranza ma cos'è la "quageta" ?
    AG

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  4. Non si frequenta mai questo blog senza uscirne più ricchi.

    (Olympe coga venesiana, poi, xe na maraveja)

    Hans

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  5. È indiscutibile che i circenses svolgano la funzione di imbonitori e che l'affluenza ai loro spettacoli misuri la fase del sonno che dormono i loro spettatori. Anche il sesso, comunque declinato o "inclinato", può essere usato allo stesso modo, come "distrattore" sociale. Invece, anche se inevitabilmente coinvolti in intrighi d'alcova,spezzerei una lancia per entrambi i fratelli Gozzi, purtroppo scolasticamente poco frequentati. Carlo, in particolare, fra le altre cose è stato anche l'ispiratore del manuale tuttora più usato nelle scuole che formano soggettisti e sceneggiatori hollywoodiani, "Le trente-six situations dramatiques". Come dire che respiriamo un po' il clima (mica così salubre) di quella Venezia, non solo quando ascoltiamo Puccini, ma anche quando andiamo al cinema.
    La saluto affettuosamente,
    Ale

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  6. Che delizia questo racconto...Grazie..
    Roberto

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