martedì 31 marzo 2015

Ridendo


Se ci trovassimo sulla cima di una rupe e dovessimo decidere chi tra Berlusconi e Renzi buttare di sotto, ebbene per quanto mi riguarda butterei di sotto Landini, nonostante sia un uomo per il quale è facile provare naturale e istintiva simpatia. Tuttavia qui le questioni personali devono lasciare il posto alle valutazioni politiche. Insomma, ad ognuno il suo.

Quello che rimprovero a questi esponenti della sinistra, ovviamente per ciò che conta il mio giudizio, è il fatto di non parlare chiaro: nel non voler dire esplicitamente che la riforma sociale trova i suoi limiti oggettivi nell’organizzazione di classe che il capitale esercita sul processo produttivo capitalistico informandone i rapporti sociali.

Se da sempre è negli interessi del capitale che la riforma sociale trova i suoi limiti naturali, ciò è tanto più vero in una fase che ha mutato radicalmente non solo la bilancia dei rapporti di forza tra le classi, ma il terreno stesso dello scontro, basti citare la crisi della rappresentanza politica e il peso spesso irrilevante dei singoli parlamenti e governi nazionali.

Il modello sociale cui guarda Landini e altri dei dintorni, con i richiami alla concertazione tra le cosiddette parti sociali, alle regole di tutela, di controllo statale, eccetera, è un modello di relazioni superato dalla logica delle cose. Il liberismo, prima ancora di essere un’ideologia fatta propria da un’accolta di reazionari, è espressione di quel processo che chiamiamo globalizzazione.

lunedì 30 marzo 2015

Vai a fidarti


Per avere un’idea di quale sia l’influsso esercitato dai media sull’opinione pubblica è interessante citare un episodio, tra i tanti, di allucinazione collettiva che coinvolse l’opinione pubblica europea e americana con dei risvolti davvero comici.

Nel momento in cui le armate tedesche sfondarono le linee francesi, nell’agosto del 1914, in Inghilterra si diffuse una notizia incredibile. Così incredibile che vi cedettero non solo gli inglesi e gli americani, ma anche i tedeschi! Alla fine di agosto si diffuse una voce secondo cui il ritardo di diciassette ore sulla linea Liverpool-Londra del giorno 27, ebbe come causa il trasporto di truppe russe che si diceva fossero sbarcate in Scozia per poi essere inviate in aiuto sul fronte occidentale.

Le truppe russe, segnatamente costituite da cosacchi, si disse che fossero partite da Arcangelo, in Norvegia, dov’erano giunte attraverso il Mare Artico, e avessero poi proseguito su navi di linea per Aberdeen, e dal porto scozzese trasferite ai porti della Manica. Si raccontava, in pieno agosto, che si scrollavano la neve dagli stivali sui marciapiedi della stazione. Naturalmente il segreto più totale circondava tale movimento di truppe, ma c’era gente estremamente attendibile che li aveva visti coi propri occhi i cosacchi, o aveva amici che li avevano veduti.

[...]


Preso atto dei risultati elettorali in Francia? Con le farneticanti previsioni di una vittoria neofascista per un anno ci hanno rotto le scatole. Come solito controcorrente ecco quanto scrivevo un anno fa.

È ancora troppo presto per gli estremismi, almeno fin quando sono garantiti il pagamento di pensioni e stipendi del pubblico impiego, e fino a quando nel complesso l'economia tiene. In Francia, qui, ovunque in Europa.

domenica 29 marzo 2015

Varoufakis, ovvero dell'aria fritta


In due post di questa settimana ho cercato, credo con una certa obiettività, di riportare alcuni misfatti di cui si resero protagonisti gli invasori tedeschi in Belgio nel 1914. Ho riportato anche notizia del cosiddetto Manifesto dei 93 e citato la Dichiarazione dei docenti universitari dell'Impero tedesco con cui il mondo della cultura e dell’istruzione tedesco, praticamente unanime, negava l’evidenza di tali incredibili distruzioni e giustificava le violazioni del diritto internazionale e le atrocità commesse dall’esercito tedesco in nome di un valore supremo che essi chiamano “vittoria”.

Sarebbe oltremodo interessante descrivere quali profitti i tedeschi s’attendessero dalla “vittoria”. E a tal fine bisognerebbe leggere il Memorandum presentato al governo il 2 settembre 1914 da Matthias Erzberger, capo del partito cattolico, politico influentissimo e rapporteur della Commissione degli affari militari. Il famoso Lebensraum hitlerita potrebbe apparire, al confronto, perfino più moderato, e del resto quello di Lebensraum è un concetto ottocentesco caro al noto Karl Haushofer che tanta influenza ebbe sul fanatico di Braunau.

Il popolo tedesco può vantare delle indubbie qualità, dei pregi che specie la breva gente italiana, spesso non a torto, dice d’invidiare. E però tali qualità e pregi del loro carattere nazionale, alcuni peraltro molto esagerati, non valgono nulla a fronte del loro tracotante e orgoglioso autoritarismo e del loro micragnoso filisteismo. Essi vorrebbero imporre la loro visione del mondo e concezione della vita anche agli altri popoli. La storia ha sancito che essi sono sprovvisti di buon senso e misura, per non dire altro. E quando piangono si tratta sempre di lacrime di coccodrillo.

*

sabato 28 marzo 2015

Se il lavoro non è una merce per quale motivo si vende e si compra? E perché il suo prezzo cala quando c'è troppa offerta?


Mi risulta oscuro (ma non tanto) il motivo adotto dal segretario della Fiom, Maurizio Landini, per affermare che “il lavoro non dove essere ridotto a merce”. Quale favola più bella agli orecchi dei padroni.

Ma che cos’è la merce? È il prodotto del lavoro, anche se non tutti i prodotti del lavoro umano sono merci. Solo in certe condizioni sociali, infatti, un prodotto si trasforma in merce: queste condizioni storicamente determinate sono rappresentate dai rapporti di produzione mercantili, basati sull’esistenza di lavori effettuati indipendentemente l’uno dall’altro e collegati dallo scambio.

Sia chiaro che la forma mercantile di produzione non s’identifica con il modo di produzione capitalistico: ad esempio, all’interno del modo di produzione antico e poi feudale esistevano già rapporti di mercato (produzione mercantile semplice).

È soltanto con il capitalismo che la produzione mercantile si sviluppa a tal punto da diventare la forma produttiva assoluta e dominante. Nella società capitalistica, infatti, si trasforma in merce non solamente il prodotto del lavoro, ma persino, con buona pace del simpatico e combattivo Landini, la stessa forza-lavoro umana. In questo modo, i rapporti di mercato penetrano fin dentro il processo di produzione diventando i rapporti generali e più frequenti della società.

*

venerdì 27 marzo 2015

“L’entusiasmo dei giorni d’agosto”


Se s’impone una scelta fra ingiustizia e disordine, diceva Goethe, il tedesco sceglie l’ingiustizia.

*

Quando pensiamo alla distruzione di una biblioteca, può venire in mente quella, mitica quasi, di Alessandria d’Egitto. Altri potrebbero citare la biblioteca descritta in un romanzo poi trasposto in peplum medievale. Più raro venga in mente la biblioteca di Sarajevo. Quando invece pensiamo al rogo doloso di libri ammonticchiati nelle piazze è quasi automatico pensare alle immagini dei falò organizzati negli anni Trenta in Germania. Quei libri eretici furono bruciati dai nazisti, e però dentro alle divise c’erano dei tedeschi. Un popolo che quasi ha stupito per la capacità di risollevarsi dalle distruzioni della seconda guerra, ma forse dovrebbe stupire molto di più che a questa nazione e alle sue classi dirigenti, macchiati dei più gravi crimini contro l’umanità, sia stata data la possibilità di ricostruirsi come grande potenza europea e mondiale, al punto che oggi il loro atteggiamento sprezzante e altero non è in sostanza molto dissimile dal passato.

Ed è per tale motivo che sta riemergendo e diffondendosi nel resto d’Europa e per converso in Germania quel sentimento di ostilità e risentimento fatto di reciproche accuse che già più volte è stato foriero di catastrofi. Non per questo si può tacere di quanto è accaduto in passato più volte, per esempio in un periodo in cui un importante storico berlinese così descriveva il clima emotivo della società tedesca: “L’entusiasmo dei giorni d’agosto del 1914 costituisce per tutti coloro che li hanno vissuti un elemento di altissimo valore, degno di ricordo perenne …..”.

*

mercoledì 25 marzo 2015

Uno specchio lontano


La sera del 9 agosto 1914, il generale Joseph Simon Gallieni, pranzando in borghese in un piccolo ristorante parigino,  sentì un redattore del quotidiano Temps, che sedeva al tavolo accanto, dire a un commensale: “La informo che il generale Gallieni è appena entrato a Colmar con tremila uomini”. Gallieni si avvicinò all’orecchio del suo amico che sedeva a tavola con lui e gli disse: “Et voilà comment on écrit  l’histoire!”.

*
Ogni guerra porta con sé follie e brutalità soprattutto a danno delle popolazioni civili, ma riguardo alle più efferate brutalità e agli eccidi, alla nostra memoria affiorano dapprima le immagini drammatiche e tragiche dei crimini di cui si è reso responsabile l’imperialismo e il militarismo germanico durante l’ultimo conflitto mondiale.

E dico questo senza voler minimizzare i crimini di altre potenze e assolvere il colonialismo, incluso quello italiano e l’ecatombe provocata dai belgi in Congo. Se leggiamo la biografia di quel generale Gallieni, ci rendiamo conto di quali terribili orchi era capace di partorire la civile Europa anche in tempi recenti. Non va dimenticato che le potenze coloniali, non esclusi gli Usa, a cavallo tra i due secoli si spartirono vaste aree del pianeta.

La lotta per la spartizione del mondo fu la causa principale del conflitto bellico 1914-1918 che costò la vita a milioni di persone, cui s'aggiunse l'epidemia di "spagnola" che falcidiò la popolazione debilitata a causa della guerra, con circa 50 milioni di morti su una popolazione mondiale che era un quarto di quella attuale.

*
Non per questo vanno dimenticati altri crimini commessi dallo stesso militarismo germanico in occasione di precedenti eventi bellici, per esempio quelli perpetrati subito dopo la sconfitta francese di Sedan (1870), quando all’improvviso nacque la resistenza francese. Anche allora la feroce rappresaglia tedesca, segnatamente prussiana, aveva stupito il mondo per la ferocia con le esecuzioni in massa di prigionieri di guerra e di civili sospettati di fare della guerriglia come francs-tireurs.

L’odio dei prussiani per i francesi ha origini antiche, tanto è vero che Federico Guglielmo III, nel 1814, ebbe a far coniare una medaglia commemorativa con la sua firma autografa nella quale venne incisa questa frase: “Dio fu con noi”.  Nulla di nuovo sotto il sole.

Nei cimiteri belgi ancor oggi si possono vedere delle lapidi con singolari iscrizioni, a proposito di fucilazioni di massa. Portano le date del 1914 e del 1940.

Nel 1914, lo stato maggiore germanico partiva dal presupposto che i belgi avrebbero dovuto farsi invadere senza porre alcuna resistenza significativa, limitandosi a sceneggiare una difesa fasulla tanto per salvare la faccia. Loro, i tedeschi, si servivano del corridoio belga, lungo la Mosa, per puntare su Parigi. A tale riguardo le parole espresse dal cancelliere tedesco Bethmann sono eloquenti, come ho ricordato in un post recente.

L’invasione del Belgio costituiva l’asse portante del piano d’attacco tedesco alla Francia messo a punto dal feldmaresciallo Alfred Graf von Schlieffen (†1913). In realtà non si trattava di un piano operativo vero e proprio , ma di un memorandum che aveva finalità diverse.  Al "piano" si attenne nell’agosto 1914 il suo successore, Helmuth Johann von Moltke (†1916), nipote del più noto Helmuth Karl Graf von Moltke (†1891).

Il grosso delle forze francesi nell’agosto 1914 fu schierato al centro dello schieramento, ossia in Alsazia-Lorena, cioè secondo il piano preordinato e cocciutamente perseguito, a sua volta, dallo stato maggiore francese nonostante fosse ormai chiaro che i tedeschi puntavano all’aggiramento della sinistra dello schieramento francese, passando per il Belgio.

Anche dopo l’invasione tedesca del Belgio, lo stato maggiore francese rimase fermo nella convinzione che quella belga fosse solo una manovra diversiva, pur se dal fronte giungevano testimonianze plurime che il grosso delle forze nemiche si trovasse proprio ai lati della Mosa. Tempo perso farlo intendere a dei generali che avevano elaborato un piano per una guerra offensiva senza aver mai preso in considerazione, nemmeno per ipotesi, di doversi posizionare sulla difensiva contro i tedeschi (*).

I vertici miliari francesi teorizzavano che se gli invasori avessero rinforzato la loro ala destra passando dal Belgio, sarebbe stato meglio perché in tal modo lasciavano meno forze al centro (Ardenne), laddove si sarebbe sviluppata l’offensiva francese. La realtà doveva dimostrarsi ben più tosta delle illusioni del generale Joseph Joffre (†1931), il quale aveva stampato in testa lo schema, molto articolato, del conflitto franco-tedesco del 1870, nel quale, tra l’altro, l’aggiramento delle forze francesi da parte di quelle prussiane avvenne in senso opposto di quanto stava per accadere nel 1914, cioè da destra e da sud dello schieramento francese, passando dalla Lorena, dai Vosgi e da Worth, quindi per Nancy e a sud di Verdun fino a risalire a Sedan, cioè lasciando neutrali sia il Lussemburgo che il Belgio.

Se la manovra tedesca avesse avuto successo, come tutto lasciava presagire ai tedeschi, avrebbe determinato l’annientamento delle insufficienti forze francesi (5a Armata) e inglesi (corpo di spedizione costituito di sole 4 divisioni) allineate sul tratto belga, e dunque aperto la strada per Parigi agli invasori. Il piano Schlieffen avrebbe avuto successo se la manovra di aggiramento dal Belgio fosse stata portata a termine con rapidità e con il massiccio impiego di tutte le forze.

Tali imprescindibili condizioni non si realizzarono per diversi motivi: dapprima per l’eroica resistenza opposta dai belgi che ritardarono l'avanzata tedesca; poi per la decisione del generale Charles Lanrezac (†1925) di non attaccare i tedeschi perché si trovava in situazione d’inferiorità e quindi ordinò il ripiegamento, fatto che permise la salvezza della 5a Armata e con ciò il successivo riscatto francese. Per questa sua decisione Lanrezac fu silurato da Joffre.

Meno noto un altro motivo dell’arresto dell’avanzata tedesca, che riguarda una singolare decisione dello stato maggiore tedesco.

Infatti, nel momento cruciale dell’avanzata, quando le truppe conquistarono Namur, Mons e Charleroi, lo stato maggiore tedesco, credendo ormai raggiunto l’obiettivo, decise di sottrarre forze essenziali al proprio slancio offensivo per inviarle in aiuto sul fronte russo. Il generale Erich Ludendorff (†1937), a capo delle operazioni sul fronte russo, fu sbalordito dalla notizia che gli dava il colonnello Tappen dal quartier generale di Coblenza, cioè dell’invio per ferrovia (benché le ferrovie belghe fossero distrutte) di ben tre corpi d’armata dal fronte occidentale a quello orientale.

Ludendorff, rendendosi conto dell’incredibile errore che si stava commettendo, supplicò lo stato maggiore dal desistere nell’inviare rinforzi sottraendoli al fronte occidentale, dove giudicava fossero indispensabili, oltretutto perché la battaglia di Tanneberg (Laghi Masuri) era già in pieno e vantaggioso svolgimento e quelle forze aggiuntive, quando fossero sopraggiunte, non avrebbero avuto peso in quello scontro. L’appello rimase inascoltato, poiché pesarono considerazioni prevalentemente di carattere non militare, che qui sarebbe lungo esporre in dettaglio.

In sintesi, a mandare a monte il piano germanico fu l’insufficiente concentrazione di forze nel punto cruciale dell’attacco, cosa che impedì riportare una vittoria decisiva e di perseguirla fino al punto di sfasciare l’esercito francese. Come dimostra l'intervento della 1a Armata tedesca in soccorso della 2a Armata, a Guise, il 29 agosto, con ciò deviando sulla sinistra della direzione di marcia. Mancò la coordinazione tra le varie grandi unità e soprattutto la rapidità di movimento (il tempo è più atto a produrre circostanze favorevoli al perdente che non al vincitore, laddove l’invasore non trovi altri vantaggi consistenti nel possesso dei territori conquistati), impedita, come detto, dalla sorprendente e tenace resistenza opposta dai belgi. Ciò non poteva che costituire fonte di acceso risentimento dei tedeschi verso i belgi, tanto più che questi sabotavano le linee di comunicazione degli invasori.

Ed infatti il 23 agosto 1914 comparvero a Liegi dei manifesti in cui il generale Karl von Bülow, comandante della 2a Armata, comunicava di aver dato alle fiamme il borgo di Andenne nei pressi di Namur, sulla Mosa, e fatto fucilare 110 persone quale rappresaglia per non meglio specificata aggressione alle truppe tedesche. Secondo i belgi le persone uccise furono 211. A Seilles, poco lontano, furono uccisi 50 civili e le case saccheggiate e incendiate. A Tamienes l’orda di soldati ubriachi fucilò 400 civili fatti raggruppare nella piazza principale. Al termine dell'esecuzione quelli ancora vivi vennero finiti a colpi di baionetta. Nel cimitero locale vi sono 384 lapidi con l’iscrizione: 1914 Fusillé par les allemands.

Poi l’armata di Bülow prese la cittadina di Namur, vennero affissi dei manifesti in cui si diceva che si stavano prelevando dieci ostaggi per ogni strada, e se un civile avesse sparato a un soldato sarebbero stati uccisi dieci ostaggi. Si trattava di una pratica ordinaria prendere ostaggi e fucilarli, soprattutto tra le persone con cariche pubbliche e gli intellettuali. Quando le truppe del generale Alexander von Kluck, comandante della 1a Armata, entravano in un centro abitato affiggevano gli stessi manifesti, prendevano in ostaggio il borgomastro e altri notabili e una persona per ogni strada. Ma ben presto non bastò e le persone per ogni strada divennero dieci. Nella cittadina di Visé gli spari delle fucilazioni di massa si sentivano fino a Eysden, in Olanda. Seguirono le deportazioni in Germania per la mietitura e altri lavori.

A Dinant, sulla Mosa, il 23 agosto i sassoni della 3a Armata del generale Max von Hausen rastrellarono “diverse centinaia di ostaggi”, tra i quali donne e bambini. Furono allineati in due file, le donne da una parte e i maschi dall’altra, inginocchiati. Due gruppi di soldati spararono loro finché tutti i bersagli non furono a terra. Uno degli assassinati era Felix Fivet, di tre settimane. Eccetera.

Un quarto di secolo dopo l'esercito di Hitler non inventò nulla di nuovo quanto a ferocia.

I tedeschi erano ossessionati dalle violazioni del diritto internazionale compiute – a loro dire – dai belgi che sabotavano le loro linee di comunicazione, distruggendo ponti e tagliando i fili del telegrafo. Non gli passava per la mente di quali violazioni si erano resi responsabili invadendo un paese pacifico e neutrale.

Bülow, Kluck e Hausen morirono, colmi di onorificenze, in pace nel proprio letto, e al loro funerale furono tributati gli onori dovuti.  

*
Paul von Hindemburg, richiamato in servizio, si trovava in quel momento a comandare nominalmente l’esercito sul fronte russo. Più tardi ebbe a scrivere nella sua autobiografia: “Esiste un libro che non è mai invecchiato: Della guerra. Il suo autore è Clausewitz. Egli conosceva la guerra e conosceva gli uomini. Avremmo dovuto ascoltare e seguire i suoi consigli, sarebbe stato meglio per noi” (Dalla mia vita, 1925).

Carl von Clausewitz († 1831), nel suo celebre libro (molto citato e pochissimo conosciuto), nel capitolo dedicato alla “guerra di popolo” del Libro VI, non parla di “rappresaglia”, bensì di “punizione” (Strafe) per gli atti di guerriglia compiuti da civili, di villaggi saccheggiati, incendiati, ecc.. Clausewitz  nel Libro II parla di “principio del terrore”, e nel capitolo 16° del Libro V, quando parla della difesa delle linee di comunicazione, scrive che l’esercito deve profittare “del timore e del terrore che la propria presenza incute negli abitanti” (la versione originale tedesca è anche, se possibile, più incisiva della traduzione italiana).

Nel suo saggio, I cannoni d’agosto, Barbara Tuchman scrive che “Clausewitz aveva indicato nel terrore un metodo appropriato per abbreviare la guerra [si rammenti quanto avvenne in Spagna durante l’invasione napoleonica]; infatti la sua teoria era basata sulla necessità di rendere la guerra breve, brusca e decisiva. La popolazione civile non doveva essere risparmiata dalla guerra, ma doveva sentirne la pressione e costretta, da misure più severe, a spingere i suoi capi a fare la pace. Questo dettame – continua la Tuchman – apparentemente sensato veniva a quadrare con la teoria scientifica della guerra che era il risultato di un vivo sforzo intellettuale da parte dello stato maggiore tedesco per tutto il diciannovesimo secolo” (p. 368).

Da questa premessa “scientifica” degli stati maggiori germanici del XIX secolo, la Tuchman ricaverebbe il motivo, sotto il profilo teorico, da cui discenderebbero poi gli atti di sconsiderata rappresaglia perpetrati dai prussiani nel 1870 e dai tedeschi nel 1914. Anche dei teorici e storici militari, come per esempio Fuller e Liddell Hart, hanno affermato che Clausewitz, con la sua concezione della guerra come strumento di una politica avente lo scopo di “disarmare l’avversario”, è il teorico della distruzione fisica del nemico, padre spirituale della scuola strategica che ha provocato i massacri delle due guerre mondiali e che ha posto la politica al servizio della guerra e non viceversa.

Indubbiamente la scuola strategica tedesca del periodo post moltkiano ha dato un’interpretazione estremista alle idee clausewitziane, provocando un’inversione di concetto di preminenza della politica rispetto alla guerra. Tuttavia Clausewitz fa una netta distinzione tra guerra assoluta (che è un concetto astratto) e guerra reale, e sostiene la possibilità di limitare l’escalation degli eventi. Inoltre è del tutto evidente che egli pone la “grammatica” militare in obbedienza alla “logica” e agli scopi della politica. Non per nulla egli dà preminenza al combattimento rispetto all’ordine generale della manovra, riconoscendo esplicitamente che la manifestazione più completa di tale atteggiamento è rappresentata dalla battaglia d’annientamento napoleonica, la quale non presuppone la distruzione totale del nemico e la lotta a morte, ma solo la resa dell’avversario e l’apertura delle trattative (**). Senza dire che per Clausewitz i rapporti politici non cessano allo scoppio delle ostilità.

Ludendorff, influente esponente della casta militare tedesca, riconsiderava la celebre frase clausewitziana nel senso che la guerra è la continuazione della politica estera con altri mezzi, e poi completava la massima sostenendo che l’intera politica dovrebbe essere al servizio della guerra. Si tratta di un punto di vista idealistico il quale non tiene conto che le forme e l’intensità della guerra, come elemento della totalità politica che la contiene, dipendono dal momento storico e dalle circostanze.

Del resto cosa aspettarsi da delle mentalità forgiate in un ambiente dove l’esercito era l’essenza dello Stato, il corpo ufficiali la classe più elevata nella società, un generale comandante un grado superiore a quello di un ministro, il servizio militare la scuola della nazione, nella quale il popolo, come affermava il vecchio Moltke, era educato “al vigore corporale, all’amor patrio e alla virilità”. Insomma, lo spirito e la disciplina militare permeavano ogni aspetto della vita, dalla culla alla tomba. Quando ci provò Mussolini con gli italiani a scimmiottare i tedeschi, il tentativo, dapprima assolutamente comico, di farne un popolo guerriero, finì in umiliante tragedia.

Infine a voler considerare le cose sul piano della dialettica, c’è da osservare come tra fini e mezzi intervenga sempre un terzo elemento: il caso. E, dal punto di vista del materialismo storico, rilevo come assolutamente idealistico il concetto clausewitziano secondo cui lo Stato abbia dei propri interessi e che la politica costituisca “l’intelligenza dello Stato personificato”. La politica di uno Stato è innanzitutto espressione degli interessi della classe dominante, e dunque anche il concetto di guerra come strumento razionale della politica estera degli Stati poggia su tale premessa.

La vera guerra è quella tra le classi sociali degli sfruttati e dei loro sfruttatori, tra chi vuole lasciare le cose come stanno e impedire il mutamento di civiltà che si profila all’orizzonte, e coloro che per contro, costretti dalle circostanze, prenderanno “l'armi contro un mare di triboli e combattendo disperderli”.

(*) Negli stati maggiori di ogni esercito raramente primeggiano le menti più brillanti, poiché la selezione per i posti di vertice segue criteri di anzianità e logiche politiche, senza troppo riguardo per le capacità professionali e le doti intellettuali degli ufficiali. Nei paesi belligeranti della prima guerra, per un lungo periodo e in taluni casi per tutta la durata del conflitto, a gestire e decidere furono in modo assoluto dei generali ancorati a concezioni belliche superate sia sotto il profilo tattico che strategico dall’introduzione dei nuovi armamenti (p. es. la mitragliatrice). L’esito di tali antiquate concezioni, la perseveranza con la quale quelle idee venivano imposte, produsse inediti massacri.

C’è da chiedersi se le classi dirigenti non vedessero di buon occhio quei massacri che comportavano l’eliminazione di tanti proletari e allontanavano i pericoli di sovversione sociale. La guerra servì a sfiancare la lotta parlamentare e sindacale. Al Reichstag i socialdemocratici contavano su una presenza ragguardevole di propri rappresentanti (110 seggi), e una base elettorale di quattro milioni; tuttavia, data la legge elettorale di tipo non proporzionale, una forza di opposizione isolata, cioè non in coalizione con altre forze, nello scontro nei collegi elettorali dov’era minoranza perdeva tutti i voti raccolti. Pur essendo il primo partito, i socialdemocratici non raccoglievano un numero di seggi adeguato alla loro forza. Il sistema elettorale maggioritario è l’escamotage delle classi dominanti per tenere in scacco le forze di opposizione sociale.

Oltretutto si deve considerare che oltre al Reichstag, dove si faceva soprattutto dibattito politico, esistevano anche i parlamenti locali, e d’importanza essenziale era ovviamente quello prussiano, cioè la Camera Alta. In essa un terzo dei seggi era riservato ai proprietari fondiari, un altro terzo agli alti burocrati e alla casta militare, dunque solo un terzo dei seggi poteva essere occupato dagli altri. Come si vede, le élite trovano sempre il modo per disinnescare la forza dei movimenti dal basso. Alla loro dittatura si può rispondere in un solo modo efficace: con la dittatura degli sfruttati e la liquidazione degli sfruttatori.

(**) «Così, dall’epoca di Bonaparte, la guerra, divenendo dapprima per l’una parte poi per l’altra una causa nazionale, cambiò interamente di natura; o piuttosto si avvicinò molto alla sua essenza originaria, alla sua perfezione assoluta. I mezzi impiegati non ebbero più limiti visibili; questi limiti si confusero nell’energia e nell’entusiasmo dei governi e dei sudditi. L’energia nella condotta della guerra venne straordinariamente aumentata, sia per l’entità dei mezzi, sia per l’esaltazione veemente dei sentimenti. Scopo militare divenne l’abbattimento dell’avversario; solo dopo averlo abbattuto e reso impotente, si credette di potersi arrestare per intendersi sui reciproci scopi. E così l’elemento della guerra, sbarazzato da ogni barriera convenzionale, irruppe con tutta la sua naturale violenza» (Della guerra, Stato Maggiore R. Esercito, 1942, Libro 8°, pp. 793-94).

Viola


Immagino che il nome di Viola Liuzzo non dica nulla. Nemmeno a me che del “dettaglio” storico ho fatto qualcosa di più di un passatempo, nel vano tentativo, ahimè, di difendermi dall’elevato grado di arbitrarietà di cui è oggetto la storia, a cominciare dalle rappresentazioni dell’ideologia vincente e dalle sue celebrazioni politiche. Una piccola “revanche” contro la letargia dell’intelligenza critica cui le pratiche spettacolari ci sottopongono.

Una volta disinnescata la memoria e l’eredità di lotte secolari, diventa molto più difficile esprimere un pensiero antagonista, per non parlare poi di una volontà capace di sovvertire i rapporti di forza che dominano la società. E quando altresì la storia non può essere seppellita, si lavora per renderla inoffensiva. I suoi protagonisti, perseguitati e diffamati in vita, dopo morti diventano icone nel pantheon dell’ipocrisia elitaria, il loro riscatto è la prova che il sistema infine riconoscere i propri errori e sa emendarsi.


La vicenda di Viola Liuzzo è precisamente parte di questo genere di vicende personali e storie collettive che, non potendo essere cancellate, il sistema cerca di canonizzare, avvilendole e svuotandole di sostanza.

Viola, il cui cognome da nubile era Gregg, fu una militante per i diritti civili in Alabama, moglie di Anthony James Liuzzo e madre di cinque figli (Penny, Maria, Tommy, Tony e Sally). Il 25 marzo 1965 venne uccisa a colpi di pistola, mentre si trovava in auto, da alcuni elementi del Ku Klux Klan, vicino a Lowndesboro. Si batteva per il diritto di voto dei neri, un diritto di fatto impossibile da esercitare nella libera e democratica America degli anni Sessanta! Inutile dire che i suoi assassini, pur trattandosi dell’omicidio di una donna bianca, se la cavarono molto a buon mercato. Superfluo anche raccontare il ruolo avuto dall’Fbi.


Oggi, negli Stati Uniti, dove la sua vicenda è fin troppo nota per essere nascosta o dimenticata, Viòla è collocata tra i 40 martiri della lotta dei neri per i diritti civili. Un altro santino da portare in processione in una società dove l’apartheid è un dato di fatto.

martedì 24 marzo 2015

Molto di più


Ieri sera ho ascoltato per qualche minuto, poi ho spento il televisore, un esponente del Pd (non ne sconosco il nome e del resto non è importante distinguerlo dagli altri) secondo il quale il lavoro non è un diritto ma deve essere una dura e quotidiana conquista a denti stretti. Il segretario della Fiom, Landini, dal canto suo ha dichiarato che non è più di “sinistra”. Parole retrodatate .

Qualunque cosa si possa dire della meschinità del presente, le parole sono insufficienti e impotenti. E non c’è nulla che possa suggerirci di andare oltre le parole. E poi se non altro ci sono ragioni anagrafiche, e di dignità. In generale, la dignità nelle nuove generazioni è in eclissi, sono incapaci anche solo di esprimersi con parole appropriate alle situazioni. Di fronte al terrorismo di Stato, tacciono oppure oppongono il solito refrain di luoghi comuni.


Del resto le parole appropriate non si possono nemmeno pronunciare senza incorrere in minacce penali, come dimostra la vicenda di Erri De Luca. Il minimo atto di resistenza concreta, poi, viene perseguito con condanne al carcere pesantissime e assurde. Si vuol stroncare sul nascere ogni forma di resistenza al terrorismo di Stato, uno Stato che ha perso ogni legittimità anche sotto il profilo dei più elementari fondamenti costituzionali. Ecco perché non basta denunciare che la “sinistra” non esiste più, fatto pacifico da decenni. La dinamica delle cose è più avanti. Molto di più.

lunedì 23 marzo 2015

Il cadavere della Grecia e la Pax germanica


Il significato estensivo del termine strozzinaggio, secondo il dizionario, è: pretesa economica eccessiva, fatta da chi approfitta di una situazione favorevole (per lui, ovviamente). Che la Germania e la Francia, tra tutti, abbiano riempito le tasche dei loro banchieri e fabbricanti, mi pare non vi sia più nessuno che lo metta in dubbio. Ne scrivevo in modo dettagliatissimo, almeno per quanto riguarda le spese per armamenti, nel marzo del 2010, anni prima che altri scoprissero l’acqua calda. In un post del luglio successivo, osservavo:

C’è da chiedersi se il popolo greco, segnatamente i lavoratori greci, hanno bisogno di acquistare le merci germaniche, anzitutto i carri armati Leopard e i sottomarini Type 214, acquistati dalla tedesca ThyssenKrupp Marine Systems AG tramite istituti di credito tedeschi.

*

Il cadavere della Grecia puzza sempre di più alle narici d’Europa, soprattutto a quelle dei tedeschi. Chi crede che i tedeschi siano cambiati rispetto ai loro nonni e bisnonni, si sbaglia. Essi si sentono incaricati dalla storia di portare ordine, disciplina ed efficienza ai popoli barbari, con quel loro disprezzo, palese o malcelato, soprattutto per i latini, per non dire di noi italiani, camerieri, bagnini, pizzaioli, truffatori, tutti “napoletani”.  

Se un personaggio come Thomas Mann diceva che i tedeschi sono la gente più istruita, più disciplinata, più pacifica della terra, e che perciò essi meritano di essere anche i più potenti, di dominare, di instaurare la “pace germanica” come risultato di “quella che viene definita con piena giustificazione la guerra germanica”, figuriamoci cosa potevano pensare e dire gli altri tedeschi!

E, difatti, nell’agosto 1914, uno scienziato tedesco, sedendo in un caffè ad Aquisgrana, mentre le truppe germaniche bruciavano i villaggi belgi e trucidavano in massa i loro abitanti, ebbe a dire al giornalista americano Irvin Cobb:


“Noi tedeschi siamo la razza più industriosa, più seria, meglio educata d’Europa. La Russia è reazionaria, l’Inghilterra egoista e perfida, la Francia decadente, la Germania è il paese del progresso. La Kultur illuminerà il mondo; e mai più vi saranno guerre dopo di questa.»

domenica 22 marzo 2015

Il futuro della rivoluzione sociale è già qui, asini!


I contributi che l’intellighenzia “de sinistra” offre all’ideologia borghese sono insostituibili per il mantenimento dello status quo quanto quelli che l’intellighenzia “laica” spalma in lode del papato sono essenziali al mantenimento in vita del cattolicesimo. È il turno di Alessandro Gilioli di raccontarci la sua versione della crisi del capitalismo e di come risolverla, lo fa con un lungo intervento nel suo blog dal titolo: Capitalismo, tecnologia e welfare universale.

Scrive Gilioli: “la macchina del capitalismo si inceppa malamente. Senza i consumi, infatti, non funziona”. In dettaglio: “Un precario, per antonomasia, non aiuta la ripresa la consumi. E' questa la contraddizione principale dell'ideologia neoliberista: cercare di rendere i lavoratori flessibili mantenendo i consumatori voraci. Non può funzionare”.

Bravo, non può funzionare all’infinito. E però questo non dipende dalla contraddizione principale dell'ideologia neoliberista, come Gilioli dà da bere ai suoi lettori, poiché prima ancora tale contraddizione principale riguarda un fatto concreto e non solo una concezione  ideologica, ossia concerne la contraddizione su cui poggia il modo di produzione capitalistico. Ma procediamo per gradi.

sabato 21 marzo 2015

[...]


Lo spettacolo ha bisogno di simboli qualificati, lo sappiamo bene. Perché un prete argentino diventi una star è sufficiente vestirlo di bianco e fargli dire qualche banalità sulla povertà. A farci inumidire gli occhi ci pensa la propaganda laica. E vedi mai che dei poveri cristi di tunisini e di turisti in crociera suscitino una qualche forma di empatia com’è stato invece per i martiri della libertà d’espressione europea. Sui morti di Tunisi, prima calerà il sipario e meglio sarà. Soprattutto per il business turistico. L’obiettivo, quello di metterci paura del feroce Saladino, è stato raggiunto. Sui milioni di vittime e di profughi causati dalle guerre del capitalismo non si spende una parola.

*



Questa foto eloquente ci dice chi rappresenta il potere economico finanziario in Europa.

venerdì 20 marzo 2015

Quanto ne sappiamo?


L'ultimo abominio in una camera della morte degli Stati Uniti ha avuto luogo nella notte di martedì scorso nello Stato del Missouri, quando a Cecil Clayton, 74 anni, è stato iniettato del pentobarbital, uccidendolo. L’esecuzione è avvenuta nonostante le prove schiaccianti della sua disabilità mentale.

Nel 1972, Clayton stava lavorando in un deposito di legname, quando un pezzo di legno lo ha colpito alla testa. I chirurghi sono stati costretti ad asportare un quinto del suo lobo frontale, l'area del cervello che controlla funzioni psichiche fondamentali. Prima d’allora, come scrive il Washington Post, Clayton era una persona normale, lavorava part-time anche per una casa di cura locale, soprattutto non beveva, cosa di per sé straordinaria negli Stati Uniti, laddove la maggioranza della popolazione adulta, di qualunque classe sociale, assume abitualmente cospicue dosi di alcol.

Perfino compassionevoli

«Tali sono i funesti paralogismi che, se non con chiarezza, confusamente almeno,
fanno gli uomini disposti a' delitti, ne' quali, come abbiam veduto,
l'abuso della religione può piú che la religione medesima.»
(Beccaria, Dei delitti ..., cap. 28)



Ogni ideologia, e con essa ogni religione che dell’ideologia è una componente importante, si manifesta in forme e modi diversi nell’atteggiamento delle persone. Le motivazioni che muovono queste persone sono di carattere ideologico, ma le cause del loro comportamento hanno radici sociali ben più profonde. Orripiliamo alla vista di certe immagini di sgozzamento, ma se andiamo a leggere le cronache di epoche recenti e di quelle un po’ meno recenti, su come avvenivano le esecuzioni capitali, i fanatici tagliagole di oggi potrebbero apparirci perfino compassionevoli nei loro atti pur esecrandi. Quando alle motivazione religiose si sostituiranno delle motivazioni politiche, le atrocità e i gesti d’insensatezza non per questo cesseranno, come del resto lo scontro tra israeliani e palestinesi dimostra, ma anche come ha dimostrato il terrorismo basco o irlandese, quanto è avvenuto nel carcere di Stammheim o nei carceri italiani, oppure come mostra Guantanamo. A riguardo di quest’ultimo, vorrei segnalare l’articolo di Vittorio Lingiardi dal titolo Sofferenza senza confini apparso sull’ultimo Domenicale de Il Sole 24ore.

giovedì 19 marzo 2015

Parliamo di fatti


Siamo distratti dalle opinioni, ma i fatti vanno avanti per conto loro, sempre testardi. E con i fatti intendo, tra l’altro, la nuova corsa agli armamenti. Parliamo dunque di questo genere di fatti, e segnatamente di sommergibili. Ai sommergibili ho dedicato tre post molto divulgativi, giusto quattro anni or sono. In particolare ho posto l’attenzione sull’evoluzione di questo genere di scafi fino al modello tedesco denominato Typo XXI, di cui un esemplare divenne operativo solo nelle ultime settimane di guerra e che può essere considerato l’antesignano delle imbarcazioni convenzionali successive.

mercoledì 18 marzo 2015

Non è adatto a un pubblico televisivo


La puntata di oggi della trasmissione Il tempo e la Storia aveva per tema il taylorismo e il fordismo. Come consulente presente in studio lo storico Lucio Villari, il quale non ha saputo spiegare la differenza tra la prima e la seconda rivoluzione industriale. Secondo lo storico la prima rivoluzione industriale è consistita nella “divisione sociale del lavoro”, ossia nella parcellizzazione del lavoro; la seconda rivoluzione industriale, invece e all’opposto, è consistita nel coinvolgere l’operaio nel processo produttivo complessivo e con ciò nello sviluppare nel lavoratore un interesse per le sorti della produzione e della fabbrica che l’impiega. Lo stesso conduttore del programma, Massimo Bernardini, è dovuto intervenire chiedendo ragguagli. L’esempio che ne è seguito è stata la classica pezza peggio del buco. Ad ogni modo non è questo che m’interessa rilevare.

Lampi di guerra nell'Egeo



Oggi c’è il freccia rossa e il freccia argento (e, per la madonna, anche certi treni per pendolari!) e si stenta a credere che fino a circa 40anni or sono vi fossero ancora delle tratte ferroviarie servite con locomotive a carbone. Tra gli anni sessanta e i primi anni del decennio successivo ho viaggiato in alcuni casi proprio con quei treni trainati da vecchie locomotive a carbone. Nulla di romantico, posso assicurare. La prima volta viaggiai sulla Belluno-Calalzo, subito prima della strage del Vajont, poi anche nell’Italia centrale, per esempio.

D’estate, con i finestrini aperti (l’aria condizionata nei treni non solo non era ancora realtà, ma nemmeno concetto), poteva entrare la caligine fuoriuscita dal fumaiolo del locomotore. Si adagiava calma e silente sui vestiti. D’istinto si soffiava per toglierla, poi si provava con altri metodi empirici e tragici. Credo che in certe condizioni di vento la stessa cosa accadesse ai passeggeri che viaggiavano con i piroscafi alimentati a carbone, in epoche precedenti a quella di cui sto dicendo.

A proposito di piroscafi, ve n’erano che percorrevano, agli inizi del secolo scorso, la tratta tra Venezia e Costantinopoli. Arrivare nell'antica capitale bizantina via mare, cioè ad Istanbul, è emozionante ancor oggi, specie se la traversata dell’Egeo è stata di notte in situazioni di burrasca, come è capitato a me. All’imbocco del Mar di Marmara, oggi come ieri, le navi di una certa stazza imbarcano un pilota locale come guida. Il museo d’arte orientale di Istanbul, pochissimo visitato, merita il viaggio nella città turca già per i suoi giganteschi sarcofagi di Sidone con splendidi bassorilievi.

*

martedì 17 marzo 2015

“Su tutta Europa le luci si stanno spegnendo ... "

«Quale che sia la nostra sorte, il 4 agosto 1914 rimarrà memorabile in eterno come uno dei giorni più gloriosi della storia della Germania».

Queste parole venivano pronunciate al Reichstag, con l’enfasi delle grandi decisioni, dal cancelliere Theobald von Bethmann-Hollweg, figlio di Felix, un ufficiale prussiano proveniente da un'importante famiglia di banchieri, e di Isabella Frédérique Louise de Rougemont, anch’essa figlia di banchieri, ma elvetico-francesi (*).

Le truppe tedesche il 2 agosto avevano varcato il confine lussemburghese, l’invasione del Belgio era già iniziata quel 4 agosto, e il giorno prima la dichiarazione di guerra era stata consegnata alla Francia, facendo seguito a quella consegnata alla Russia il 1° di agosto (**). Come aveva previsto Bismarck, un incidente nei Balcani si trasformò in una carneficina internazionale. 

Solo un promo


Oggi volevo scrivere un post avente per tema due formidabili navi da guerra turche costruite nei cantieri inglesi, e poi due navi da guerra tedesche in fuga dalla flotta inglese nel Mediterraneo, due navi della Kaiserliche Marine che diventeranno turche. Navi germaniche ribattezzate turche che poi si batteranno con la potente flotta russa del Mar Nero. Immaginiamoci gli ufficiali e i marinai tedeschi con il fez (ho recuperato una foto).

Il nipote dell’ammiraglio tedesco a capo delle due navi divenute turche fu uno degli assassini di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. Una delle due navi avrebbe trasportato la salma di Mustafa Kemal detto Atatürk. Durante lo scontro tra le due navi da guerra tedesche, non ancora divenute turche, con un incrociatore inglese, si trovò a passare un battello passeggerei partito da Venezia e diretto a Costantinopoli. Chi c’era a bordo? No, non mio nonno, non ancora.

Che pasticcio di situazioni e intreccio di vite. La fuga delle due navi da guerra tedesche, la figura barbina dalla flotta inglese, costituirono grave menda sul curriculum di un certo Churchill, bellicoso primo Lord dell’Ammiragliato. Mancò agli inglesi soprattutto d’immaginazione, uno dei fattori essenziali nei “centrali” di partita. E mancò la fortuna (comunque denominata), fattore fondamentale in guerra così come nella vita.


C’è chi sostiene che questo episodio d’esordio della prima guerra mondiale ebbe un impatto dapprima politico e poi strategico sul conflitto. Tanto da determinare il corso della storia russa. La mia opinione è un po’ diversa, ma questo è solo il promo (o trailer, se preferite), il post forse lo scriverò nei prossimi giorni. Più tardi cucinerò ugualmente un post su un tema storico, ma non alla marinara, bensì uno Schlachtplatte alla berlinese. Piano con la salivazione, non è ancora ora di pranzo.

lunedì 16 marzo 2015

«Gli Stati Uniti sono l'unico paese al mondo in cui i bambini sono condannati a morire in carcere»


Negli Stati Uniti d’America ogni anno gli arresti di minori sotto i 15 anni sono almeno 500.000, 120.000 fra i 10 e i 12 anni e 20.000 i minori sotto i 10 anni d'età. Sono stati arrestati bambini di meno di 6 anni. Un bambino o un adolescente può essere ritenuto responsabile di reati e subire la condanna a pene detentive previste per gli adulti e da scontare nelle carceri per adulti. Secondo dati ufficiali, erano 70.792 nel 2010 e 61.423 nel 2011 i minori detenuti, tra i quali 19.014 (2011) nelle prigioni per adulti. Di questi 427 i minori con meno di 13 anni di età, 952 hanno 13 anni, 2.135 hanno 14 anni, 3.967 hanno 15 anni, eccetera.

Secondo l’American Civil Liberties Union, fondata nel 1920 da Roger N. Baldwin, sono 2.570 i minori condannati all’ergastolo senza condizionale ("life imprisonment", detto anche "life punishment"). L'ergastolo senza condizionale non va confuso con pene ugualmente pesanti come, ad esempio, la condanna a più di 100 anni di prigione, che è una pena cumulativa di pene minori, ma con cui si può accedere comunque alla liberazione condizionale, quando si ha scontato quasi metà della pena. Inoltre esiste la condanna all'ergastolo discrezionale, nota come "da 5 anni all'ergastolo", in cui il detenuto resta imprigionato fino a che una commissione non decida altrimenti, senza che il detenuto possa avere diritto alla libertà condizionale [*].

Sui media occidentali non viene spesa una parola di questa barbarie. Il New York Times dello scorso 13 dicembre dà notizia di una sentenza della Corte suprema in cui è stabilito che un minore di 18 anni può essere condannato al carcere a vita senza condizionale, ma solo dopo aver considerato la giovane età come attenuante!!

domenica 15 marzo 2015

L’ultima parola del pensiero razionale


Per quanto si discuta su come uscire dai disastri sociali attuali e da quelli incombenti e irreversibili che riguardano la salute del pianeta, dalla crisi economica così come dagli effetti delle emissioni antropiche, non c’è alcuna evidenza d’inversione di tendenza, di idee e di progetti la cui applicazione trovi poi positivi risultati.

Degli effetti delle emissioni del cosiddetto gas serra si parla almeno dal rapporto delle Accademie americane delle scienze presentato dal presidente Johnson al Congresso nel 1965. Da allora gli studi, le pubblicazioni, i convegni, i protocolli e le grida dall’allarme non si contano. E tuttavia è di questi giorni la notizia che la concentrazione di CO2 aumenta dopo aver segnato il record nel 2013.

La nostra epoca detiene i mezzi tecnici per alterare in via definitiva le condizioni di vita sul pianeta. I ghiacciai fondono, gli oceani acidificano, il livello dei mari aumenta insieme alla concentrazione atmosferica di CO2 e alla temperatura globale, e non si fa nulla per raggiungere un effettivo accordo internazionale sulla immediata e drastica riduzione delle immissioni e dell’inquinamento in generale, per fermare il disboscamento, per limitare le monoculture e l’inaridimento di vaste aree del pianeta.

Tali accordi non sono possibili per l’opposizione di troppi interessi in campo, per la frammentarietà dei poteri, per il carattere dei rapporti tra le diverse nazioni, ma anzitutto perché il modo di produzione capitalistico segue le sue leggi e ogni misura di riforma è semplice placebo.

Oggi siamo giunti al punto in cui non è più possibile risolvere nessun problema senza imboccare la lunga e tortuosa strada della rivoluzione globale. Rivoluzione o morte non è più un’espressione poetica, o un auspicio rivolto in chiave etica al bisogno del cambiamento; essa è diventata una necessità, l’ultima parola del pensiero razionale.

Pertanto, essere razionali oggi significa essere per la rivoluzione. Il resto sono, quando va bene, seghe mentali!


E tuttavia finché abbiamo di che scaldarci quando fa freddo e di che rinfrescarci quando è caldo, garantito il necessario e un po’ di quella che chiamano opulenza, finché avremo rappresentata la nostra e l’altrui vita come un continuo spettacolo, la borghesia può dormire sonni tranquilli. Quando verranno meno queste garanzie e certezze, solo allora esploderà la rabbia, s’impiccheranno ai lampioni alcuni veri furfanti e molti capri espiatori.

La vostra guerra è la nostra guerra



In Egitto sono state emesse 1400 condanne a morte, divenute già esecutive. E tuttavia i leader democratici dell’occidente, il segretario di Stato John Kerry, i maggiori tecnocrati della finanza, tipo Christine Lagarde, hanno partecipato a Sharm el-Sheikh all'apertura di una Conferenza per lo sviluppo economico, impegnandosi a finanziare il regime dittatoriale e sanguinario del generale Abdel Fattah al-Sisi, colui che con un colpo di Stato ebbe a defenestrare l’allora presidente Mohamed Morsi, regolarmente eletto. Dei capi di Stato e di governo dei G-7 c’era solo l’italiano Matteo Renzi.


Tutti in fila per firmare lucrosi contratti con l’Egitto, ben sicuri che il terrore politico garantirà salari bassi e alti profitti (i salari medi sono tra i 1.000 e le 1.700 lire egiziane, vale a dire mediamente sui 150 euro il mese). Gli scioperi operai, soprattutto quelli dei lavoratori del tessile, sono stati repressi con brutalità, nel silenzio assordante dei media occidentali. Una nuova legge approvata dalla giunta di al-Sisi solleva da ogni responsabilità penale i dirigenti delle aziende per qualsiasi cosa dovesse succedere ai lavoratori all’interno delle fabbriche. Le lotte che hanno portato alla sollevazione contro Mubarak nel 2011, sono state già dimenticate. I facinorosi arrestati e condannati. “La vostra guerra è la nostra guerra, e la vostra stabilità è la nostra stabilità”, ha detto Renzi.

sabato 14 marzo 2015

Giornali


Quando la Cina nella seconda metà del XIX secolo aprì obtorto collo all’Occidente, inviò alcuni suoi dignitari a visitare gli Stati Uniti e i paesi europei. Per una strana combinazione di gerarchia e di rifiuti, toccò a un mandarino di classe non elevata e impiegato all’ufficio delle dogane, certo Binchun, mettersi in viaggio verso i paesi dei “diavoli bianchi”. Si recò in undici paesi e visitò città, fabbriche, musei, cantieri navali, ospedali ed entrò in contatto con ogni tipo di persone, dai monarchi alle anime comuni. Rimase stupito dalle città illuminate e non meno dei treni su quali viaggiò decine di volte: “sembra di volare”, scrisse. Prese nota che le macchine potevano migliorare la vita delle persone. Ebbe a considerare che le pompe d’acqua usate per l’irrigazione avrebbero potuto, se usate in Cina, rendere fertili le terre ed evitare la siccità. Ebbe ad annotare anche questo:

«Agli occidentali piace essere puliti, e i loro bagni e gabinetti sono lavati fino a diventare immacolati. L’unico aspetto negativo è che essi gettano giornali e riviste nelle feci, dopo averli letti, e talvolta se ne servono per pulire la lordura. Sembra che non rispettino e non apprezzino quanto vi è scritto.»


(La citazione di Binchun è tratta da: Jung Chang, L’imperatrice Cixi, trad. di Elisabetta Valdré, Longanesi 2015, p. 97).