Oggi
leggo sul New York Times quanto ha
scritto il 23 febbario Paul Krugman sul tema della disoccupazione e i suoi
larghi dintorni, laddove dice che il collegamento tra scolarizzazione e
occupazione è un mantra politico, a valere “più dello studio, specializzazione
e bravura, è il potere”. Un po’, apparentemente, quanto ho scribacchiato (si parva licet)
quattro giorni fa in un post dal titolo: I signori del merito.
Krugman
specifica anche di che potere si
tratti: un piccolo gruppo di persone che coprono posizioni strategiche ai
vertici delle corporation o che siedono in posti chiave della finanza. E
tuttavia, come solito, non parla di classi sociali, ma d’indeterminati gruppi di
potere. Poi propone le solite cose, tassare i ricchi per elargire elemosine ai
poveri cristi, eccetera.
Spero
non sia intesa come spocchia, ma questi economisti quando scrivono di queste
cose mi ricordano i teorici del flogisto prima di Lavoisier. Anzi, le loro
teorie non reggono il confronto con quelle degli economisti classici (*). Per
nostra fortuna il nostro Lavoisier per quanto riguarda la critica dell’economia
politica l’abbiamo avuto, anche se viene ignorato o citato a sproposito e di
terza mano.
La
questione è mal posta da Krugman poiché non parte da un presupposto essenziale,
ossia dall’analisi della struttura della composizione di classe. Tale struttura
nel modo di produzione capitalistico non è immobile ma in continua mutazione, e
ciò va da sé. Quanto invece il premio Nobel per l’economia non rileva è: 1) non
tutto il “lavoro” è uguale (**); 2) che il capitale non ha bisogno solo della
forza-lavoro necessaria alla produzione, ma anche di forza-lavoro non occupata
in modo da tenere i salari più bassi possibile.
La
forza-lavoro non occupata, o non occupata stabilmente, ossia precaria, tende ad
aumentare con la diminuzione della parte variabile del capitale, cioè con la
diminuzione dei salari; per contro il capitale variabile (forza-lavoro) diminuisce
relativamente all’aumentare della grandezza del capitale (impianti fissi,
macchine, materie prime ed ausiliarie, ecc.). Per quanto paradossale possa
apparire è questo un effetto dello sviluppo della forza produttiva del lavoro
che comporta il cambiamento della composizione organica del capitale, ossia il rapporto tra capitale costante (mezzi di
produzione) e quello variabile (forza-lavoro) (***).
In
altri termini è l’aumento della produttività del lavoro a creare
disoccupazione, come chiunque empiricamente può constatare. Tale aumento della
produttività produce però anche altre conseguenze, affrontate in altri post e
qui non è il caso di richiamarle.
Pertanto
la popolazione operaia produce in misura crescente, mediante l’accumulazione
del capitale e l'eliminazione degli operai mediante le macchine, i mezzi per
render se stessa relativamente eccedente. È questa la legge della popolazione peculiare del modo di produzione
capitalistico, un’altra legge fondamentale scoperta di Marx. Tutte le
congetture escogitate dal pensiero borghese in relazione al fenomeno della
disoccupazione e al cosiddetto “problema demografico” sono di ordine ideologico
(****).
Se
si comprende questo, si comincia a veder chiaro anche sul resto. Ma non è il
caso dei premi Nobel per il semplice motivo che essi devono difendere
l’esistente, né di tutta quella marmaglia che su internet spara raffiche di
bischerate su temi che vanno affrontati scientificamente.
(*)
I più importanti esponenti del pensiero economico classico sono: William Petty
(1623-87), David Hume (1711-76), i Fisiocratici (tra i quali il citato François
Quesnay, 1694-1774), Adam Smith (1723-90) e David Ricardo (1772-1823).
(**)
Gli economisti borghesi non distinguono la forza-lavoro, in quanto merce, dalla
capacità produttiva (lavoro), in quanto forza produttiva. Così facendo, essi
tendono a dissimulare lo sfruttamento capitalistico e di negare il carattere
storico, transitorio, del modo di produzione fondato sull’asservimento della
forza produttiva del lavoro alle esigenze di arricchimento della classe che
detiene la proprietà/possesso dei mezzi di produzione.
(***)
Osserva a tale proposito Marx: “Con
l’aumentare del capitale complessivo cresce, è vero, anche la sua parte
costitutiva variabile ossia la forza-lavoro incorporatale, ma cresce in proporzione
costantemente decrescente”.
(****)
La sovrappopolazione relativa assume tre forme: fluida, stagnante, latente. Per
quanto riguarda quella fluida e quella stagnante è intuitivo comprendere di
cosa si tratti. Quella fluida è tipica di quei salariati che alternano periodi
di occupazione ad altri di disoccupazione; quella stagnante interessa l’enorme
massa di lavoro occasionale, precario, a domicilio, impiegata in particolari
settori ove occorre stillare profitti o servizi senza vincoli dagli schiavi. Invece
per quanto concerne la forma latente della sovrappopolazione relativa, non è
possibile individuarne e comprenderne l’enorme sviluppo se non a partire
dall’internazionalizzazione del mercato del lavoro (aspetto relativo alla
cosiddetta globalizzazione).
Nei
paesi di antica industrializzazione tale forma di sovrappopolazione relativa si
annida ancora nelle “zone di sottosviluppo” e anche in alcune sacche regionali
e razziali. A partire dall’internazionalizzazione del mercato del lavoro su
scala planetaria, la parte latente dell’esercito industriale di riserva
abbraccia interi continenti: anzitutto la “periferia”, ove masse sterminate di
forza-lavoro vengono rese “libere” di morire di fame o costrette a dirigersi –
con i mezzi e i rischi che sappiamo – verso i paesi e le zone industrializzate.
Io saprei a chi darlo il Nobel.
RispondiEliminaall'avvenente vicina di casa? non gli serve il Nobel a quella ...
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