Questo
post tratta del passato, di un’epoca tragica che sembra assai lontana, ma in
realtà vuole parlare del presente. Oggi gli attori sono diversi, ma la trama
nella sua sostanza è la medesima. Lo dedico a lettori non frettolosi e che
vogliono leggere qualcosa di nuovo e di diverso dal solito.
*
Ho
letto l’intervista rilasciato da Guido Ceronetti – un’intelligenza acuta – a
Repubblica, nella quale a proposito della Prima guerra mondiale ha detto: “fu
una cosa tremenda, devastante, mortale che ha cambiato non solo la storia ma
l'anima della gente. Ha cambiato l'Europa”. È molto vero quello che dice
Ceronetti, senza gli orrori di quella guerra, situazioni e personaggi come
quelli che seguirono sarebbe difficile immaginarli. Dove invece non mi trovo
d’accordo con Ceronetti è quando dice: “Il nazismo ci fu perché c'era stata
quella guerra lì: le condizioni imposte alla Germania, dure oltre ogni limite,
erano tali da scatenare come minimo un Hitler”.
Il
nazismo fu quella cosa lì per i modi e le situazioni in cui si compì l’enorme
strage, ma non andò al potere perché c'era stata quella guerra. Il nazismo al
potere non fu l’esito, come sostiene la vulgata, delle conseguenze del Trattato
di Versailles. Il trattato, con le sue innumerevoli implicazioni di carattere
economico, territoriale, politico e psicologico, fu usato strumentalmente per
creare i presupposti politico-ideologici della “rivincita”, trovando numerosi movimenti
politici nazionalisti che se ne fecero interpreti e paladini, tra i quali il nazismo. Bisogna
oltretutto rilevare che la mancata invasione della Germania nel novembre 1918, diede adito all’idea che la Germania non fosse stata effettivamente sconfitta sui
campi di battaglia, con ciò alimentando
la famigerata leggenda della “pugnalata alle spalle” e del ruolo avuto in essa
degli ebrei (peraltro, come tutti sappiamo, l’antisemitismo tedesco viene da
molto lontano).
Tuttavia,
di là di queste considerazioni, il nazismo in assenza della crisi del 1929 non
sarebbe andato al potere. Il nazismo, pur in quella grave crisi, senza le
divisioni politiche tra le altre forze politiche (i socialdemocratici e i
comunisti, i centristi ed i cattolici che poi si alleeranno con Hitler), che non
riuscirono a formare una maggioranza di governo, non si sarebbe affermato
elettoralmente (*). Senza le manovre di palazzo di Papen e di altri idioti
quali Oskar Hindenburg, senza l’appoggio diretto dell’esercito, senza la
pressione e l'aiuto finanziario della grande industria e delle organizzazione dei piccoli e grandi
proprietari agrari, senza il sostegno del magnate dei media Alfred Hugenberg,
Hitler non avrebbe preso piede e comunque avrebbe presto dichiarato bancarotta dopo le elezioni del novembre 1932.
Offro
a tale riguardo degli spunti di riflessione.
Il
cancelliere Hermann Muller cadde sullo scoglio dell’assicurazione contro la
disoccupazione e fu sostituito dal cattolico Heinrich Bruning, sostenuto
dall’esterno dai socialdemocratici, al quale dal maggio del 1932 subentrò
quell’anima bella del cattolico Franz von Papen, che non trovò una maggioranza
che lo sostenesse. Si arriva così alle elezioni legislative del luglio 1932,
nelle quali i nazisti ottennero il 37,3% dei voti, non sufficienti a formare un
governo con a capo Hitler, semmai Hindenburg avesse consentito di affidare
l’incarico di cancelliere al “caporale boemo” capo di un partito di
“delinquenti”.
A
novembre 1932, in nuove elezioni, i nazisti, che pagavano sfiducia e stanchezza
nel proprio elettorato, persero due milioni di voti e 34 seggi, ottenendo il
31,1 (il Partito popolare nazional-tedesco ebbe solo l’8,5). A Monaco e in Franconia
erano il più forte partito, ma in tutti gli altri distretti erano stati battuti
dal Centro cattolico. Complessivamente potevano contare 247 seggi su 584, cioè
ancor meno che nel luglio precedente (267 su 608). Per il partito nazista
l’esito delle elezioni significò il disastro, lo slancio che aveva portato il
NSDAP di vittoria in vittoria fin da 1929 si era ormai esaurito, anche perché si vedevano dei segnali di ripresa economica, laddove "i primi segnali di questa nuova effervescenza avevano sostenuto la strana ondata di ottimismo che investì la repubblica di Weimar poco prima della sua caduta".
All’indomani
della sconfitta elettorale di novembre, le divisioni tra l’ala destra e
sinistra (pensa un po’!) del partito nazista che avevano afflitto il
nazionalsocialismo negli anni Venti, riemersero improvvisamente. Scrive Joachim
Fest: «Hitler avrebbe potuto divenire cancelliere soltanto di un governo che
avesse dalla sua la maggioranza parlamentare; e poiché il capo dello NSDAP
evidentemente non era in grado di assicurarsela, il segretario di stato di
Hindenburg, Meissner, gli indirizzò una lettera» nella quale liquidava ogni velleità del
«Signor Hitler» alla nomina a cancelliere. Nella lettera si diceva
testualmente: «il Signor Presidente del Reich non può non temere che un
gabinetto del genere da Lei guidato si trasformi inevitabilmente nella
dittatura di un partito».
Sul
fronte finanziario, con migliaia di funzionari di partito e le SA che da sole
costavano due milioni e mezzo di marchi la settimana, il NSDAP era alla
bancarotta. Eloquente in tal senso l’annotazione tratta dal diario di Goebbels
secondo cui Hitler, in dicembre, se ne uscì con questa frase: «Se il partito va
a pezzi, tempo tre minuti e la faccio finita con un colpo di pistola».
Ai
primi di dicembre Hindenburg, anche sotto la pressione di parte delle forze
armate di cui il generale Kurt
Schleicher era ministro, affidò l’incarico di formare il nuovo governo
proprio a quest’ultimo, il quale considerava Hitler come “un pericoloso
maniaco”. Ciò avvenne con grave scorno del suo rivale Papen. Il 31 dicembre
Goebbles scrive: «sparite interamente ogni prospettiva e ogni speranza».
Assunti i pieni poteri, Schleicher fece una mossa popolare tentando di aprire
ai sindacati (questi peraltro in profonde divergenze con i socialdemocratici)
avviando la prima iniziativa nazionale per la creazione di lavoro. Gustav
Stolper ricordò poi una scherzosa colazione tenutasi presso la cancelleria del
Reich nel gennaio 1933, in cui Schleicher e i suoi collaboratori fecero a gara
nel prevedere quanti voti avrebbero perso i nazisti nelle elezioni che
Schleicher intendeva indire nella primavera successiva. Certamente, il primo gennaio 1933 gli editoriali di capodanno della stampa berlinese erano
ottimisti. Vorwats, il quotidiano socialdemocratico, salutò il nuovo anno con
il titolo: «Ascesa e caduta di Hitler».
Il
15 gennaio, Kurt von Schuschnigg, allora ministro austriaco della Giustizia, in
visita dal cancelliere Schleicher, assicurò che «il signor Hitler ha cessato di
costituire un problema, il suo movimento non rappresenta più un pericolo
politico, tutta la questione è risolta, non è più che una cosa del passato».
Quello che il ministro austriaco forse non sapeva, ma di cui Schleicher era abbastanza
avvertito, è che per tutto il mese di gennaio von Papen e la lobby agraria e
gli elementi più aggressivi delle forze armate si erano dati un gran daffare
per convincere Hindenburg a dimissionare Schleicher ed ad aprire la porta ad un
esecutivo Hitler-Papen, nella convinzione di poter poi manovrare a piacimento
il capo del NSDAP. Da ultimo, a far pressione, si era aggiunto anche Oskar, il
figlio del presidente.
La
borghesia e gli agrari tedeschi volevano farla finita con la Repubblica e la
democrazia. Essi volevano il ritorno a una Germania di tipo imperiale, la
nobiltà e l’esercito chiedevano il ripristino degli antichi privilegi di casta,
nonostante che la Repubblica avesse trattato le classi alte – come scrive
Shirer nella sua opera sul Terzo Reich – con estrema generosità e tolleranza:
«Aveva permesso all’esercito di continuare a costituire una specie di Stato
entro lo Stato, aveva dato modo agli uomini d’affari e ai banchieri di
realizzare ampi profitti e agli Junker di mantenere le loro proprietà
improduttive mediante prestiti del governo, che non venivano mai pagati e che
solo di rado venivano usati per la miglioria delle loro terre». Dal canto loro,
i conservatori e i nazionalisti più moderati, non assunsero mai responsabilità
di governo o di opposizione. Per quanto riguarda i comunisti, essi perseguivano
la “strategia” di Mosca di contrapposizione dura ai socialdemocratici,
spezzando l’unità politica delle classi lavoratrici. Mancando una classe media
politicamente forte, l’instabilità e il mercanteggiamento politico erano
inevitabili.
Dunque,
in sintesi, non la Prima guerra mondiale e si suoi strascichi creò le
condizioni politiche e sociali per l’ascesa di Hitler, bensì la crisi economica
mondiale degli anni Trenta, la svalutazione competitiva, la miopia politica dei
vecchi partiti, nonché gli interessi dell’esercito, della borghesia, della
nobiltà decaduta e della piccola e grande proprietà fondiaria.
Anche
la questione delle riparazioni di guerra, cioè del debito che la Germania
doveva pagare alle potenze vincitrici per i danni causati dal conflitto da essa
scatenato, va inquadrata nel suo effettivo contesto senza
sottovalutarne la portata ma anche senza esagerarne le dimensioni come si è
soliti fare.
Non
è mia intenzione fare qui (si tratta di un post non di un saggio) la storia dei
vari accordi che si succedettero negli anni in riferimento al debito di guerra
tedesco, ma intendo solo offrire altri spunti di riflessione al riguardo.
È
poco noto che nel 1934 il Terzo Reich registrò la sua crisi finanziaria più
grave della sua breve storia. A seguito della crisi internazionale e della
svalutazione della sterlina (1931) e poi di quella del dollaro (aprile 1933),
il Reichsmark si trovò ad essere sopravvalutato, di modo che le merci tedesche
si trovavano a non essere competitive. Sul fronte finanziario questo stato
delle cose si manifestava con una drastica riduzione delle entrate valutarie,
entrate indispensabili per procedere all’acquisto di materie prime (pensiamo
solo al caucciù) per procedere al programma di riarmo (la spesa pubblica era superiore del 70% ai livelli del 1928).
Ad
aggravare la situazione fu anche la politica antisemita del governo hitleriano, la quale costringeva
molti ebrei a lasciare la Germania: 37.000 nel 1933, 23.000 nel 1934 e 21.000
nel 1935. Secondo una stima prudente, nel 1933 la ricchezza degli ebrei
tedeschi valeva almeno 8 miliardi di Reichsmark, ossia una cifra enorme. Chiaro
che la Germania non si poteva permettere un simile salasso, e tuttavia tra il
gennaio e il giugno 1935 le uscite di moneta forte dovute all’emigrazione
arrivarono in totale a 132 milioni, di cui 124,8 destinati agli ebrei emigrati.
Una cifra apparentemente contenuta, in realtà ben sostanziosa se si considera
che a giugno del 1934 le riserve in Reichsmark si erano ridotte a 100 milioni.
Il governo dovette vietare ai tedeschi in viaggio all’estero di portare più di
50 Reichsmark e agli altri viaggiatori fu proibito portare banconote oltre il
confine del Reich.
Il
governo doveva adottare misure drastiche, tra le quali anche la svalutazione,
per incrementare le esportazioni, oppure avrebbe dovuto imporre pesanti
limitazioni alle importazioni (**). Hitler non era – come disse a Schacht –
contrario in linea di principio alla svalutazione (calcolata sul 40%, con un
aumento tra il 5,4 e il 7,4% dei prezzi e un aggravio del costo della vita per
il proletariato per un rincaro degli alimenti del 10%) e tuttavia era ben
chiaro che una svalutazione rispetto alle altre monete avrebbe vanificato il
vantaggio che un Reichsmark forte aveva nel pagamento dei debiti di guerra (***).
Dunque, si doveva anzitutto sbarazzarsi del debito.
Era
necessario quindi dichiarare una moratoria unilaterale sul debito, poiché se si
voleva gestire seriamente la crisi valutaria, l’altra strada era l’abbandono
del costosissimo progetto di riarmo unilaterale. Ciò fu detto chiaramente al
ministro degli Esteri tedesco dall’ambasciatore americano William Dodd nel
giugno 1934. Dopo di che Schacht tenne un discorso alla camera di commercio
americana di Berlino, ampiamente riportato dai media, alzando deliberatamente
la tensione. Ma di questo, parlerò un’altra volta.
(*) Il padronato contestava le spese per la politica sociale spingendo invece per favorire la “formazione di capitale”. I sindacati per contro rivendicavano la “forza d’acquisto di massa”, ossia la difesa dei salari per sostenere i consumi, pur riconoscendo l’esigenza di “creare di capitale”. Insomma il cliché delle crisi capitalistiche. Hjalmar Schacht, governatore della Banca centrale, impose “una drastica riduzione delle spese pubbliche, l’alleggerimento fiscale e l’accantonamento di una somma destinata all’estinzione dei debiti statali”, costringendo il ministro delle Finanze Hilferding (autore del celebre Il capitale finanziario) alle dimissioni. Anche in questo, nulla di nuovo sotto il sole.
(**) La Gran Bretagna costituiva il maggior mercato di esportazione per la Germania. La maggior parte delle merci tedesche venivano vendute all’estero attraverso cartelli; i macchinari speciali e le materie prime delle quali la Germania deteneva il monopolio rappresentavano quasi un terzo delle esportazioni (110).
(***) Il 20 agosto scorso, un tizio a commento di un mio post ebbe a scrivere: "chi ti ha detto che pagare un debito con una moneta svalutata non conviene? conviene eccome!". Ce n'è di gente con strane idee.