martedì 3 marzo 2015

Quattro cose dette così ...


Il riformismo si pone obiettivi illusori, e ciò vale anche per il sindacato. Anche le rare organizzazioni sindacali che si pongono in un ruolo antagonista rispetto al capitale, sono il mezzo per realizzare la legge capitalistica del salario, cioè la vendita della forza lavoro al prezzo di mercato. Vero che il sindacato sfrutta le congiunture del mercato (in ciò la sua funzione principale), ma esse stesse sono condizionate dallo stadio in cui è giunto lo sviluppo della produzione e dall’offerta di forza lavoro. Due aspetti, dunque, che il sindacato non può controllare. Pertanto essi non possono mutare la legge dei salari, e nel migliore dei casi possono mantenere lo sfruttamento capitalistico nei limiti che considerano “normali” (le “normali” otto ore, per esempio, ecc.).

Né i sindacati possono ingerirsi nella parte tecnica della produzione e nei volumi produttivi, quindi sui modi e i livelli in cui avviene lo sfruttamento. È la necessità propria dello sviluppo capitalistico, nel tentativo di aumentare o mantenere il saggio del profitto, che sprona il singolo capitalista a miglioramenti tecnici. La posizione del singolo lavoratore è invece opposta, poiché ogni trasformazione tecnica peggiora la situazione immediata deprezzando la forza lavoro, e rendendo spesso il lavoro più monotono e ripetitivo. E ciò è in contraddizione col fatto che la classe operaia nel suo complesso, al pari di quella capitalistica sebbene per motivi opposti, ha interesse al progresso tecnico e tecnologico perché ciò coincide inevitabilmente con la sua emancipazione.



Vediamo dunque come l’attività sindacale si limiti principalmente e nella migliore delle ipotesi, come nel caso della Fiom, a contrastare i piani del capitale per aumentare lo sfruttamento, peraltro in una fase storica in cui si è estinta perfino la lotta per gli aumenti salariali e per la riduzione della giornata lavorativa. Assistiamo invece, specie dopo l’abolizione della scala mobile, allo svincolo più completo del mercato delle braccia da ogni rapporto immediato col mercato delle altre merci, fatto che viene ricordato ogni giorno dalle classifiche sulla ricchezza, e in forza del quale i governi sono liberi di aumentare a capriccio tariffe e imposte, posto che i salari non sono più in alcuna forma agganciati all’aumento dei prezzi (e poi i soliti bischeri chiacchierano sui motivi della deflazione).

Una volta che il capitale può agire sul mercato mondiale, la curva discendente della lotta sindacale è una constatazione di fatto, senza dimenticare che la riduzione dei salari è uno dei mezzi principali del capitale per contrastare la caduta del saggio del profitto, o anche per rifarsi delle perdite subite sul mercato mondiale. Come abbiamo sperimentato negli ultimi cinque lustri, il movimento sindacale si riduce, nella migliore delle ipotesi, sempre più alla semplice difesa dei risultati già ottenuti, ma invano. Ecco dunque che la lotta non può che spostarsi sul piano direttamente politico. E questo mi pare che alcuni dirigenti del sindacato, cioè di ciò che resta, l’abbiano inteso bene.

E però qui siamo alle note dolenti. Non si sente più parlare né di comunismo (va da sé), né di socialismo (idem) e nemmeno più di “controllo sociale”, per quanto generico sia tale concetto. Si parla di “riforme”. Come se lo Stato non fosse il rappresentante della società capitalistica (di che altro, se no?). Normale che uno Stato di questo tipo controlli e tuteli anzitutto, e pur tra tutti i distinguo e le contraddizioni che dio vuole, l’organizzazione di classe sul processo produttivo e la riproduzione delle condizioni adatte. In termini elementari: è il diritto del capitalista di appropriarsi del lavoro dell’operaio. Ogni progetto di riforma trova in questo stato di cose dei limiti naturali e insuperabili.

Un tempo la teoria (di Conrad Schmidt per citarne uno che piaceva) verteva sull’ipotesi dell’espropriazione graduale del capitale e l’instaurarsi della gestione sociale “sempre più estesa”. Tale teoria trovava smentita nella paradossale conferma del suo contrario. Se proprio vogliamo parlare di una “superproprietà”, cui tenderebbe il monopolio, essa oggi è totalitaria ed è tutt’altro che “sociale”. Un semplice gioco quello dei riformisti d’antan, ma se però lo confrontiamo con il pensiero politico odierno, quegli antichi riformisti ci sembrano dei giganti.

Si discute e soprattutto si polemizza sui rimedi opponibili alla contraddizione tra capacità produttiva e ristagno dei mercati, rimedi agli squilibri di natura reddituale, e chi più ne ha più ne metta. La contesa politica, alla Tsipras quando va bene, s’è ridotta alla richiesta di far pagare le tasse a chi riesce ad evaderle ed eluderle, e di regolamentare i mercati finanziari. Ben sapendo che in definitiva neanche a questo è possibile giungere stante le circostanze vicine e lontane.

Sappiamo ormai da secoli che la finanziarizzazione dell’economia accresce la contraddizione tra modo di produzione e modo di appropriazione, poiché favorisce la separazione della produzione dalla proprietà, trasformando il profitto in interesse del capitale, cioè in mero titolo di proprietà. E tuttavia la ragione principale della crisi non è questa ed è illusorio credere che essa sia risolvibile nel lungo periodo e ancora una volta in termini keynesiani. Ma vai a dirglielo ai “marxisti”.






6 commenti:

  1. COSIDDETTI...ma non mi ricordo che qualcuno "tra gli ufficiali"si qualifichi ancora come tale..poi mi posso sbagliare..

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  2. Ciao Olympe....E' un'analisi molto lucida la tua che mi trova d'accordo. Aggiungo solo un'altra cosa- restando in Italia- e cioè che i sindacati, Cgil compresa ovviamente, sono dei grandi centri servizi dove il conflitto è sparito dall'orizzonte. E' sparito dal punto di vista culturale, è sparito dal punto di vita politico-sindacale. Al massimo si arriva a tamponare le crisi più complicate- penso alla vertenza Acciaierie di Terni- e talvolta ci si riesce. Ma tutto finisce lì. Ci sono interi settori del pubblico impiego senza contratto da anni e la cosa non fa scandalo né produce iniziativa.

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  3. Cara Olympe,

    Questa tua ultima riflessione ,chissa'perche' ha fatto si che in me maturasse quest'altra ,che vado ad esporre.

    Le attuali tendende "piu'sinistrorse" nel panorama mediatico affermano che il Capitalismo si possa contrastare ormai solo piu' con battaglie ecologiche (vd.NoTAV)..
    Devo ,per essere onesti,dire che c'e' parecchio di nobile e talvolta di efficace in queste disperate battaglie,nel senso che riescono sovente a mobilitare masse locali toccate dai problemi.
    Dietro a questi movimenti ,mi pare di percepire teorie della Decrescita felice accompagnate da teorie di gestione del Potere su base localistiche di piccole comunita' dialoganti fra di loro.
    Tutto questo a me pare piu' che una marcia trionfale contro il capitalismo,una riedizione aggiornata delle rivolte dei contadini della Vandea,che al di la' delle pieghe reazionarie che talvolta assunsero quelle lotte,e'innegabile che avessero pure le "loro buone ragioni".
    Quelle genti,popolo,amavano in fondo vivere ancora nel medioevo dei loro villaggi,con i loro preti,in piccole e piccolissime proprieta',piuttosto che adattarsi ai dettami economici delle Borghesie ,che avevano trionfato a Parigi.
    Da un punto di vista sentimentale ,leggendo molte di quelle cronache,chi potrebbe dargli torto?
    Purtroppo,per loro,la Storia,ovvero l'evoluzione economica,gli dette torto e pure la Vandea dovette venire a compromesso,,con l'aiuto anche delle laiche e progressiste baionette di Parigi.
    Resta ovviamente in quelle zone un vivace ed interessante folclore...sempre apprezzabile..per carita' di patria.

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    1. sono sostanzialmente d'accordo, ma non lo chiamerei folclore.

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