Con postilla finale aggiunta dopo.
Problema fondamentale di una guerra moderna
di lunga durata, ossia di una guerra di logoramento e annientamento delle
capacità belliche dell’avversario, è quello di mantenere uno standard produttivo
elevato, e dunque, da un lato, quello di garantire un approvvigionamento adeguato
allo sforzo bellico e realizzare un’efficace razionalizzazione delle risorse
economiche, e, dall’altro, riuscire a
reperire e impiegare la manodopera necessaria. Questo aspetto
fondamentale della dinamica economica di guerra, divenne l’assillo principale
delle più alte gerarchie del regime nazista durante tutto il conflitto.
È necessaria una premessa per inquadrare
tale problema in relazione alla guerra paneuropea scatenata dalla Germania nel
1939. Fallito il programma – per motivi economico-finanziari, cioè per
persistenti problemi di bilancia dei pagamenti – di accelerazione del riarmo di
lungo termine e ad “ampio spettro” in preparazione della guerra con le potenze
occidentali (quel piano che doveva dare una vera libertà strategica alla
Germania), Hitler nell’agosto 1939 era pressoché certo – checché ne dica certa
storiografia – che Gran Bretagna e Francia avrebbero dichiarato guerra in caso
di attacco alla Polonia. Ciò è in linea con le risultanze diplomatiche di
quelle settimane. La domanda è: cosa convinse Hitler alla sua decisione?
Primo: era noto pubblicamente che la
Francia, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e l’unione Sovietica stavano
accelerando il proprio riarmo, e ciò rappresentava un grave deterioramento
dell’equilibrio delle forze che si sarebbe via via accentuato. Secondo:
l’iniziativa diplomatica tedesca del 1938 e l’occupazione della Cecoslovacchia
nel marzo 1939 avevano smontato il cordone di sicurezza francese. Non restava
che valutare l’atteggiamento che avrebbero preso gli Stati Uniti e l’unione
Sovietica. Stalin non era certo dell’avviso di fare il formaggio per il topo.
In tal senso il patto tedesco-sovietico garantiva la Germania sul fronte est.
Questo fu un elemento decisivo nella decisione di Hitler di entrare in guerra.
Da questo punto di vista, Hitler si
dimostrava essere un uomo e uno statista lucido e razionale, ed altrettanto lucidi
e competenti erano i suoi più stretti collaboratori, a cominciare da quel Göring che la vulgata
cinematografica lo rappresenta in atteggiamenti caricaturali (pur presenti nel vanitoso
personaggio). E tuttavia vi era un terzo elemento importante che influenzò le
decisioni di Hitler, ossia la componente ideologica, ossia la sua ossessione
per la lotta razziale, la quale non era un semplice motivo di propaganda
popolare.
Hitler, nel 1939, era convinto che Roosevelt
rappresentasse effettivamente il principale agente della cospirazione ebraica
mondiale, e il discorso del 30 gennaio di quell’anno va letto tenendo presente
il discorso sullo stato dell’Unione tenuto dal presidente in cui invitava –
sotto la minaccia di aggressione tedesca – la Polonia, la Francia e la
Gran Bretagna a resistere. Hitler, come tutti, sapeva che l’atteggiamento degli
Stati Uniti sarebbe stato determinante nell’equilibrio della corsa agli
armamenti, però sapeva anche che doveva approfittare di quel momento nel quale
la componente isolazionista negli Stati Uniti era molto forte.
Ecco dunque che nell’agosto 1939 si apriva
forse l’unica “finestra” per agire. In seguito, il sorprendete successo tedesco
in Francia mutò ancor più a favore della Germania la situazione strategica
globale, determinando la convinzione in Hitler che una guerra lampo contro
l’Unione Sovietica per il reperimento delle risorse strategiche necessarie al
sostentamento e armamento tedesco, prima che potessero intervenire direttamente
gli Stati Uniti nel conflitto (dopo la conquista tedesca di Sedan, Roosevelt
aveva lanciato il suo spettacolare programma di riarmo), avrebbe messo con le
spalle al muro Churchill e favorito le chance della parte inglese disposta a un
compromesso di pace. Era un rischio che Hitler decise di correre con estrema
lucidità e sotto l’incalzare degli eventi. Solo dopo abbiamo saputo che si
sbagliava, non però sulla motivazione, bensì sulla capacità di resistenza e
reazione del l’Unione Sovietica.
Quanto alla motivazione, Hitler sapeva bene
che se non metteva le mani sul surplus di grano e di petrolio dell’Unione Sovietica
e sulle miniere ucraine, se non riusciva a organizzare un durevole incremento
della produzione di carbone e a sopperire alla penuria di mangime per animali, l’Europa
occidentale occupata sarebbe stata minacciata da un prolungato declino della
produzione, della produttività e del tenore di vita.
Qui non si tratta di “rivalutare” la figura
di Hitler, non ignoro le gravi mende (eufemismo) di uomo spaventosamente cinico
e intriso di un profondo odio razziale, ma cerco di comprendere, per quanto
possibile fuori dagli schemi e stereotipi dozzinali della propaganda
postbellica, la logica strategica coerente e intellegibile e la psicologia di
un uomo che agì da indiscusso protagonista della storia, un “dittatore
economicamente razionale” che voleva sovvertire radicalmente l’equilibrio del
potere globale.
* * *
Dal lato del reperimento e dell’impiego
della manodopera necessaria allo sforzo bellico, si deve tener conto di alcuni
dati generali. Per quanto riguarda il confronto con la Russia, lo scacchiere
militare più importante nel quale si trovò ad operare la Germania almeno negli
anni 1941-43, è necessario tener presente che il Reich si trovava a dover
affrontare una nazione enormemente più vasta, molto più ricca di materie prime
strategiche e sostenuta da una popolazione numericamente doppia. La Russia
ricevette poi ingenti aiuti di mezzi e materiali dagli alleati, anche se va
chiarito che il “miracolo” sovietico non fu dovuto agli effetti del Lend-Lease
Act che non cominciò a incidere sul fronte orientale fino al 1943. E, inoltre, il
Reich si trovava a combattere due guerre su più fronti e pure su quello interno
dell’Europa occupata. Ciò che impressiona chiunque, è come abbia potuto
resistere la Germania e Wehrmacht così
tanto, e nonostante taluni marchiani errori tattico-strategici di Hitler.
Ciò che incontrò in Russia l’armata tedesca
non fu il supposto “primitivismo slavo”. Nel solo fronte orientale, nei tre
anni giugno 1941- maggio 1944, il tasso
medio di perdite umane della Wehrmacht
sfiorò i 60.000 morti al mese. Solo nell’aprile e giugno 1943 non superarono
i 20.000 caduti mensili, ma già nel luglio il numero salì a 85.000. Nel gennaio
dello stesso anno, in coincidenza della caduta di Stalingrado, i morti erano
stati 180.000. Nell’agosto del 1944, tali perdite raggiunsero l’incredibile
cifra di quasi 280.000, mentre nel luglio precedente 165.000. Si tratta di
quasi mezzo milione di caduti in due mesi e solo sul fronte orientale. Quante
vite e quante distruzioni risparmiate se l’attentato del 20 luglio avesse dato
gli esiti sperati.
Riporto queste cifre per dare un’idea dell’entità
dei rimpiazzi necessari per il fronte. Un raffronto si può fare con le perdite
americane, laddove si pensi che complessivamente gli Usa registrarono in entrambe le guerre mondiali 344.959
caduti. Ma il raffronto forse più significativo può essere fatto con i
combattimenti di Verdun del 1917, noti per essere stati sanguinosissimi. I dati
ufficiali francesi, sebbene notoriamente sottostimati, parlano di 162.308 tra
morti e dispersi e 214.932 feriti in dieci mesi. I tedeschi persero 420.000
uomini, anche se i dati ufficiali parlano di 100mila tra morti e feriti. Cifre
irrisorie se paragonate a ciò che avvenne venticinque anni dopo. Si tenga conto
che dopo Verdun, la decisione dell’esercito francese di riprendere l’offensiva
provocò ripetuti ammutinamenti, e gli effetti di quella carneficina
tatticamente inutile e dispendiosa si fecero sentire nella fatale riduzione
degli effettivi francesi che vent’anni dopo ebbero ad affrontare Hitler.
* * *
Per vincere la guerra sul fronte orientale,
l’industria tedesca doveva prevalere su quella dell’Unione Sovietica. La
questione della manodopera e del cibo divenne dunque questione essenziale e
problema vitale. In tal senso, i numeri erano netti: nell’autunno 1941 i
ventenni tedeschi erano tutti coscritti, nel 1942 si passò ad arruolare i
giovanissimi, circa un milione, e sempre nella prima metà di quell’anno furono
richiamati 200.000 uomini dalle fabbriche. L’anno dopo, il responsabile
statistico del Reich analizzò l’impiego del lavoro femminile nello sforzo
bellico: 25,4 per cento negli Usa 33,1, in Gran Bretagna e 34 per cento in
Germania. La mobilitazione femminile fu portata a circa il 46%, molte donne in
posizione part-time, di più non si poteva fare.
Era necessario trovare milioni di operai
aggiuntivi per sostenere l’enorme apparato industriale, e a tale scopo furono
mobilitate nel 1942 tutte le forze residue e fu incaricato il Gaulaiter Sauckel di mettere in moto “uno dei più grandi programmi di coscrizione forzata che si siano mai visti”. Si mobilitarono milioni di operai provenienti da tutta Europa,
di ambo i sessi, anche adolescenti di 12 anni. In un anno e mezzo, tra il gennaio 1942 e il
giugno 1943, Sauckel procurò più di un milione e mezzo di nuovi schiavi
stranieri. Nel 1943 i lavoratori stranieri erano 6,5mln, di cui 4,95mln civili
e gli altri prigionieri di guerra. Nel febbraio 1944 il totale era salito a
7,356mln e nell’autunno si raggiunse la punta massima di 7,905mln. Il 20% della
forza-lavoro tedesca. Di conseguenza si può affermare che nelle fasi conclusive
della guerra la Germania ospitava tanti schiavi stranieri quanti ne ospita la
Germania “multiculturale” di oggi.
Del resto, il programma tedesco di
sfruttamento della manodopera si conformava ai principi più elementari
dell’economia classica, tutt’ora vigenti e molto auspicati da freddi burocrati
quali il dott. Sergio Marchionne e non meno dai suoi colleghi.
Questo enorme impiego di manodopera
comportava un altro problema, quello del cibo. L’equilibrio alimentare europeo
fu drasticamente ridistribuito per assicurare calorie e proteine necessarie a
nutrire decine di milioni di operai e di schiavi impiegati nella produzione del
Reich. Già nella primavera del 1941 il programma di affamamento concordato tra
i ministeri si combinò con assunti di gerarchia razziale in un piano di
sterminio che faceva impallidire persino quello concordato a Wannsee.
Nella guerra totale, anche la gassazione
generalizzata degli ebrei polacchi doveva assolvere una funzione ben precisa.
All’uopo operarono tre campi di sterminio, Treblinka, Sobibor e Chelm, oltre
alle camere a gas del campo di Auschwitz. I primi tre campi furono chiusi nel
1943, mentre Auschwitz continuò a operare fino a diventare la destinazione
finale per centinaia di migliaia di ebrei provenienti da tutta Europa
occidentale, e dal 1944 anche dall’Ungheria.
Anche ipotizzando che gli ebrei siano stati
utilizzati solo per i lavori più
servili (allora si dovrebbe spiegare dove sono finiti bambini e vecchi),
applicando lo standard prudenziale dei tedeschi, lo sterminio che si produsse con
il loro bestiale sfruttamento e le condizioni nelle quali erano costretti a
sopravvivere, era costato la vita ad almeno 2,4mln di potenziali lavoratori, a
cui vanno aggiunti gli altri omicidi di massa commessi a partire dal gennaio
1942 che comportano un totale incredibile. Oltre un milione di schiavi, non
ebrei, subirono la stessa sorte.
E invece le camere a gas furono impiegate, e ha
sperimentarle per primi furono gli abitanti della Warhegau (una delle province
polacche annesse alla Germania) giudicati inabili al lavoro, furono uccisi
nella struttura sperimentale di Chelm.
* * *
Il fatto che un professore universitario
come Odifreddi, noto pubblicista, popolare per le sue posizioni anticlericali, possa
scrivere con superficialità colpevole sul blog di un quotidiano certe cose, provoca
un gravissimo danno non solo alla verità storica, ma soprattutto nella
coscienza di centinaia e forse migliaia di giovani che leggono le sue parole.
P.S: Divertente la frase riportata da Dagospia: «Corrado Augias: "La battuta sulle camere a gas te la potevi risparmiare. La decenza ha un limite"». Scritto proprio così. Già, è l'indecenza che purtroppo non né ha.