lunedì 12 maggio 2014

In concreto e per il momento


Chi vota, danneggia anche te; digli di smettere.

Oggi la condizione dell’operaio in fabbrica (il discorso si può allargare a molte altre attività lavorative), nella sua essenza (non semplicemente commisurata alla fatica fisica, per quanto la sua situazione non sia uguale in ogni contesto), non è dissimile a quella di un secolo fa: otto ore in piedi davanti a un tornio (sia pure a controllo) oppure seduti inchiodati ad una macchina da cucire, con i ritmi di una catena di montaggio. Eccetera.

Chi e quando ha stabilito otto ore di lavoro giornaliere? Un secolo fa ci furono aspre lotte per conquistare le otto ore per legge, anziché dieci e anche dodici e più. Un progresso, indubbiamente, ottenuto fuori e poi dentro i parlamenti degli Stati. In Italia, fu nel 1923 che divenne norma (poi convertita in legge nel 1925), un escamotage che tendeva ad assorbire la disoccupazione con un contestuale taglio dei salari. Dunque, a conti fatti, il paradosso che sia stato Benito a ridurre l’orario è solo apparente.

E, dunque, ancor oggi, dopo un secolo, ci ritroviamo ancora a fare otto ore di lavoro, come se nel frattempo non fosse accaduto nulla, come se la produttività del lavoro fosse rimasta invariata e non invece, con il perfezionamento delle macchine e delle tecniche, decuplicata più volte. Come se, astraendo qui dal tema salariale, pure assai importante, l’operaio nella stessa quantità di tempo di lavoro di un secolo fa, producesse la medesima quantità di merci (*).

Non si può (dicono i manager dell’industria, ripetono i politici e declamano i servi della comunicazione borghese) ridurre l’orario di lavoro poiché bisogna essere (il dover essere dello schiavo, sia chiaro) competitivi con l’industria dei cosiddetti paesi emergenti, laddove si lavora ben più di otto ore e pure con ritmi più intensi.

A dar retta, dovremmo aspettare decenni affinché le cose si mettano in pari, ossia migliorino le condizioni dei lavoratori dei paesi emergenti e peggiorino abbastanza da noi in modo da portare le cose in equilibrio. È ciò che ha teorizzato per anni, per esempio, Eugenio Scalfari con la teoria dei vasi comunicanti. Anche accettando un simile delirio, a metter in pari così le cose, non significa migliorarle, non certamente qui da noi (parla Scalfari di “cessione di opulenza”, in quanto ex croupier è avvezzo ad ambienti sociali diversi dai nostri).

Chiedo: possiamo illuderci che finalmente dopo decenni le cose si mettano in meglio anche nei paesi come la Cina o l’India fintanto che si arrivi a una riduzione dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale? Con miliardi di proletari e sottoproletari sottoposti a necessità e dunque disponibili allo sfruttamento? In tal caso non basteranno decenni, ci vorranno secoli, astrazione fatta per altre considerazioni.

Le cose resteranno così come sono, anzi tutto sta a indicare che peggioreranno finché la divisione internazionale del lavoro, le forme di proprietà e il modo di produzione resterà l’attuale. Da soli non ci si libera, ognuno per sé non si va da nessuna parte, e anzi c’è il rischio concreto che finiremo per tornare a spararci l’uno contro l’altro. Ed è perciò che l’internazionalismo, almeno nelle intenzioni, ebbe un senso, e l’ha ancora di più oggi che collegamenti di ogni tipo e comunanza dei segni facilitano i contatti tra i diversi popoli.

*

Qui si pone la domanda: come si fa a parlare di internazionalismo, a fondarne uno su basi e concetti nuovi, se siamo incapaci di dotarci di un minimo di organizzazione politica rivoluzionaria, di alcuni principi teorici condivisi, se già a livello locale siamo divisi in tutto e sparpagliati in entità numericamente infime?

Riflettiamo: non è questa, per contro, la strategia e l’azione dei partiti e movimenti borghesi, comunque denominati e colorati, ossia quella di dividere gli sfruttati in schieramenti politici contrapposti aventi gli stessi principi in comune? E di quali comuni principi si tratti è presto detto: benessere e democrazia sono agibili solo in un sistema di proprietà privata, il sistema è riformabile, se ne possono migliorare le performance a livello nazionale ed europeo, trovare soluzioni (espedienti) alla sua crisi. Per far questo basta votare, delegare questo o quel partito o movimento, questo o quel leader che su questi temi dice di saperla più lunga di altri.

Dunque, secondo tale opinione, fortemente in declino nelle coscienze ma ancora maggioritaria nella pratica talché sostenuta da forti interessi veicolati da una propaganda massiccia di ogni tipo, questo sistema troverà le soluzioni – le uniche possibili! – per le vie ordinarie, elettorali. A sostenere questa idea non c’è più una fase espansiva dell’economia, perciò si tratta con ogni evidenza di un bluff, di una gara truccata dove vince sempre il banco, ossia il capitale, e, se in concorrenza tra loro, quello più forte.

Questo sistema può cambiare solo se ne sono rivoluzionate le basi economiche su cui poggia. La crisi profonda in cui versa, lo scollamento sociale e istituzionale perdurante e ingravescente, il saccheggio delle risorse naturali disponibili, la loro dissipazione e l'inquinamento, da un lato, e lo sviluppo economico, scientifico e sociale raggiunto, dall’altro, ci dicono che la situazione è matura per un cambiamento dei rapporti di produzione e di tutto il resto. Come venire incontro al cambiamento, come alleviare le doglie del parto? Intanto cominciamo dalle cose più immediate e semplici. La prima è di farsi interpreti di questa concreta possibilità, anzitutto non fornendo più alibi al sistema, come quello di essere espressione della volontà e del consenso del popolo, ossia quell’alibi con il quale questo sistema si spaccia per democratico. Il resto verrà.

(*) Qui si è prescisso dalle norme introdotte dal DL 66/2003 e da tutte le successive che hanno deregolamentato la vecchia disciplina per rendere l’orario flessibile secondo i bisogni della proprietà.

12 commenti:

  1. Un po di sano ottimismo per una volta, a quanto leggo.

    Cordialità

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  2. Sarei fondamentalmente d'accordo con te avendo più o meno ripercorso il tuo stesso ragionamento ma nutro dei dubbi sulla possibilità che tale forma di protesta sia attuabile.
    L'esperienza americana, verso cui ci stiamo dirigendo a grandi passi, insegna che il capitalismo convive anzi prospera in un paese in cui, a stento, vota la metà della popolazione. E la cosa potrebbe continuare all'infinito se non fosse che anche lì la morsa della crisi economica comincia a farsi sentire e diventa più difficile tenere a bada le masse a colpi di segno americano se la fame si protrae per troppo tempo.
    Ma probabilmente tutto si risolverà per gli Stati Uniti nel momento in cui avranno trasferito i loro centri strategici nel sudest del mondo. Cina permettendo.
    Non pensi che anche la soluzione del non voto abbia tempi talmente lunghi da non essere proponibile?
    Vit

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    1. comprendo l'obiezione, ma non si tratta di "protesta" bensì della prima e più elementare forma di non collaborazione, come da post precedente, e a ogni modo l'europa non è gli Usa, né per storia e nemmeno per attualità. grazie e ciao

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    2. Lei parla di un non-voto consapevole, un'astensione mossa da principi "rivoluzionari", ma in giro non vedo il proliferare delle idee socialiste, al massimo un populismo strisciante.
      Non è che così come il capitalismo si è affermato nel corso dei secoli, stessa sorte tocchi al socialismo e ahimè ne beneficeranno i posteri, anziché noi?
      AG

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    3. scusi la pignoleria, ma io non parlo di un'astensione mossa da principi "rivoluzionari", bensì della prima forma di non collaborazione. il resto, scrivo, verrà. ci siamo abituati a considerare il processo storico in termini di anni, di piccoli eventi. si tratta di un processo nel tempo lungo, non dell'ora x.

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    4. In Colombia ci hanno provato:
      http://www.antimperialista.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2778:colombia-un-regime-senza-consenso&catid=9:colombia-cat&Itemid=129

      AG

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  3. Anch'io sono assolutamente per il non voto, che nelle circostanze attuali è di per sé rivoluzionario come spiega Olympe. Ma non solo il non voto, purtroppo, non sarà largamente maggioritario. La degenerazione, o meglio l'inveramento totalitario, di questa fasulla democrazia è tale che se anche ci fosse un solo elettore a mettere la scheda nell'urna ai partiti basterebbe per proclamare la propria legittimità, che siede su ben altre baionette. Il frastuono pre- e post-elettorale sulle percentuali di voto vela la completa irrilevanza delle stesse.

    Al tempo stesso una vittoria di Grillo (per il quale, sia chiaro, io non voto, come per nessun altro) non creerebbe alcun problema strutturale al sistema. Ci sarebbe un po' di chiasso sulla stampa, tutto lì. Nel giro di giorni, o forse di ore, lo normalizzerebbero con le buone o con le cattive: tra corruzione, golpe di corridoio, minacce anche dall'estero e spread hanno una vasta gamma di metodi per la bisogna.

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    1. Mauro, non è la stessa cosa qui in Italia e in Europa una percentuale di votanti del 60-70 per cento e una del 30-40. Non sarebbe cosa trascurabile. Dopo, il resto verrà, nel senso che sarà comunque sentito e ancora più forte il bisogno di organizzazione. ma fuori dal parlamento e dai partiti che vi si riconoscono. un antagonismo sociale diffuso che metta in crisi politica il sistema, in crisi di legittimità. non vedo alternativa per le vie ordinarie. poi, ripeto, si vedrà.

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  4. "Le cose resteranno così o peggioreranno finchè la divisione internazionale del lavoro, le forme di proprietà e , il modo di produrre resteranno quelle attuali". Sono assolutamente d'accordo con la tua analisi... Penso però che- senza che ce ne accorgiamo- nel mondo assistiamo a tante piccole e grandi scosse che spostano gli equilibri di un sistema in crisi. In Cina, in India, in Turchia, in Brasile oppure in Grecia, in Spagna, in Portogallo..

    Stiamo vivendo una crisi di sistema, il capitalismo, per cui i correttivi, i riformismi che abbiamo conosciuto sin qui non servono più a curare. E' una crisi dai tratti in parte conosciuti e in parte inediti: in ogni caso le forme e le direzioni che prenderà non possiamo conoscerle. Ma la contraddizione è evidente.

    Per l'Italia il discorso- che abbiamo affrontato e affronteremo in tanti altri post- è più complicato: siamo ai vagiti quando ci vorrebbero le urla...
    Intanto però mi sembra importante non collaborare con questo sistema, con chi lo gestisce e con chi si illude con la propria retorica di poterlo guarire: non votare è il minimo...

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    1. esatto: non votare è il minimo
      sul ruolo in positivo di quei paesi periferici e malandati non conto molto

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