Quando il comune mortale
s’approccia alla scienza per criticarne i suoi aspetti più palesemente contraddittori o "scandalosi",
il rischio è di essere preso per saccente, di quelli che parlano senza sapere, quando va bene. Che faccia osservazioni sensate
oppure deliranti, poco importa, si tratta comunque di un rompiscatole. In altri
termini, nella comunicazione sociale quotidiana il carattere attivo delle forme
ideologiche mostra il suo potere, e chi vi si oppone è sempre perdente, salvo
eccezioni rarissime e controllate.
La scienza, già in età scolare e
nei cosiddetti programmi di divulgazione (fucina di molte idee correnti), è veicolata
come qualcosa di sacrale e di mistico, di rivelato, basti pensare, per dire,
all’aulico tono dei signori Angela. È la scienza dei laboratori, delle
conventicole, di élite in orti conclusi, di linguaggi asettici e difficili, matematizzati
e molto specialistici, e quando essa diviene domestica per il volgo ha il suo
bel titolo di enciclica (chi si permetterebbe di criticare quel furbacchione di
Einstein?). Per certi aspetti la scienza oggi è la nuova teologia e gli
scienziati i ministri del culto.
Prendiamo il caso delle scienze
economiche, non c’è una sola teoria accademica che spieghi scientificamente, di là dei soliti deliri concettuali, l’origine delle crisi. Per la
semplice ragione che le contraddizioni effettive che producono le crisi, dato
l’orizzonte di classe degli economisti, sono volutamente ignorate. E ciò vale
per le rappresentazioni di molte altre scienze, non solo di quelle
economico-sociali.
Una di queste è la neurobiologia, branca
della biologia, la quale si occupa dello studio del cervello e del sistema
nervoso. Zoppica già quando si occupa di topi o di scimmie, poi quando traspone
i risultati ottenuti per spiegare il comportamento umano, allora siamo in piena
tragedia, si pongono evidenti i vizi ostinati di certe impostazioni concettuali
e metodologiche.
Si spendono milioni e a volte
miliardi di baiocchi per creare la mappa delle connessioni fra le cellule
nervose di un verme di un millimetro, il caenorhabditis
elegans, e concludere che partendo da questo animaletto non sono ancora
riusciti a capire come le connessioni diano “origine a comportamenti anche
semplici, come quello alimentare oppure sessuale” (*).
La questione è diversa quando
questi scienziati pretendono di stabilire un netto collegamento tra biologia e
comportamento umano, in ciò perdendosi, come qualcuno di essi ammette, in una
“giungla impenetrabile”. Scrive Engels nella Dialettica della natura:
«Tanto la scienza quanto la filosofia hanno finora del tutto trascurato
l’influsso dell’attività dell’uomo sul suo pensiero: esse conoscono solo la
natura da un lato, il pensiero dall’altro. Ma il fondamento più essenziale e
più immediato del pensiero umano è proprio la modificazione della natura ad
opera dell’uomo, non la natura come tale di per sé sola, e l’intelligenza
dell’uomo crebbe nella stessa misura in cui l’uomo apprese a modificare la
natura».
Quando mai le “302 cellule nervose”
degli scienziati si connetteranno alla Dialettica
della natura, sia intesa come libro che come processo della realtà? Vade
retro marxisti, stalinisti, comunisti, la vostra è dottrina del gulag!
Qual è la pretesa di queste
“metodiche rivoluzionarie” di cui si dice a pagina 32 dell’ultimo numero di Le Scienze? Nientemeno di “colmare il divario tra impulsi dei neuroni
e processi della mente, vale a dire percezioni, emozioni, presa di decisioni e,
non ultimo, coscienza”. Come si può essere più rozzi e riduzionisti
di così, partecipi di un materialismo volgare? Questi mediocri scienziati non
vedono che i processi neuro-fisiologici che si svolgono nella corteccia
cerebrale sono soltanto la forma in cui si esprime il pensiero
nel sistema biologico dell’uomo, non
il pensiero stesso!
Ciò che sfugge ai sostenitori di
questa riduzione è il fatto che non è il cervello in quanto tale a pensare, bensì è il cervello di un uomo
concreto che produce la propria vita materiale e spirituale in una ben
determinata formazione economico sociale.
Fuori di questa rete di rapporti sociali, entro e per mezzo della quale
l’uomo agisce sulla natura esterna e sulla propria natura, non si dà alcuna
attività di pensiero. Anche il pensiero, dunque, è nella sua essenza un’attività
sociale, un’attività mediata da sistemi di segni sociali.
«Sensazioni, concetti, ecc., non sono ciò che noi conosciamo – scriveva
Geymonat –, come pretenderebbero i filosofi idealisti, ma sono ciò
mediante cui noi conosciamo. È
proprio per questo possono venire perfezionati perennemente, potenziati,
affinati; come siamo soliti perfezionare, potenziare, affinare, i nostri
strumenti d’indagine. Il loro carattere strumentale non esclude che ci facciano
raggiungere un certo livello di obiettività, escludono soltanto (la pretesa
dogmatica) che esauriscano tale obiettività» (**).
Naturalmente poi nell’articolo si
dice che questi studi potranno avere anche ricadute per quanto riguarda ad
esempio i “disturbi psichiatrici”, la schizofrenia, autismo, e patologie dai
nomi terribili. E non pongo dubbio che cercando di qui e di là possa accadere (per
accidente solitamente, come sappiamo) che vengano poi fatte delle scoperte
importanti per la medicina e altre applicazioni. Soldi ben spesi, dunque?
Dipende.
La scienza, ben lo sappiamo,
obbedisce a certi interessi e su questo tema non voglio insistere. Resta il
fatto che il sistema, democratico nella forma e totalitario nella sostanza, è
ben attento e finanzia copiosamente questi studi poiché essi non producono solo
conoscenza e miglioramenti nel campo medico, ma da un lato puntano alla
sublimazione dei rapporti sociali in connessioni neuronali, elettrochimiche, con
indubbie prese ideologiche, e dall’altro offrono elementi di conoscenza validi per
il controllo sociale e la direzione di
un proletariato che con il progredire della crisi si fa sempre più instabile e
minaccioso.
Queste loro teorie – come quelle
dei loro sostenitori – si fondano su un postulato fondamentale: è vero che la
realtà, gli enti materiali, i fenomeni naturali e sociali, esistono
indipendentemente da qualsiasi conoscenza che li percepisca o li pensi;
tuttavia si presuppone che l’elemento materiale sia trasferito nel cervello degli uomini, e dunque i dati percettivi
verrebbero assolutizzati e il rispecchiamento della realtà sarebbe una loro
conseguenza immediata. Pertanto
sensazioni, concetti, coscienza, non sarebbero determinazioni del movimento
reale, della sua “traduzione”, bensì una ricezione di codifica che stimola una
risposta neuronale e da questa un comportamento.
Ecco, si possono programmare le
risposte se qualcosa “non funziona”, ma allora anche i bisogni, i gusti, la
mentalità e la morale. Poi nulla vieta che lo scopo (certamente non rivelato al
pubblico) sia quello di programmare feticci compatibili non più “inserendo” la
programmazione di forme illusorie della coscienza sociale dall’esterno come avviene da millenni, ma anche dall’”interno”, con strumenti sofisticati forniti dalle
tecnologie neurobiologiche. Questo è il sogno del dominio reale totale, l’arma
strategica di controllo e direzione su ogni possibile forma di antagonismo
sociale. Fantasie? Non sempre Rachel è consapevole di ciò che le accade.
(*) Questo fatto potrebbe offrire
l’idea – la pongo come ipotesi – che
per questi scienziati i fattori ambientali abbiano un senso già esiguo per i
primati e affatto nessuno per gli “animaletti”. Più in generale, essi intendono
la specificità e l’unicità come una dimensione statica, cioè in termini non
dialettici.
(**) Attualità del materialismo dialettico, Editori Riuniti, 1974, p.
99.
Entrare nel merito di contenuti scientifici particolari da parte dell’uomo comune più che insofferenza suscita velature di compatimento, del resto sono pochi gli argomenti che da parte dello stesso consentono di esprimersi con un minimo di consapevolezza. Si deve ,senza ipocrisie, ammettere che ci si affida all’esperto che interpreta la nostre propensioni ideologiche più che l’espressione delle nostre inesistenti ,limitatissime o generiche competenze.
RispondiEliminaE’ chiaro che p.e. un riferimento pratico non è a temi come aborto o eutanasia che coinvolgono l’etica più che la metodologia scientifica.
Per dire se la risorse della ricerca sul caenorhabdiritis elegans sono ben impiegate, do retta al blogger che intuisco più preparato; sono atti di fiducia proporzionati alla chiarezza con cui un esperto propone l’argomento e non solo. L’esame approfondito ‘dell’onestà’ del soggetto avverrà sulla distanza perché prima o poi la contraddizione è alle porte.
Prima di criticare il ‘furbacchione ‘ di Einstein, devo trovare per prima cosa il tipo che comprenda la teoria della relatività e poi la sappia contestare con argomenti adeguati, che comunque non sarà facile capire. Dire tout court che è una stupidata mi sembra superficiale.
Sulle intenzioni perverse che guidano ,solo in parte mi auguro, chi tiene in mano i cordoni della borsa – leggi lobbies – è pensiero unanime.
Si potrebbe pensare un’inizio di discorso da ‘Sensate esperienze e certe dimostrazioni’ - galileiane, che passa dall’Encyclopedie, e arriva forse al nichilismo con i suoi ministri di culto.
Nietzche ha dato la stura per una parziale invasione di campo e targare un nuovo orizzonte. Ogni epoca comunque aggiorna la propria ricerca di senso.
La scienza ,che è solo un’altro dei numerosi parti dell’homo sapiens, è una efficace enclave dogmatica con i propri riti e il proprio linguaggio, con cui pochi o molti ne hanno fatto il campo della personale autoreferenzialità. Questo concetto è pervasivo in ogni attività perché l’ambizione e l’invidia dell’uomo sono universali e ,a mio stretto parere, non c’è regime economico di sorta che riesca a debellarle. Forse a controllarle, e su questo anche herr Karl suppongo nelle pieghe della filosofia possa convenirne.
La chiusa dell’inciso del prof.Geymonat (che al tempo in qualche occasione ho avuto modo di ascoltare di persona), ne rivela l’onestà intellettuale (l’introduzione dell’opera di Popper p.e.lo dimostra), nel senso che esclude ogni facile cortocircuito da qualsiasi fonte ideologica provenga.
uno dei primi aspetti storici della divisione del lavoro è che essa si accompagna con la separazione della conoscenza. sempre più. oggi l'operaio conosce molto meno di un tempo l'oggetto del suo lavoro, al massimo ne conosce un piccolo frammento. sapere è potere, escluderci dal sapere, farne degli orti conclusi, recintare, è uno dei fondamenti del potere. se lavori come schiavo, non hai né tempo né voglia da dedicare a studi impegnativi. non basterà comunque superare l'antinomia tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, questo mi pare pacifico. resta il fatto che attualmente non pochi paradigmi scientifici sono costruzione artificiose che con la scienza hanno ben poco a che fare e difatti lo si rivela nell'impasse in cui si trovano certe scienze. questo il senso dei due post. saluti
EliminaQueste sue parole mi riportano alla scena ambientata in manicomio del film "La classe operaia va in Paradiso", con il compianto Volonté.
Eliminahttps://www.youtube.com/watch?v=NObaNoqumY8
«Un uomo ha il diritto di sapere quello che fa, a che cosa serve.»
Affettuosi saluti, Olympe.
Il senso del post era chiaro, come del resto altri post. La massima di Bacone inchioda una realtà che vige ancora prima delle piramidi. Ognuno di noi coltiva punti fissi di riferimento, uno dei miei è che eterni gaglioffi intellettuali o sedicenti,disseminati in equa quantità nelle rispettive parrocchie ne approfittano per spargere perle di saggezza che il popolo si beve come verità oracolari.
RispondiEliminaBrandelli di diffidenza contadina che sono comuni nel DNA di tutti (la Mesopotamia insegna) , mi portano a diffidare per principio e ad eleggere la categoria del dubbio come presupposto di giudizio. A prescindere dal tema.
E comunque, tradotto nel solco aulico della Storia, meglio seduto tra i consiglieri di Trockij piuttosto che nel kolkhoz al gelo a raccogliere le patate. La lezione ormai l’ho imparata già da oggi.
Altrettanti saluti.
Tutto molto bello (come diceva Pizzul)!!! La butto sul ridere altrimenti se ti faccio troppi complimenti poi ti monti la testa! :P
RispondiEliminaTornando seri, mi è rimasto un dubbio, ulteriormente rafforzato dal primo commento qui sopra. Quando parli di "quel furbacchione di Einstein" cosa intendi?
A me è sembrato che criticassi non tanto Einstein, quanto la metodologia di divulgazione scientifica.. Se è così allora ignora il mio commento, altrimenti cosa ti ha fatto il povero Albert?