giovedì 17 ottobre 2013

Odifreddi e il dittatore economicamente razionale

Con postilla finale aggiunta dopo.

Problema fondamentale di una guerra moderna di lunga durata, ossia di una guerra di logoramento e annientamento delle capacità belliche dell’avversario, è quello di mantenere uno standard produttivo elevato, e dunque, da un lato, quello di garantire un approvvigionamento adeguato allo sforzo bellico e realizzare un’efficace razionalizzazione delle risorse economiche, e, dall’altro, riuscire a  reperire e impiegare la manodopera necessaria. Questo aspetto fondamentale della dinamica economica di guerra, divenne l’assillo principale delle più alte gerarchie del regime nazista durante tutto il conflitto.

È necessaria una premessa per inquadrare tale problema in relazione alla guerra paneuropea scatenata dalla Germania nel 1939. Fallito il programma – per motivi economico-finanziari, cioè per persistenti problemi di bilancia dei pagamenti – di accelerazione del riarmo di lungo termine e ad “ampio spettro” in preparazione della guerra con le potenze occidentali (quel piano che doveva dare una vera libertà strategica alla Germania), Hitler nell’agosto 1939 era pressoché certo – checché ne dica certa storiografia – che Gran Bretagna e Francia avrebbero dichiarato guerra in caso di attacco alla Polonia. Ciò è in linea con le risultanze diplomatiche di quelle settimane. La domanda è: cosa convinse Hitler alla sua decisione?



Primo: era noto pubblicamente che la Francia, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e l’unione Sovietica stavano accelerando il proprio riarmo, e ciò rappresentava un grave deterioramento dell’equilibrio delle forze che si sarebbe via via accentuato. Secondo: l’iniziativa diplomatica tedesca del 1938 e l’occupazione della Cecoslovacchia nel marzo 1939 avevano smontato il cordone di sicurezza francese. Non restava che valutare l’atteggiamento che avrebbero preso gli Stati Uniti e l’unione Sovietica. Stalin non era certo dell’avviso di fare il formaggio per il topo. In tal senso il patto tedesco-sovietico garantiva la Germania sul fronte est. Questo fu un elemento decisivo nella decisione di Hitler di entrare in guerra.

Da questo punto di vista, Hitler si dimostrava essere un uomo e uno statista lucido e razionale, ed altrettanto lucidi e competenti erano i suoi più stretti collaboratori, a cominciare da quel Göring che la vulgata cinematografica lo rappresenta in atteggiamenti caricaturali (pur presenti nel vanitoso personaggio). E tuttavia vi era un terzo elemento importante che influenzò le decisioni di Hitler, ossia la componente ideologica, ossia la sua ossessione per la lotta razziale, la quale non era un semplice motivo di propaganda popolare.

Hitler, nel 1939, era convinto che Roosevelt rappresentasse effettivamente il principale agente della cospirazione ebraica mondiale, e il discorso del 30 gennaio di quell’anno va letto tenendo presente il discorso sullo stato dell’Unione tenuto dal presidente in cui invitava – sotto la minaccia di aggressione tedesca – la Polonia, la Francia e la Gran Bretagna a resistere. Hitler, come tutti, sapeva che l’atteggiamento degli Stati Uniti sarebbe stato determinante nell’equilibrio della corsa agli armamenti, però sapeva anche che doveva approfittare di quel momento nel quale la componente isolazionista negli Stati Uniti era molto forte.

Ecco dunque che nell’agosto 1939 si apriva forse l’unica “finestra” per agire. In seguito, il sorprendete successo tedesco in Francia mutò ancor più a favore della Germania la situazione strategica globale, determinando la convinzione in Hitler che una guerra lampo contro l’Unione Sovietica per il reperimento delle risorse strategiche necessarie al sostentamento e armamento tedesco, prima che potessero intervenire direttamente gli Stati Uniti nel conflitto (dopo la conquista tedesca di Sedan, Roosevelt aveva lanciato il suo spettacolare programma di riarmo), avrebbe messo con le spalle al muro Churchill e favorito le chance della parte inglese disposta a un compromesso di pace. Era un rischio che Hitler decise di correre con estrema lucidità e sotto l’incalzare degli eventi. Solo dopo abbiamo saputo che si sbagliava, non però sulla motivazione, bensì sulla capacità di resistenza e reazione del l’Unione Sovietica.

Quanto alla motivazione, Hitler sapeva bene che se non metteva le mani sul surplus di grano e di petrolio dell’Unione Sovietica e sulle miniere ucraine, se non riusciva a organizzare un durevole incremento della produzione di carbone e a sopperire alla penuria di mangime per animali, l’Europa occidentale occupata sarebbe stata minacciata da un prolungato declino della produzione, della produttività e del tenore di vita.

Qui non si tratta di “rivalutare” la figura di Hitler, non ignoro le gravi mende (eufemismo) di uomo spaventosamente cinico e intriso di un profondo odio razziale, ma cerco di comprendere, per quanto possibile fuori dagli schemi e stereotipi dozzinali della propaganda postbellica, la logica strategica coerente e intellegibile e la psicologia di un uomo che agì da indiscusso protagonista della storia, un “dittatore economicamente razionale” che voleva sovvertire radicalmente l’equilibrio del potere globale.

* * *

Dal lato del reperimento e dell’impiego della manodopera necessaria allo sforzo bellico, si deve tener conto di alcuni dati generali. Per quanto riguarda il confronto con la Russia, lo scacchiere militare più importante nel quale si trovò ad operare la Germania almeno negli anni 1941-43, è necessario tener presente che il Reich si trovava a dover affrontare una nazione enormemente più vasta, molto più ricca di materie prime strategiche e sostenuta da una popolazione numericamente doppia. La Russia ricevette poi ingenti aiuti di mezzi e materiali dagli alleati, anche se va chiarito che il “miracolo” sovietico non fu dovuto agli effetti del Lend-Lease Act che non cominciò a incidere sul fronte orientale fino al 1943. E, inoltre, il Reich si trovava a combattere due guerre su più fronti e pure su quello interno dell’Europa occupata. Ciò che impressiona chiunque, è come abbia potuto resistere la Germania e Wehrmacht così tanto, e nonostante taluni marchiani errori tattico-strategici di Hitler.

Ciò che incontrò in Russia l’armata tedesca non fu il supposto “primitivismo slavo”. Nel solo fronte orientale, nei tre anni giugno 1941- maggio 1944, il tasso medio di perdite umane della Wehrmacht sfiorò i 60.000 morti al mese. Solo nell’aprile e giugno 1943 non superarono i 20.000 caduti mensili, ma già nel luglio il numero salì a 85.000. Nel gennaio dello stesso anno, in coincidenza della caduta di Stalingrado, i morti erano stati 180.000. Nell’agosto del 1944, tali perdite raggiunsero l’incredibile cifra di quasi 280.000, mentre nel luglio precedente 165.000. Si tratta di quasi mezzo milione di caduti in due mesi e solo sul fronte orientale. Quante vite e quante distruzioni risparmiate se l’attentato del 20 luglio avesse dato gli esiti sperati.

Riporto queste cifre per dare un’idea dell’entità dei rimpiazzi necessari per il fronte. Un raffronto si può fare con le perdite americane, laddove si pensi che complessivamente gli Usa registrarono in entrambe le guerre mondiali 344.959 caduti. Ma il raffronto forse più significativo può essere fatto con i combattimenti di Verdun del 1917, noti per essere stati sanguinosissimi. I dati ufficiali francesi, sebbene notoriamente sottostimati, parlano di 162.308 tra morti e dispersi e 214.932 feriti in dieci mesi. I tedeschi persero 420.000 uomini, anche se i dati ufficiali parlano di 100mila tra morti e feriti. Cifre irrisorie se paragonate a ciò che avvenne venticinque anni dopo. Si tenga conto che dopo Verdun, la decisione dell’esercito francese di riprendere l’offensiva provocò ripetuti ammutinamenti, e gli effetti di quella carneficina tatticamente inutile e dispendiosa si fecero sentire nella fatale riduzione degli effettivi francesi che vent’anni dopo ebbero ad affrontare Hitler.

* * *

Per vincere la guerra sul fronte orientale, l’industria tedesca doveva prevalere su quella dell’Unione Sovietica. La questione della manodopera e del cibo divenne dunque questione essenziale e problema vitale. In tal senso, i numeri erano netti: nell’autunno 1941 i ventenni tedeschi erano tutti coscritti, nel 1942 si passò ad arruolare i giovanissimi, circa un milione, e sempre nella prima metà di quell’anno furono richiamati 200.000 uomini dalle fabbriche. L’anno dopo, il responsabile statistico del Reich analizzò l’impiego del lavoro femminile nello sforzo bellico: 25,4 per cento negli Usa 33,1, in Gran Bretagna e 34 per cento in Germania. La mobilitazione femminile fu portata a circa il 46%, molte donne in posizione part-time, di più non si poteva fare.

Era necessario trovare milioni di operai aggiuntivi per sostenere l’enorme apparato industriale, e a tale scopo furono mobilitate nel 1942 tutte le forze residue e fu incaricato il Gaulaiter Sauckel di mettere in moto “uno dei più grandi programmi di coscrizione forzata che si siano mai visti”. Si mobilitarono milioni di operai provenienti da tutta Europa, di ambo i sessi, anche adolescenti di 12 anni.  In un anno e mezzo, tra il gennaio 1942 e il giugno 1943, Sauckel procurò più di un milione e mezzo di nuovi schiavi stranieri. Nel 1943 i lavoratori stranieri erano 6,5mln, di cui 4,95mln civili e gli altri prigionieri di guerra. Nel febbraio 1944 il totale era salito a 7,356mln e nell’autunno si raggiunse la punta massima di 7,905mln. Il 20% della forza-lavoro tedesca. Di conseguenza si può affermare che nelle fasi conclusive della guerra la Germania ospitava tanti schiavi stranieri quanti ne ospita la Germania “multiculturale” di oggi.

Del resto, il programma tedesco di sfruttamento della manodopera si conformava ai principi più elementari dell’economia classica, tutt’ora vigenti e molto auspicati da freddi burocrati quali il dott. Sergio Marchionne e non meno dai suoi colleghi.

Questo enorme impiego di manodopera comportava un altro problema, quello del cibo. L’equilibrio alimentare europeo fu drasticamente ridistribuito per assicurare calorie e proteine necessarie a nutrire decine di milioni di operai e di schiavi impiegati nella produzione del Reich. Già nella primavera del 1941 il programma di affamamento concordato tra i ministeri si combinò con assunti di gerarchia razziale in un piano di sterminio che faceva impallidire persino quello concordato a Wannsee.

Nella guerra totale, anche la gassazione generalizzata degli ebrei polacchi doveva assolvere una funzione ben precisa. All’uopo operarono tre campi di sterminio, Treblinka, Sobibor e Chelm, oltre alle camere a gas del campo di Auschwitz. I primi tre campi furono chiusi nel 1943, mentre Auschwitz continuò a operare fino a diventare la destinazione finale per centinaia di migliaia di ebrei provenienti da tutta Europa occidentale, e dal 1944 anche dall’Ungheria.

Anche ipotizzando che gli ebrei siano stati utilizzati solo per i lavori più servili (allora si dovrebbe spiegare dove sono finiti bambini e vecchi), applicando lo standard prudenziale dei tedeschi, lo sterminio che si produsse con il loro bestiale sfruttamento e le condizioni nelle quali erano costretti a sopravvivere, era costato la vita ad almeno 2,4mln di potenziali lavoratori, a cui vanno aggiunti gli altri omicidi di massa commessi a partire dal gennaio 1942 che comportano un totale incredibile. Oltre un milione di schiavi, non ebrei, subirono la stessa sorte.

E invece le camere a gas furono impiegate, e ha sperimentarle per primi furono gli abitanti della Warhegau (una delle province polacche annesse alla Germania) giudicati inabili al lavoro, furono uccisi nella struttura sperimentale di Chelm.

* * *

Il fatto che un professore universitario come Odifreddi, noto pubblicista, popolare per le sue posizioni anticlericali, possa scrivere con superficialità colpevole sul blog di un quotidiano certe cose, provoca un gravissimo danno non solo alla verità storica, ma soprattutto nella coscienza di centinaia e forse migliaia di giovani che leggono le sue parole.




P.S: Divertente la frase riportata da Dagospia: «Corrado Augias: "La battuta sulle camere a gas te la potevi risparmiare. La decenza ha un limite"».  Scritto proprio così. Già, è l'indecenza che purtroppo non né ha.

  

11 commenti:

  1. Salve Olympe,
    volevo solamente segnalarle "ha sperimentarle", a poche righe dalla fine.
    Eviti pure di pubblicare il commento.

    Colgo l'occasione per ringraziarla l'ennesima volta delle sue perle quotidiane.
    Saluti

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  2. Su Odifreddi però alcuni la stanno buttando in caciara.
    Cioè che sia un negazionista mi pare una palla clamorosa, a leggere almeno quello che lo stesso scrisse su Repubblica nel 2010 quando già si parlava di inserire il reato di "negazionismo":
    "Rendendo un reato il negazionismo, si finirebbe dunque per instillare il legittimo dubbio che veramente esso sia una verità, che si teme di sentire e si vuol impedire di divulgare. E poi, diciamoci appunto la verità: su quante altre menzogne bisognerebbe preoccuparsi di legiferare?... "
    Ciao,
    Carlo.

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    1. lo so bene che non è un negazionista, però deve stare attento con quelle parole, per come possono venir interpretate. purtroppo si tratta di un argomento molto delicato che vede contrapposte due fazioni che cercano la polemica. la ricerca della verità storica qui non c'entra. ciao Carlo

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  3. Gentile Olympe, quanto da Lei scritto costituisce un piccolo capolavoro in termini di capacità di sintesi e, al tempo stesso, di approfondimento dei temi trattati, che ritengo di poter sottoscrivere sostanzialmente in ogni sua parte. Quelli che seguono sono, pertanto, più degli approfondimenti che delle critiche, allo scopo di sottolineare ulteriormente quanto da Lei così magistralmente esposto.

    Nell’entrare in guerra contro la Polonia il primo settembre del ’39, sventolando tra l’altro la più motivata tra tutte le rivendicazioni fino a quel momento avanzate dalla Germania (Danzig ist Deutsch era qualcosa di più di una frase ad effetto della propaganda tedesca, considerato il 99% di abitanti di lingua tedesca che vivevano all’epoca nella città in riva al Baltico, separata dal Reich e resa città a statuto libero da una bizzarra decisione delle potenze vincitrici alla fine della Prima Guerra Mondiale), Hitler a mio avviso giocava ancora una volta sul filo dei nervi (degli anglo-francesi) contando, molto probabilmente, di portare a casa, come già in passato, il bottino pieno. D’altronde, se a Londra o a Parigi qualcuno si fosse degnato di dare una lettura meno che superficiale al Mein Kampf, inglesi e francesi si sarebbero potuti risparmiare, ventuno anni dopo, un nuovo e sanguinoso conflitto con il loro letale vicino di casa. Perché l’interesse del Fuhrer era polarizzato irresistibilmente sulla creazione di un Lebensraum ad Est, a spese dei cosiddetti ‘untermenschen’ di stirpe slava, Sovietici e Polacchi in primis. In questo, tra l’altro, senza neanche dimostrarsi particolarmente originale giacchè si trattava in sostanza di ricalcare quella che era stata la politica espansionistica teutonica dei precedenti mille anni, una politica perseguita dapprima con le armi dei Cavalieri dell’Ordine Teutonico e con i commerci dei mercanti della Lega Anseatica e proseguita poi negli anni. Con una coerenza che avrebbe dimostrato fino alla fine ed a qualunque costo, Hitler si applica quindi alla realizzazione del suo programma, che con tutta probabilità non prevedeva l’apertura di un fronte ad Occidente, ed ordina alla Wehrmacht di oltrepassare il confine polacco. Nonostante le rassicurazioni inglesi alla Polonia, reiterate formalmente ancora alla fine di agosto, è possibile che lui non creda veramente, in quel momento, di aver dato inizio ad un nuovo conflitto mondiale, anche se è comunque consapevole del rischio che corre ed è pienamente disposto a correrlo.

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  4. -Ecco dunque che nell’agosto 1939 si apriva forse l’unica “finestra” per agire.-
    In realtà non c’era scelta, ne’ sui tempi ne’ sull’obiettivo.
    L’Unione Sovietica infatti possedeva sul suo territorio le risorse agricole e minerarie necessarie al Reich per alimentare una guerra globale, quale si sarebbe potuta delineare se Roosevelt fosse riuscito a portare nel conflitto gli Stati Uniti, come era intenzione dell’artefice del New Deal[1].
    L’Unione Sovietica inoltre si stava riarmando, aumentando la produzione di artiglieria e mezzi corazzati, costituendo nuove divisioni e, soprattutto, cercando di porre rimedio alla catastrofe abbattutasi sull’Armata Rossa con la purga dei militari del ’38, quando un dossier opportunamente confezionato e fatto pervenire alla NKVD dalla Gestapo convince Stalin che gli ufficiali superiori delle sue forze armate stanno tramando contro di lui. Ne sarebbe conseguita la grande epurazione dei vertici militari sovietici del 1938.
    La guerra tra i due colossi sarà inevitabile, entrambi i dittatori ne sono pienamente consapevoli, ed
    in quest’ottica nasce, paradossalmente ma non tanto, il patto russo-tedesco dell’agosto del ’39: entrambe le potenze vogliono evitare di doversi ritrovarsi faccia a faccia prima del previsto, preferendo spartirsi con tutta calma la carcassa polacca. La strana alleanza resterà quindi in piedi fino all’ultimo, per reciproca convenienza delle parti contraenti. Che si impegnano ad onorare le clausole del contratto alla lettera: Hitler lascerà cadere nel vuoto le disperate richieste di aiuto degli stati baltici in procinto di essere fagocitati da Stalin, e Stalin dal canto suo si preoccuperà di far puntualmente avere ad Hitler il quantitativo mensile pattuito di rifornimenti in carbone ed acciaio (gli ultimi treni sovietici carichi di materie prime partiranno alla volta della Germania ancora nella notte tra il 21 ed il 22 giugno 1941, giusto in tempo per incrociare le avanguardie della Wehrmacht che oltrepassano il confine dando inizio alla più spettacolare invasione di tutta la storia dell’uomo). Poi, i pirotecnici successi del blitzkrieg a ovest, uniti alla sconcertante debacle dell’Armata Rossa nella campagna invernale contro l’esercito finlandese, contribuiranno ulteriormente ad infondere, a Berlino, la convinzione di poter avere ragione anche dell’Armata Rossa. Convinzione peraltro fondata.

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  5. -Ciò che incontrò in Russia l’armata tedesca non fu il supposto “primitivismo slavo”.-
    E’ vero, l’impalcatura sovietica non era “marcia” come sosteneva il Fuhrer insieme agli altri gerarchi di partito quando affermavano che sarebbe bastato un calcio a far volare tutto in pezzi. Il calcio è stato sferrato, violentissimo e brutale, dalle panzerdivisionen della Wehrmacht e delle Waffen SS, e non è bastato. L’elenco di tutto quello che ha giocato a favore dei Sovietici è, d’altronde, impressionante: le distanze enormi, una logistica sfilacciata lungo centinaia di chilometri e costretta a non poter contare sull’uso delle ferrovie dato il diverso scartamento ferroviario tra binari russi ed europei unitamente alla impossibilità di utilizzare il materiale rotabile sovietico andato completamente distrutto fin dai primi giorni del conflitto, l’inesistenza di una rete stradale asfaltata, la superiorità numerica dell’Armata Rossa con un divario, già presente all’inizio delle ostilità, che sarebbe continuato ad aumentare per tutta la durata della guerra, il fattore meteorologico, la mancata collaborazione con l’alleato giapponese che nel 1940 firma un trattato di non aggressione con l’URSS che consente allo Stavka, al momento opportuno, di sguarnire spensieratamente centinaia di chilometri di frontiera ad Est per lanciare la controffensiva del dicembre ’41 davanti a Mosca [2], l’inesattezza delle informazioni fornite dall’Abwehr in merito alla consistenza numerica delle forze corazzate sovietiche (stimate in 10.000 tank quando nella realtà i sovietici disponevano, già nel 1941, di oltre 25.000 mezzi corazzati) ed in merito al livello qualitativo dei carri sovietici (il T-34/76, nel 1941, è il miglior carro esistente al mondo per mobilità, corazzatura e potenza di fuoco, contrastabile con (qualche) possibilità di successo solo dal Panzer IV, all’epoca il carro armato pesante in dotazione alle forze corazzate della Wehrmacht, ma i militari tedeschi fanno la conoscenza del T-34 solo dopo l’inizio delle ostilità,) [3]…
    Eppure, per quanto stupefacente possa apparire, la ricetta applicata dalla Wehrmacht nella conduzione della guerra fino ad allora è talmente vincente da consentire ai tedeschi di ripetere, nonostante quanto sopra elencato, gli stessi successi conseguiti contro Polonia, Norvegia, Olanda, Belgio e Francia, anzi di ottenerne di più eclatanti, se si pensa che le perdite sovietiche nei primi mesi di guerra assommano a svariati milioni di effettivi, perlopiù fatti prigionieri. Alla luce di tali successi, dire che la Wehrmacht era sul punto di sconfiggere l’Armata Rossa non è esatto: la Wehrmacht aveva in pratica già sconfitto a metà luglio l’Armata Rossa, che appariva scompaginata, priva di comunicazioni e in ritirata disordinata in direzione Est. Ma in questo frangente si inserisce Hitler, il caporale boemo, come lo definiva con sprezzo malcelato il Feldmaresciallo Von Rundstedt, concedendo all’Armata Rossa due mesi di tempo per riprendersi e consentendo allo Stavka di riorganizzarsi. Un “marchiano errore tattico-strategico”, diciamo pure preminentemente strategico, che Hitler pagherà con la sconfitta del suo paese e la morte di oltre sette milioni di tedeschi [4], lui compreso [5].

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  6. “Ciò che impressiona chiunque, è come abbiano potuto resistere, la Germania e la Wehrmacht così tanto”…
    All’indomani della dichiarazione di guerra agli Stati Uniti, mentre si trova alle porte di Mosca con il suo Panzer Armee nel bel mezzo della controffensiva scatenata da Zhukov con sette armate siberiane fresche ed equipaggiate di tutto punto gettate nella mischia, è il feldmaresciallo Heinz von Guderian ad annotare nel suo diario come la Germania, sola con suoi deboli alleati, fosse ormai in guerra contro il mondo intero. Eppure, a partire da quel momento, saranno necessari oltre tre anni di ulteriore guerra e milioni di morti prima di assistere alla vittoria del suddetto mondo intero sul colosso teutonico. Il superiore livello tecnologico della Germania, testimoniato dalla realizzazione di armi quali i velivoli a reazione, i missili supersonici, i sottomarini a propulsione elettrica solo per limitarsi alle geheime waffen, la motivazione politica di cui erano intrise le forze armate tedesche, riassumibile in una condizione di vero e proprio fanatismo, un addestramento ed un equipaggiamento eccellenti e superiori a quanto riscontrabile in qualsiasi altra forza armata dell’epoca almeno fino a quando il dilatarsi delle richieste ed il restringersi delle risorse non avrebbe portato all’inevitabile calo della capacità combattiva di molte unità, la consapevolezza dei vertici nazisti di non avere nessun futuro in caso di sconfitta e quindi la disperata determinazione alla resistenza oltre ogni ragionevole limite, sono tutti fattori che possono spiegare questa altrimenti inspiegabile capacità di resistenza.
    Senza dimenticare però l’immenso valore aggiunto a disposizione delle forze armate tedesche: un corpo di ufficiali superiori di valore assoluto, senza eguali. Come sottolinea Correlli Barnett nel suo “Hitler’s Generals”: “Mai, forse in ogni tempo, un esercito poté contare su generali così abili, preparati, capaci di inventare nuove strategie nel corso della stessa battaglia, travolgere intere armate, protrarre fino all'estremo, grazie alle loro sole capacità, la guerra anche quando questa era irrimediabilmente perduta”. Uomini del calibro di Manstein, Model, Rundstedt, Rommel, Guderian, Kluge, Kleist, solo per citare quelli che non necessitano di note esplicative.


    [1] Roosevelt, il cui obiettivo era quello di entrare in guerra contro le nazioni dell’Asse per dare agli Stati Uniti un ruolo da vera potenza mondiale, trovandosi alle prese con un Congresso decisamente isolazionista e on potendo dichiarare guerra senza il consenso del Congresso stesso, fece ciò che gli era consentito dai suoi poteri presidenziali, tenendo una condotta che gli autori di lingua inglese definiscono “short of war”, cioè ai limiti della belligeranza. Rientrava in questa politica di provocazione nei riguardi della Germania, ad esempio, la dichiarazione unilaterale di un’area di sicurezza in Atlantico necessaria alla protezione degli interessi statunitensi ed estesa fino al punto di mezzo tra costa orientale degli States ed Europa, entro la quale tra l’altro tutti i convogli mercantili inglesi venivano protetti da unità navali statunitensi e tutti gli U-boot individuati venivano scortati fino al di fuori, e la loro posizione segnalata all’Ammiragliato britannico. Sempre in quest’ottica di provocazione deve essere visto il varo della legge del “Cash and carry”, che consentiva di vendere armi a chiunque potesse pagarle e portarle via (“casualmente” solo la Gran Bretagna disponeva di una flotta mercantile atta allo scopo) e della legge successiva, detta degli “Affitti e prestiti”, che Roosevelt riuscì a far approvare al Congresso quando la situazione critica in cui versava la Gran Bretagna rese impossibile al governo inglese il pagamento sull’unghia del materiale acquistato. Pensare, da parte di Hitler, ad una futura guerra contro gli Stati Uniti non era solo il vaneggiamento di un dittatore in delirio di onnipotenza.

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  7. [2] Ian Kershaw nel suo “Scelte fatali” asserisce che la mancata coordinazione tra Reich tedesco ed Impero del Sol Levante nasce da un errore di valutazione di Hitler, che considerava l’Italia fascista l’alter ego della Germania. In realtà l’Italia, come potenza militare ed industriale, come peso demografico e come capacità del suo corpo ufficiali non era assolutamente all’altezza della Germania, potendo al più recitare un ruolo da comprimario. Il Giappone avrebbe invece potuto costituire questo alter ego, ma Hitler non lo comprese. Il risultato di questa scarsa considerazione del peso del Giappone nell’Asse fu che Berlino procedette nelle proprie operazioni diplomatiche spesso senza consultare l’alleato nipponico. Che si sentì abbandonato a sé stesso quando la Germania stipulò il patto di non aggressione con l’URSS. In quel momento il Giappone era impegnato nella guerra segreta con i sovietici a nord della Manciuria e, probabilmente, pensava di poter contare sull’aiuto tedesco. Sempre secondo Kershaw, quando, due anni dopo, Hitler dichiara guerra agli USA per indurre i giapponesi a fare altrettanto contro l’URSS, Tokyo si guarderà bene dall’assecondarlo. E Mosca potrà sguarnire tranquillamente centinaia di km di frontiera, con l’esercito nipponico che resta a guardare con le armi al piede.

    [3] Nella primavera del 1940, come annotato da Guderian nel suo diario, un gruppo di ufficiali sovietici, oggi li chiameremmo consiglieri militari, si trovava in visita presso le strutture militari tedesche. Per espresso volere di Hitler, nell’ambito dei rapporti di cortesia instaurati dopo la firma del patto Molotov-Ribbentrop, vennero accompagnati un po’ ovunque e gli venne mostrato sostanzialmente tutto quello che c’era da mostrare loro. In particolare vennero esibiti i modelli di panzer in dotazione all’epoca alle forze armate tedesche, fino ad arrivare al panzer IV che costituiva in quel periodo il carro pesante della Wehrmacht , con il suo cannone da 75 mm, la corazza da 50 mm in piastra frontale ed un propulsore Maybach da 300 hp in grado di spingerlo fino alla velocità di 42 kmh su strada. I sovietici lo esaminarono con interesse ed approvazione, e poi chiesero di … vedere i modelli di carro pesante dei tedeschi. Ne nacque un tragicomico equivoco, con i tedeschi convinti che i sovietici li stessero prendendo in giro, il loro carro pesante lo avevano appena mostrato e non capivano cos’altro ci fosse da vedere, ed i sovietici che alla fine andarono via convinti che i tedeschi non avevano mostrato loro proprio tutto. Facendo un attimo mente locale si sarebbe anche potuti giungere all’ovvia conclusione, cioè che i sovietici, avendo già in dotazione il T34, avevano un concetto di carro pesante un tantino diverso…..

    [4] Fra militari (cinque milioni circa) e civili (due milioni circa).

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  8. [5] Su preciso volere del Führer ai primi di agosto del ’41 venne disposta la riassegnazione dei due gruppi corazzati in dotazione al gruppo di Armate Centro (von Bock), uno al gruppo Nord (von Leeb) impegnato nel settore di Leningrado, l’altro al gruppo Sud (von Rundstedt) che avanzava a sud verso l’Ucraina e il Volga, impedendo così al gruppo Centro, il più potente, di proseguire la sua avanzata verso la regione di Mosca, obiettivo strategico dell’Operazione Barbarossa. A quella data il gruppo Centro aveva già da tempo occupato Smolensk, a neanche trecento Km dalla capitale sovietica, e le unità dell’Armata Rossa che si trovava dinanzi erano completamente disorganizzate e frastornate, quando non in rotta, nel caos più completo della logistica e del sistema di comunicazione e comando dello Stavka. Come riconosciuto a posteriori anche dai sovietici e come sostenuto dai comandanti tedeschi all’epoca, si trattava di un errore gravissimo, compiuto e voluto da Hitler il quale aveva deciso di punto in bianco che “gli aspetti economici del conflitto erano prioritari” e che bisognava appropriarsi del grano dell’Ucraina e del petrolio del Caucaso prima di dare il colpo finale all’Armata Rossa travolgendo Mosca con l’Operazione Tifone, che potè iniziare solo il 2 Ottobre. Due settimane dopo sarebbero iniziate le piogge autunnali, che avrebbero trasformato i sentieri polverosi della Russia in un unico fiume di fango, mettendo in crisi gravissima la logistica tedesca. La Wehrmacht, per volere del Fuhrer, aveva così graziosamente concesso ad una Armata Rossa già sconfitta due mesi per riorganizzare le difese davanti a Mosca. Gettando via una vittoria ormai sostanzialmente acquisita e preparando il terreno per la propria definitiva sconfitta.


    * * * *


    Che dire, meglio tardi che mai. Spero comunque di averLe fatto cosa gradita con queste note pervenute fuori tempo massimo, peraltro buttate giù letteralmente a braccio e senza ricontrollare troppo le fonti. Volevo già aggiungere qualcosa dopo la pubblicazione di quella pregevole Sua serie di post sulla guerra sottomarina tedesca, molto documentata e precisa, di cui ricordo di aver condiviso tutto tranne un’unica affermazione (e ora non ricordo nemmeno più quale, ovviamente), l’ho fatto adesso, sperando di non apparire tedioso in quello che era solo il desiderio di fornire qualche spunto per solleticare la curiosità di chi legge.


    P.S.: Non riesco a vedere, sinceramente, dove Odifreddi, nei suoi articoli, abbia arrecato danno alla verità storica. Credo che, più modestamente, egli si sia solo posto il classico problema di chiunque si occupa di storia, ossia l’esegesi delle fonti. In linea di massima, a volerla dire tutta, mi inquieta molto di più che si possa pensare di proibire per legge delle opinioni, come nel caso del cosiddetto negazionismo. La storia è revisionista per principio, ed ognuno deve poter esprimere le proprie motivate opinioni, anche e soprattutto quando vanno contro il pensiero comune, esponendo così i propri argomenti all’altrui giudizio critico. Non è rinchiudendo in cella un David Irving che si difende la verità storica, per dire. La si difende ascoltandone gli argomenti, per poi giudicarli.

    filippo

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    1. grazie Filippo, i suoi lunghi commenti compensano la mia fatica (i lettori peraltro non sanno quanto dolore fisico comporti – dato il mio stato di salute – la scrittura). li leggerò con calma oggi pomeriggio.

      per quanto riguarda il cosiddetto revisionismo storico concordo perfettamente, poiché non in termini di legge penale andrebbero confutate certe asserzioni, le quali contengono peraltro alcuni elementi validi di riflessione.

      quanto al prof. Odifreddi, gli rimprovero solo un fatto che indico chiaramente e che egli stesso ammette: il fatto di non essersi documentato, o almeno di dichiararsi sprovveduto in materia. si tratta, come dico, di un professore molto popolare che scrive in un blog del più diffuso quotidiano nazionale.

      molti saluti e complimenti per la sua erudizione in materia.

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