mercoledì 30 ottobre 2013

Povero Adriano, povero Mario, poveri noi ...


Ricordo un filmetto di Steven Spielberg, regista dell’establishment, dal titolo War of the Worlds. I soliti alieni che invadono la Terra e non trovano di meglio che nutrirsi succhiando il sangue dei poveri terrestri, senza distinzioni di razza e di classe. Si tratta della parodia fantastica di ciò che avviene nella realtà da parte degli Usa, i quali vivono e prosperano succhiando il sangue al mondo intero, proseguendo sulla strada degli imperi coloniali del passato. Evitando però tutte le grane derivanti da un’occupazione diretta di territori e nazioni, bastando un controllo attivo e la collaborazione delle borghesie locali.

Scalfire il mito americano dopo un secolo di martellante propaganda è dura, lo so.

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Ieri sera ho avuto l’occasione di guardare a tratti la parte conclusiva dello sceneggiato che ha per tema la vicenda umana, industriale e politica di Adriano Olivetti. Si mostra come l’azienda di Ivrea e i suoi manager fossero ben “sorvegliati” (così dice la colonnella americana nel filmato) dai servizi Usa, dunque erano spiati. Non è una novità, mi pare. Si mostra anche come Adriano Olivetti sia stato, con ogni probabilità, ucciso. Così come venne “incidentato” Mario Tchou.

Un altro ingegnere, nome ignoto ai più, venne “incidentato” quasi una ventina di anni fa sul raccordo anulare di Roma. Per altri, non nobili, motivi. Ma questa è un’altra storia, e non si può raccontare (vano cercare qualsiasi cenno su internet o altrove).

La domanda che lo spettatore medio (quale io sono) dovrebbe porsi è la seguente: ma che ci stavano a fare i servizi segreti italiani se non riuscivano a tutelare gli interessi industriali strategici dell’Italia? Erano troppo occupati a controllare, infiltrare, intossicare e manovrare la “sovversione” nelle fabbriche, nelle università e nei partiti.

L’unico leader europeo che in qualche modo si oppose allo strapotere Usa fu, allora, De Gaulle. Scoppiò il “maggio ‘68”, il generale si trovava in visita ufficiale all’estero, dovette rientrare precipitosamente, si dimise. Il grande tumulto cessò.

Dietrologie? Pensatela come vi pare, tanto la storia non cambia.


lunedì 28 ottobre 2013

Maledetti pensionati mangia a ufo, stramaledetti artigiani evasori


Galli Ernesto dalle pagine del Corriere se la prende con chi scarica sugli altri le responsabilità del disastro italiano. Se la prende con quelli di Destra e di Sinistra (sempre in maiuscolo, per carità), conservatori e riformisti (a chiacchiere) tutti accomunati nel “peccato nazionale”, in sostanza accusati di vivere a scrocco e di aver ridotto l’Italia a un paese disastrato.

Centinaia di migliaia di pensioni d’invalidità “elargite a chi non le meritava” (forse a chi non spettavano?), un sistema pensionistico che per anni ha consentito a decine di migliaia di italiani di destra come di sinistra di andare in pensione con un’anzianità ridicola,  troppi lavori pubblici decisi da amministrazioni di ogni colore e costatati dieci volte il previsto, troppi posti assegnati in base a una raccomandazione, l’evasione fiscale, i padroni che non investono, eccetera. Il solito lungo elenco, e Dio solo sa che queste cose, di per sé, sono assolutamente vere, e che le parole di Galli, per il sentimento che esprimono, sono sante. 

Magari Galli Ernesto avrebbe potuto citare quale esempio concreto del nostro declino industriale, il caso Fiat. È colpa della Fiom se le auto della gamma (?) Fiat di maggior “successo” sono la Panda e la Cinquecento prodotte all’estero? Lo smantellamento di Lancia e Alfa Romeo è colpa dei cassaintegrati fannulloni? Le informazioni finanziarie drogate, gli abbellimenti di bilancio di Parmalat e la vicenda Cirio, l’espulsione da interi settori produttivi della nostra industria, a chi le mettiamo in carico? Ai pensionati con meno di mille euro il mese?

domenica 27 ottobre 2013

La fragile coscienza borghese di Scalfari


Quale similitudine più frusta, parlando di storia individuale o collettiva, dell’immagine offerta dalla ruota che gira? Una similitudine assai comune, efficace e d’immediata comprensione che prende spunto dalla circolarità dei cicli naturali, ossia dalle “leggi eterne” che muovono il mondo. Il risultato di tale movimento è tanto più imprevedibile quanto più esso poggia da un lato sulla spontaneità naturale e dall’altro su motivi casuali d’interesse e di passione che spingono la mano dell’uomo a girare la ruota.

Se l’idea del movimento circolare concorda con molti processi naturali, tuttavia il processo storico reale segue, o può seguire, per altre strade. Per dirla con Braudel, l’uomo segue “un destino ch’egli fabbrica a stento”, ma per quanto a stento, soggiungo, l’homo faber può produrre, a un determinato stadio del suo sviluppo, dei rapporti sociali sottratti alle più divaricanti contraddizioni e cioè realmente umani.

Se possiamo dimostrare – scriveva Engels – che la nostra comprensione di un dato fenomeno naturale è giusta, creandolo noi stessi, producendolo dalle sue condizioni e, quel che più conta, facendolo servire ai nostri fini, l’inafferrabile “cosa in sé” è finita. Gli uomini – scrivevo anche recentemente – non sono una colonia di topi: pur soggetti alle leggi della natura, nella conoscenza di queste leggi e nella possibilità legata a questa conoscenza, possono farle agire secondo un piano per un fine determinato.

sabato 26 ottobre 2013

Il merito di Berlusconi


Pietro Giarda, l’ex ministro di Monti per i rapporti con il parlamento, prima di lasciare la seggiola ha depositato 295 pagine di un suo rapporto sulla spesa pubblica. Insomma, nella permanenza al dicastero il suo copia incolla è stato di mezza paginetta al giorno, anche meno se consideriamo grafici e tabelle. È su tale rapporto del'ex ministro con le orecchie a Dumbo, e non sulle carte del ministro Bondi, che Carlo Cottarelli si accinge ad usare l’ascia per tagliare le “inefficienze” e gli “sprechi” di spesa. E che vi siano inefficienze, sprechi e sovrapposizioni mi pare non vi siano dubbi. Si pensi solo al fatto che polizia e carabinieri costano 14 miliardi all’anno, senza dire della guardia di finanza, delle capitanerie di porto, della forestale, delle polizie provinciali, prefetture, eccetera. Senza dire del resto.

Meno noto è il fatto – ma sono dettagli – che per fare questo ingrato lavoro, il Cottarelli Carlo esige uno stipendio “vicino al tetto di 294mila euro”. E, soprattutto, un contratto triennale inattaccabile, dunque al riparo dallo spoil systemqualunque siano i risultati della sua immane e (vedremo) inane fatica. Però, informano i giornali, ha rinunciato all’auto blu. Già me li vedo il Cottarelli e il suo pool di funzionari prendere l’autobus e obliterare il biglietto!

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venerdì 25 ottobre 2013

Lo scoiattolo e le vipere


File nottetempo per mettere le mani sul gadget di casa Apple. Nei negozi italiani arriveranno i nuovi iPhone 5s e 5c e il 2 novembre sarà la volta degli iPad Air, il nuovo tablet super leggero. Il lancio diventa un evento, i principali operatori telefonici e alcune catene di elettronica hanno organizzato una notte bianca, tenendo aperti fuori del consueto orario alcuni dei punti vendita.

È giusto tenere aperti i negozi di notte, di giorno questi ragazzi debbono dormire.

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Un decennio or sono, da poco entrato in circolazione l’euro, in una pasticceria di Castelfranco Veneto (centro storico ben conservato, ma estinta la gente seria e gli antichi traffici), ebbi la sciocca idea di lasciare sul tavolo, per la cameriera, un euro di mancia. Questa s’adontò, visibilmente, come se l’avessi trattata da pezzente. Quasi dovetti alzarmi e chiedere scusa. Non era un’avventizia lei, ma la figlia del padrone. A Napoli non sarebbe successo, lì la mancia s’offendono se non gliela dai. E anche nella mia Venezia, aperta sul Levante, avrebbero accettato di buon grado, fosse stata pure la dogaressa in persona a servire pasticcini. Forse, pensai allora, con la lira, con due biglietti da mille, l’effetto sarebbe stato diverso? Con quella tanghera, certamente no. E comunque è un argomento a favore dell’uscita dall’euro, vero?

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giovedì 24 ottobre 2013

Ah, se ci fosse stato il Rottamatore a quei tempi ...



L’Italia dovrebbe essere un paese a forte vocazione turistica, tanto più oggi che rischiamo di finire fuori dalla top tin dei più ricchi del pianeta, nonostante l’attivo della bilancia commerciale, il valore delle esportazioni superi quello delle importazioni, le quali hanno raggiunto i 195 miliardi nel primo semestre di quest’anno, dieci in più dell’anno scorso. 

Per quanto riguarda il turismo sappiamo come stanno le cose, ossia molto male. Non solo perché alle gondole veneziane hanno imposto la targa e il coprifuoco, o per l’incuria nella quale è lasciata una parte cospicua del patrimonio artistico (patrimonio dell’umanità solo a parole, quanto a spese è patrimonio quasi esclusivamente a carico nostro), ovvero per la gestione criminale del territorio e del paesaggio, ma anche per l’approccio che in generale gli “operatori” pubblici e privati del settore riservano al turista. Un approccio che definire truffaldino è spesso esatto.

Il Paradiso


Alla fine è venuta anche questa scoperta: in codice si chiama z8 GLD 5296. Non si tratta di un nuovo programma d’intercettazione della NSA (tra parentesi: martedì scrivevo – forse trovando qualche scettico – che cellulari e computer di capi di stato e di governo sono intercettati, e ieri prontamente la cancelliera Merkel fa l’ipocrita “scoperta” che lo sono anche le sue conversazioni telefoniche). Ad ogni buon conto, con quella sigla ci si riferisce alla più lontana galassia finora individuata, a 13,1 miliardi di anni luce. A tale scoperta ha portato il programma chiamato Candels, con il quale sono state esaminate ben 100.000 galassie potenziali candidate ad essere fra le più distanti. Da queste, in base al loro colore, ne sono state poi estratte solo 43, che sono state studiate in dettaglio una ad una con i potenti telescopi a terra, analizzando la loro luce. Centomila galassie, se si pensa alla loro vastità e distanza le une dalle altre, può sembrare un numero enorme, e però pare ne esistano più di 100.000.000.000.

mercoledì 23 ottobre 2013

Il mandante


Gli Stati Uniti d’America, nell’assumere questo nome, si presentarono alla storia con ciò che che sarebbe stato il loro tratto peculiare: l'arroganza.

Forse che i messicani o gli equadoregni sono meno “americani” degli abitanti dell’Alabama o del Texas? Noi li chiamiamo, rispettivamente, messicani e sudamericani. È come se la Repubblica federale di Germania pretendesse di chiamarsi Stati Uniti d’Europa (gli basta essere il Quarto Reich) e con il termine “europei” fossero comunemente indicati i tedeschi.

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Noi vediamo i padri della patria seduti attorno a un tavolo ingombro di carte importanti e con le penne d’oca, in una sala decorata e con scaffali di libri rilegati, con portamento virile e in atteggiamento aulico e pensoso. Washington e C., erano personaggi ambiziosi, intenti anzitutto ai propri interessi, molti erano proprietari di schiavi, e a leggere ciò che hanno lasciato scritto appare chiaro che per loro il termine “democrazia” aveva le stesse connotazioni assunte dal termine “comunista” un secolo e mezzo dopo.

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martedì 22 ottobre 2013

Lo stesso uomo



Ognuno di noi immagini di essere un capo di stato o di governo presente al G-20, e di sapere, con certezza, che il proprio portatile, così come i propri sms e chiamate telefoniche, sia di carattere politico e pure quelle di natura privata, sono spiati in tempo reale da alcuni governi i cui massimi rappresentanti sono presenti allo stesso summit. È quanto è successo, per esempio, al G-20 del 2009.

Ad avvallare e autorizzare questo e altri tipi di spionaggio in stile Stasi è lo stesso uomo che autorizza il rapimento, l’imprigionamento e la tortura di persone legalmente innocenti e senza possibilità di difesa. È, ancora, lo stesso uomo che autorizza degli psicopatici a utilizzare droni per uccidere centinaia di persone innocenti tra cui donne e bambini (leggere a tale proposito articolo sul Corriere di oggi). È dunque lo stesso uomo – diventato indistinguibile dal suo predecessore – al quale è stato assegnato il Nobel per la pace.

Se il premio Nobel fosse una cosa seria (fece bene Sartre nel 1964 a rifiutarlo), quest’anno quello per la pace avrebbero dovuto assegnarlo senza indugio a Edward Snowden, poiché egli ha messo a conoscenza l’opinione pubblica mondiale di ciò che tutti i governi già sanno, ossia che gli Stati Uniti d’America sono uno stato di polizia, un pericolo per la pace e la sicurezza mondiale.

lunedì 21 ottobre 2013

Viri devoti


In alcuni noiosi post recenti, in cui parlo del nazismo, ho cercato di dare cenno su come le determinazioni di carattere economico interagiscano potentemente sulle motivazioni politiche. Detta così può sembrare l’uovo di Colombo, ma si tratta di un’acquisizione non ancora sedimentata nel senso comune dopo millenarie diatribe su concetti come “spirito” e “materia”, e poca attenzione è data al fatto che ci alimentiamo (in tutti i sensi) solo in piccola parte d’ideali e per la maggior parte di prosaiche cose reali.

Poi c’è chi, approdato al materialismo dopo anni di seminario, arriva per contrappunto ad esaltare a senso unico il ruolo di “Madre Natura”, non distinguendo la differenza tra un materialismo volgare e il materialismo storico-dialettico, ossia, tanto per capirci subito, che l’uomo è sì venuto originariamente dalla natura, ma che in tale stato esso sarebbe rimasto un puro essere naturale, non sarebbe mai diventato un uomo se non come un prodotto degli uomini (*).


(*) È il caso del professor Odifreddi e della seguente persiflage: «Credo in un solo Signore, l’Uomo, plurigenito figlio della Natura, nato dalla Madre alla fine di tutti i secoli: natura da Natura, materia da Materia, natura vera da Natura vera, generato, non creato, della stessa sostanza della Madre. Credo nello Spirito, che è Signore e dà coscienza della vita, e procede dalla Madre e dal Figlio, e con la Madre e il Figlio è adorato e glorificato, e ha parlato per mezzo dei profeti dell’Intelletto».

domenica 20 ottobre 2013

Contaminata per sempre


Questo sistema, largamente corrotto e mafioso in ogni sua componente politica, economica e sociale, non ha più alcuna legittimazione popolare e non risponde alla realtà storica. Se qualcuno pensa che questo sistema trovi legittimazione nel voto, o mente oppure è un idiota. Questo regime non può più travestirsi da democrazia; non fa il morto: lo è nonostante i chili di cerone con il quale le sue maschere si presentano in pubblico, gente che manca troppo del senso della qualità anche per quel ruolo.

Possono sentirsi legittimati dei parlamentari cooptati dai padroni dei partiti e che ad essi debbono l’elezione, gli stipendi e tutto quello che sono? Può dire il parlamento di avere un ruolo d’indirizzo su materie quali l’economia, la difesa o la politica estera? L’Italia è già commissariata, e sotto dettatura esegue i “compiti a casa”. Le decisioni, quelle vere, sono prese altrove e poi solo ratificate dal parlamento. Spesso non è più richiesta nemmeno la formalità, c’è il “pilota automatico”.

sabato 19 ottobre 2013

Il dito


Dio creò l’uomo per ultimo, dopo le mosche e le zanzare, e magnanimamente lo fece a sua immagine e somiglianza. Bisogna dire, a onore del vero, che come artigiano dell’argilla il lavoro non riuscì subito troppo bene, per un risultato accettabile ci vollero diverse repliche. Le antiche mitologie si assomigliano tutte e non è difficile credere che esse abbiano una radice comune. Anche le mitologie moderne si assomigliano tutte e abbiamo la certezza che esse hanno una matrice comune: si chiama scienza.

giovedì 17 ottobre 2013

Odifreddi e il dittatore economicamente razionale

Con postilla finale aggiunta dopo.

Problema fondamentale di una guerra moderna di lunga durata, ossia di una guerra di logoramento e annientamento delle capacità belliche dell’avversario, è quello di mantenere uno standard produttivo elevato, e dunque, da un lato, quello di garantire un approvvigionamento adeguato allo sforzo bellico e realizzare un’efficace razionalizzazione delle risorse economiche, e, dall’altro, riuscire a  reperire e impiegare la manodopera necessaria. Questo aspetto fondamentale della dinamica economica di guerra, divenne l’assillo principale delle più alte gerarchie del regime nazista durante tutto il conflitto.

È necessaria una premessa per inquadrare tale problema in relazione alla guerra paneuropea scatenata dalla Germania nel 1939. Fallito il programma – per motivi economico-finanziari, cioè per persistenti problemi di bilancia dei pagamenti – di accelerazione del riarmo di lungo termine e ad “ampio spettro” in preparazione della guerra con le potenze occidentali (quel piano che doveva dare una vera libertà strategica alla Germania), Hitler nell’agosto 1939 era pressoché certo – checché ne dica certa storiografia – che Gran Bretagna e Francia avrebbero dichiarato guerra in caso di attacco alla Polonia. Ciò è in linea con le risultanze diplomatiche di quelle settimane. La domanda è: cosa convinse Hitler alla sua decisione?

Primo: era noto pubblicamente che la Francia, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e l’unione Sovietica stavano accelerando il proprio riarmo, e ciò rappresentava un grave deterioramento dell’equilibrio delle forze che si sarebbe via via accentuato. Secondo: l’iniziativa diplomatica tedesca del 1938 e l’occupazione della Cecoslovacchia nel marzo 1939 avevano smontato il cordone di sicurezza francese. Non restava che valutare l’atteggiamento che avrebbero preso gli Stati Uniti e l’unione Sovietica. Stalin non era certo dell’avviso di fare il formaggio per il topo. In tal senso il patto tedesco-sovietico garantiva la Germania sul fronte est. Questo fu un elemento decisivo nella decisione di Hitler di entrare in guerra.

Da questo punto di vista, Hitler si dimostrava essere un uomo e uno statista lucido e razionale, ed altrettanto lucidi e competenti erano i suoi più stretti collaboratori, a cominciare da quel Göring che la vulgata cinematografica lo rappresenta in atteggiamenti caricaturali (pur presenti nel vanitoso personaggio). E tuttavia vi era un terzo elemento importante che influenzò le decisioni di Hitler, ossia la componente ideologica, ossia la sua ossessione per la lotta razziale, la quale non era un semplice motivo di propaganda popolare.

Hitler, nel 1939, era convinto che Roosevelt rappresentasse effettivamente il principale agente della cospirazione ebraica mondiale, e il discorso del 30 gennaio di quell’anno va letto tenendo presente il discorso sullo stato dell’Unione tenuto dal presidente in cui invitava – sotto la minaccia di aggressione tedesca – la Polonia, la Francia e la Gran Bretagna a resistere. Hitler, come tutti, sapeva che l’atteggiamento degli Stati Uniti sarebbe stato determinante nell’equilibrio della corsa agli armamenti, però sapeva anche che doveva approfittare di quel momento nel quale la componente isolazionista negli Stati Uniti era molto forte.

Ecco dunque che nell’agosto 1939 si apriva forse l’unica “finestra” per agire. In seguito, il sorprendete successo tedesco in Francia mutò ancor più a favore della Germania la situazione strategica globale, determinando la convinzione in Hitler che una guerra lampo contro l’Unione Sovietica per il reperimento delle risorse strategiche necessarie al sostentamento e armamento tedesco, prima che potessero intervenire direttamente gli Stati Uniti nel conflitto (dopo la conquista tedesca di Sedan, Roosevelt aveva lanciato il suo spettacolare programma di riarmo), avrebbe messo con le spalle al muro Churchill e favorito le chance della parte inglese disposta a un compromesso di pace. Era un rischio che Hitler decise di correre con estrema lucidità e sotto l’incalzare degli eventi. Solo dopo abbiamo saputo che si sbagliava, non però sulla motivazione, bensì sulla capacità di resistenza e reazione del l’Unione Sovietica.

Quanto alla motivazione, Hitler sapeva bene che se non metteva le mani sul surplus di grano e di petrolio dell’Unione Sovietica e sulle miniere ucraine, se non riusciva a organizzare un durevole incremento della produzione di carbone e a sopperire alla penuria di mangime per animali, l’Europa occidentale occupata sarebbe stata minacciata da un prolungato declino della produzione, della produttività e del tenore di vita.

Qui non si tratta di “rivalutare” la figura di Hitler, non ignoro le gravi mende (eufemismo) di uomo spaventosamente cinico e intriso di un profondo odio razziale, ma cerco di comprendere, per quanto possibile fuori dagli schemi e stereotipi dozzinali della propaganda postbellica, la logica strategica coerente e intellegibile e la psicologia di un uomo che agì da indiscusso protagonista della storia, un “dittatore economicamente razionale” che voleva sovvertire radicalmente l’equilibrio del potere globale.

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Dal lato del reperimento e dell’impiego della manodopera necessaria allo sforzo bellico, si deve tener conto di alcuni dati generali. Per quanto riguarda il confronto con la Russia, lo scacchiere militare più importante nel quale si trovò ad operare la Germania almeno negli anni 1941-43, è necessario tener presente che il Reich si trovava a dover affrontare una nazione enormemente più vasta, molto più ricca di materie prime strategiche e sostenuta da una popolazione numericamente doppia. La Russia ricevette poi ingenti aiuti di mezzi e materiali dagli alleati, anche se va chiarito che il “miracolo” sovietico non fu dovuto agli effetti del Lend-Lease Act che non cominciò a incidere sul fronte orientale fino al 1943. E, inoltre, il Reich si trovava a combattere due guerre su più fronti e pure su quello interno dell’Europa occupata. Ciò che impressiona chiunque, è come abbia potuto resistere la Germania e Wehrmacht così tanto, e nonostante taluni marchiani errori tattico-strategici di Hitler.

Ciò che incontrò in Russia l’armata tedesca non fu il supposto “primitivismo slavo”. Nel solo fronte orientale, nei tre anni giugno 1941- maggio 1944, il tasso medio di perdite umane della Wehrmacht sfiorò i 60.000 morti al mese. Solo nell’aprile e giugno 1943 non superarono i 20.000 caduti mensili, ma già nel luglio il numero salì a 85.000. Nel gennaio dello stesso anno, in coincidenza della caduta di Stalingrado, i morti erano stati 180.000. Nell’agosto del 1944, tali perdite raggiunsero l’incredibile cifra di quasi 280.000, mentre nel luglio precedente 165.000. Si tratta di quasi mezzo milione di caduti in due mesi e solo sul fronte orientale. Quante vite e quante distruzioni risparmiate se l’attentato del 20 luglio avesse dato gli esiti sperati.

Riporto queste cifre per dare un’idea dell’entità dei rimpiazzi necessari per il fronte. Un raffronto si può fare con le perdite americane, laddove si pensi che complessivamente gli Usa registrarono in entrambe le guerre mondiali 344.959 caduti. Ma il raffronto forse più significativo può essere fatto con i combattimenti di Verdun del 1917, noti per essere stati sanguinosissimi. I dati ufficiali francesi, sebbene notoriamente sottostimati, parlano di 162.308 tra morti e dispersi e 214.932 feriti in dieci mesi. I tedeschi persero 420.000 uomini, anche se i dati ufficiali parlano di 100mila tra morti e feriti. Cifre irrisorie se paragonate a ciò che avvenne venticinque anni dopo. Si tenga conto che dopo Verdun, la decisione dell’esercito francese di riprendere l’offensiva provocò ripetuti ammutinamenti, e gli effetti di quella carneficina tatticamente inutile e dispendiosa si fecero sentire nella fatale riduzione degli effettivi francesi che vent’anni dopo ebbero ad affrontare Hitler.

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Per vincere la guerra sul fronte orientale, l’industria tedesca doveva prevalere su quella dell’Unione Sovietica. La questione della manodopera e del cibo divenne dunque questione essenziale e problema vitale. In tal senso, i numeri erano netti: nell’autunno 1941 i ventenni tedeschi erano tutti coscritti, nel 1942 si passò ad arruolare i giovanissimi, circa un milione, e sempre nella prima metà di quell’anno furono richiamati 200.000 uomini dalle fabbriche. L’anno dopo, il responsabile statistico del Reich analizzò l’impiego del lavoro femminile nello sforzo bellico: 25,4 per cento negli Usa 33,1, in Gran Bretagna e 34 per cento in Germania. La mobilitazione femminile fu portata a circa il 46%, molte donne in posizione part-time, di più non si poteva fare.

Era necessario trovare milioni di operai aggiuntivi per sostenere l’enorme apparato industriale, e a tale scopo furono mobilitate nel 1942 tutte le forze residue e fu incaricato il Gaulaiter Sauckel di mettere in moto “uno dei più grandi programmi di coscrizione forzata che si siano mai visti”. Si mobilitarono milioni di operai provenienti da tutta Europa, di ambo i sessi, anche adolescenti di 12 anni.  In un anno e mezzo, tra il gennaio 1942 e il giugno 1943, Sauckel procurò più di un milione e mezzo di nuovi schiavi stranieri. Nel 1943 i lavoratori stranieri erano 6,5mln, di cui 4,95mln civili e gli altri prigionieri di guerra. Nel febbraio 1944 il totale era salito a 7,356mln e nell’autunno si raggiunse la punta massima di 7,905mln. Il 20% della forza-lavoro tedesca. Di conseguenza si può affermare che nelle fasi conclusive della guerra la Germania ospitava tanti schiavi stranieri quanti ne ospita la Germania “multiculturale” di oggi.

Del resto, il programma tedesco di sfruttamento della manodopera si conformava ai principi più elementari dell’economia classica, tutt’ora vigenti e molto auspicati da freddi burocrati quali il dott. Sergio Marchionne e non meno dai suoi colleghi.

Questo enorme impiego di manodopera comportava un altro problema, quello del cibo. L’equilibrio alimentare europeo fu drasticamente ridistribuito per assicurare calorie e proteine necessarie a nutrire decine di milioni di operai e di schiavi impiegati nella produzione del Reich. Già nella primavera del 1941 il programma di affamamento concordato tra i ministeri si combinò con assunti di gerarchia razziale in un piano di sterminio che faceva impallidire persino quello concordato a Wannsee.

Nella guerra totale, anche la gassazione generalizzata degli ebrei polacchi doveva assolvere una funzione ben precisa. All’uopo operarono tre campi di sterminio, Treblinka, Sobibor e Chelm, oltre alle camere a gas del campo di Auschwitz. I primi tre campi furono chiusi nel 1943, mentre Auschwitz continuò a operare fino a diventare la destinazione finale per centinaia di migliaia di ebrei provenienti da tutta Europa occidentale, e dal 1944 anche dall’Ungheria.

Anche ipotizzando che gli ebrei siano stati utilizzati solo per i lavori più servili (allora si dovrebbe spiegare dove sono finiti bambini e vecchi), applicando lo standard prudenziale dei tedeschi, lo sterminio che si produsse con il loro bestiale sfruttamento e le condizioni nelle quali erano costretti a sopravvivere, era costato la vita ad almeno 2,4mln di potenziali lavoratori, a cui vanno aggiunti gli altri omicidi di massa commessi a partire dal gennaio 1942 che comportano un totale incredibile. Oltre un milione di schiavi, non ebrei, subirono la stessa sorte.

E invece le camere a gas furono impiegate, e ha sperimentarle per primi furono gli abitanti della Warhegau (una delle province polacche annesse alla Germania) giudicati inabili al lavoro, furono uccisi nella struttura sperimentale di Chelm.

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Il fatto che un professore universitario come Odifreddi, noto pubblicista, popolare per le sue posizioni anticlericali, possa scrivere con superficialità colpevole sul blog di un quotidiano certe cose, provoca un gravissimo danno non solo alla verità storica, ma soprattutto nella coscienza di centinaia e forse migliaia di giovani che leggono le sue parole.

P.S: Divertente la frase riportata da Dagospia: «Corrado Augias: "La battuta sulle camere a gas te la potevi risparmiare. La decenza ha un limite"».  Scritto proprio così. Già, è l'indecenza che purtroppo non né ha.

  

mercoledì 16 ottobre 2013

«Esportare o morire»


Su Hitler e il nazismo sono frequenti i più vieti truismi, gli stereotipi emozionali e mediaci più frusti, causa una cultura storica dozzinale, scarsità di lavori di pregio e non molte traduzioni italiane di valore.

Nella pubblicistica corrente Hitler è visto essenzialmente come un fanatico, un’anomalia della storia, “portavoce di un gruppo d’intellettuali formatosi nella dimestichezza con la cultura occulta” (cazzate). Conseguentemente, per quanto riguarda il nazismo, esso è inteso come il trionfo della follia nel processo storico, e non, invece, come il prodotto specifico delle contraddizioni capitalistiche e della dinamica dello scontro tra imperialismi.

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In un discorso tenuto al Reichstag, il 30 gennaio 1939, famoso per le minacce contro la comunità ebraica, Hitler si rivolse al popolo tedesco per fare fronte alle persistenti difficoltà economiche in cui si dibatteva il Terzo Reich, le quali rappresentano un aspetto poco noto al grande pubblico, portato a credere che esse, come per incanto, fossero state risolte dal demoniaco genio di Hitler e dei suoi “volenterosi” seguaci.

Il nazismo non risolse i problemi economici della Germania, semplicemente perché quei problemi, mutatis mutandis, riguardano le contraddizioni nelle quali si dibatte ogniqualvolta il sistema economico capitalistico per sua natura. Non per nulla, in quel discorso, Hitler esortò solennemente: «esportare o morire» (1). Si tratta di un leitmotiv che riecheggia insistente anche oggi. Questa esortazione programmatica hitleriana condensa i motivi fondamentali del nazismo, del Lebensraum, non meno di quelli che muovono oggi la Germania dell’euro, che però, finora, per il suo Lebensraum non ha avuto bisogno di riarmarsi, né per trovare sbocchi alle proprie merci.

martedì 15 ottobre 2013

“Speriamo che gli Usa imparino dalla storia”


Quando prevale il senso dell’irrealtà, quando si vive, si pensa e si agisce in una dimensione diversa dalla realtà, la catastrofe è a un passo.

Di questi giorni, 201 anni fa, Napoleone viveva sicuro nel palazzo Petrowskie, all’ora alla periferia di Mosca. Avvertito che i suoi uomini avevano bisogno di vestiario caldo per affrontare l’inverno russo, ordinò che fossero distribuiti mantelli foderati di pelliccia, stivali pesanti, e copricapo speciali, senza tener in alcun conto delle rimostranze dei suoi ufficiali che gli facevano notare che non vi era il materiale per confezionare quanto richiesto. Hitler, nel 1941, si vide costretto a lanciare una campagna nazionale per la raccolta di pellicce, non quelle della signorina Eva Braun.

domenica 13 ottobre 2013

La Madonna laica (e poi anche l'altra)


In attesa che qualcuno finalmente trovi la quadratura del cerchio, ossia una “non soluzione” a quella cazzata (*) della legge penale sull’immigrazione clandestina, ovvero che arrivi l’inverno, si plachino le odissee clandestine attraverso il Canale di Sicilia e dunque il clamore mediatico e tutto torni come prima e anzi peggio, apprendiamo che “la vera rivoluzione è applicare la carta”. Sì, quella da parati.

Scrivevo l’altro ieri: Del resto, questi signori non ci ricordano spesso che anche noi italiani, popolo di migranti oltre che di poeti e tesorieri di partito, abbiamo traversato gli oceani a milioni? Come se l’Italia e l’Europa di oggi fossero paragonabili alle Americhe e all’Australia di un secolo o anche solo di cinquant’anni fa. 

Prontamente Eugenio Scalfari raccoglie: Gli italiani per circa un secolo sono stati un popolo di emigranti in Europa, nelle America del Nord e del Sud, in Australia […].Quelli che dalla costa della Libia e da altre del Medio Oriente affollano barconi che somigliano a zattere a stento galleggianti, fuggono dalla morte certa e sfidano quella probabile”

Il Travaglio legislatore


Come scrivevo ieri, una questione posta male può trovare solo cattive risposte. Dicevo pure che il reato di clandestinità è una cazzata. A tale riguardo, si potrebbe obiettare (e c’è chi lo fa, come Marco Travaglio) che l’immigrazione clandestina non può e non dev’essere lecita: “nessuno Stato sovrano può tollerare che circolino indisturbate sul suo territorio persone senza un’identità certa”. S’è per questo, osservo, l’Italia non dovrebbe tollerare parecchie cose, ma non voglio affrontare il discorso da quest’angolatura perché porterebbe fuori tema.

Siccome nessuno Stato sovrano può tollerare che circolino indisturbate sul suo territorio persone senza un’identità certa, il parlamento a suo tempo ha stabilito che l’immigrazione clandestina sia considerata reato, una misura di carattere penale che nelle intenzioni del legislatore dovrebbe non solo punire ma servire da deterrente all’immigrazione clandestina. Sennonché tale obiettivo è una chimera poiché continuano a sopraggiungere decine di migliaia di “clandestini” (con e senza virgolette).


sabato 12 ottobre 2013

Badilate di storia a margine delle cazzate grilliane


Quando decresce il prezzo della forza-lavoro,
si svaluta anche il valore della vita umana.
È la legge della domanda e dell’offerta.

Una questione posta male può trovare solo cattive risposte. Il reato di clandestinità è una cazzata così come lo è – a proposito di sovraffollamento delle carceri – la legge Fini-Giovanardi (basta il marchio). Restano i problemi, quelli veri, sulla carne viva della gente. Non è un caso che i partiti di estrema destra mietano consensi, anche perché la sinistra non esiste più da molti anni, e non è un caso che ciò avvenga. Così com’è assiomatico che quando la povertà e l’emarginazione aumentano a causa d’imponenti trasformazioni economiche, cresce la criminalità e con essa la richiesta di sicurezza, le pene si fanno più severe e poi seguono le legislazioni speciali, quando non dei veri e propri cambi di regime politico. Ciò non dipende in generale dalla malvagità di taluni individui – anche se ciò non assolve dalle responsabilità personali – ma dalle spontanee conseguenze della natura di un processo storico che gli uomini non sanno ancora governare.

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Povertà ed emarginazione, come detto, aumentano i delitti e di conseguenza i rei, perciò sono le condizioni sociali che modellano il diritto penale. In generale, noi abbiamo, a tale riguardo, idee assai preconcette, poiché il senso comune è dato da stereotipati scolastici e mediatici non solo per quanto riguarda gli avvenimenti più recenti ma anche per le epoche più remote. Non è un caso che vi sia più verità storica nei romanzi che nella saggistica da banco.

giovedì 10 ottobre 2013

La virtù più grande


Chi non vede la prigione, vuol dire che è cieco.
Chi non sente i tamburi di guerra, vuol dire che è sordo.

Ieri sera ho ascoltato per qualche minuto un finto dibattito televisivo sul tema dell’immigrazione tra un eminente intelletto leghista che risponde al nome di Salvini e un certo Nessuno del Partito democratico. Il leghista ragliava delle osservazioni superficialmente sensate partendo dal solito refrain ideologico razzista. In contraddittorio, si fa per dire, l’esponente del Pd biascicava con lo sguardo vuoto le solite frasette retoriche e politicamente corrette senza perciò dire assolutamente nulla, ma proprio nulla, di significativo e di concreto. Il solito teatrino tra uno spot pubblicitario e l’altro. La signora Gruber, biondissima e annoiata, credo ripercorresse mentalmente gli ordini per l’indomani mattina alla colf filippina.

Il Pd è al governo da due anni (vale la pena ricordarlo), il signor Napolitano non ci si ricorda nemmeno più da quando è presidente della repubblica, la signora Boldrini è presidente della Camera, abbiano dunque il coraggio politico, civile e morale di dire l’unica cosa che andrebbe detta, non da oggi ma da decenni, sul tema delle “tragedie”: per evitarne di nuove, sulle quali poi piangere lacrime ipocrite, è necessario predisporre dalla Libia un servizio regolare di traghetti per l’Italia. I migranti sono disposti, peraltro, a pagare una congrua tariffa di sola andata con bagaglio a mano. Si tratta di estendere Schengen all’Africa, al Medio Oriente e all’Asia.

mercoledì 9 ottobre 2013

Difficili da “scovare”

Nessuna epoca vivente è mai il prodotto di una teoria, bensì di precisi interessi.

L’altro giorno la barzelletta della restituzione in busta paga tra i 250 e i 300 euro (inizialmente s’era detto 350, ma poi dev’essere sembrata una cifra esagerata). Non è un'idea deplorevole dopo due aumenti dell’Iva e il rincaro di carburanti e di tutto il resto, dopo oltre un decennio di deflazione di salari, stipendi e pensioni, eccetera. È un gioco per occultare la realtà. Tanto per dire, la pressione fiscale nel trimestre è stata pari al 43,8%, risultando superiore di 1,3 punti percentuali rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Quasi metà dei nostri redditi se ne va in tasse e imposte, ma non c'è da preoccuparsi finché lo Stato continuerà a pagare mensilmente pensioni e stipendi, o la tua impresa dove lavori non chiude i battenti. Durerà fino a quando il 40% dei giovani disoccupati trovano due pasti gratis il giorno. Ma quanto? Non all'infinito, certo. È questo il tratto indiscutibilmente moderno della democrazia finché non finisce in bancarotta o non dichiara guerra.

In definitiva il ventilato rimborso prevede circa 80 centesimi al giorno, somma che dovrebbe portare un gran sollievo alle famiglie, secondo le intenzioni dichiarate del governo, e rilanciarne i consumi. Vedremo, ma non credo arriverà neanche questa elemosina.


martedì 8 ottobre 2013

Passato e presente


Questo post tratta del passato, di un’epoca tragica che sembra assai lontana, ma in realtà vuole parlare del presente. Oggi gli attori sono diversi, ma la trama nella sua sostanza è la medesima. Lo dedico a lettori non frettolosi e che vogliono leggere qualcosa di nuovo e di diverso dal solito.

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Ho letto l’intervista rilasciato da Guido Ceronetti – un’intelligenza acuta – a Repubblica, nella quale a proposito della Prima guerra mondiale ha detto: “fu una cosa tremenda, devastante, mortale che ha cambiato non solo la storia ma l'anima della gente. Ha cambiato l'Europa”. È molto vero quello che dice Ceronetti, senza gli orrori di quella guerra, situazioni e personaggi come quelli che seguirono sarebbe difficile immaginarli. Dove invece non mi trovo d’accordo con Ceronetti è quando dice: “Il nazismo ci fu perché c'era stata quella guerra lì: le condizioni imposte alla Germania, dure oltre ogni limite, erano tali da scatenare come minimo un Hitler”.

Il nazismo fu quella cosa lì per i modi e le situazioni in cui si compì l’enorme strage, ma non andò al potere perché c'era stata quella guerra. Il nazismo al potere non fu l’esito, come sostiene la vulgata, delle conseguenze del Trattato di Versailles. Il trattato, con le sue innumerevoli implicazioni di carattere economico, territoriale, politico e psicologico, fu usato strumentalmente per creare i presupposti politico-ideologici della “rivincita”, trovando numerosi movimenti politici nazionalisti che se ne fecero interpreti e paladini, tra i quali il nazismo. Bisogna oltretutto rilevare che la mancata invasione della Germania nel novembre 1918, diede adito all’idea che la Germania non fosse stata effettivamente sconfitta sui campi di battaglia, con ciò  alimentando la famigerata leggenda della “pugnalata alle spalle” e del ruolo avuto in essa degli ebrei (peraltro, come tutti sappiamo, l’antisemitismo tedesco viene da molto lontano).

Tuttavia, di là di queste considerazioni, il nazismo in assenza della crisi del 1929 non sarebbe andato al potere. Il nazismo, pur in quella grave crisi, senza le divisioni politiche tra le altre forze politiche (i socialdemocratici e i comunisti, i centristi ed i cattolici che poi si alleeranno con Hitler), che non riuscirono a formare una maggioranza di governo, non si sarebbe affermato elettoralmente (*). Senza le manovre di palazzo di Papen e di altri idioti quali Oskar Hindenburg, senza l’appoggio diretto dell’esercito, senza la pressione e l'aiuto finanziario della grande industria e delle organizzazione dei piccoli e grandi proprietari agrari, senza il sostegno del magnate dei media Alfred Hugenberg, Hitler non avrebbe preso piede e comunque avrebbe presto dichiarato bancarotta dopo le elezioni del novembre 1932.

Offro a tale riguardo degli spunti di riflessione.

Il cancelliere Hermann Muller cadde sullo scoglio dell’assicurazione contro la disoccupazione e fu sostituito dal cattolico Heinrich Bruning, sostenuto dall’esterno dai socialdemocratici, al quale dal maggio del 1932 subentrò quell’anima bella del cattolico Franz von Papen, che non trovò una maggioranza che lo sostenesse. Si arriva così alle elezioni legislative del luglio 1932, nelle quali i nazisti ottennero il 37,3% dei voti, non sufficienti a formare un governo con a capo Hitler, semmai Hindenburg avesse consentito di affidare l’incarico di cancelliere al “caporale boemo” capo di un partito di “delinquenti”.

A novembre 1932, in nuove elezioni, i nazisti, che pagavano sfiducia e stanchezza nel proprio elettorato, persero due milioni di voti e 34 seggi, ottenendo il 31,1 (il Partito popolare nazional-tedesco ebbe solo l’8,5). A Monaco e in Franconia erano il più forte partito, ma in tutti gli altri distretti erano stati battuti dal Centro cattolico. Complessivamente potevano contare 247 seggi su 584, cioè ancor meno che nel luglio precedente (267 su 608). Per il partito nazista l’esito delle elezioni significò il disastro, lo slancio che aveva portato il NSDAP di vittoria in vittoria fin da 1929 si era ormai esaurito, anche perché si vedevano dei segnali di ripresa economica, laddove "i primi segnali di questa nuova effervescenza avevano sostenuto la strana ondata di ottimismo che investì la repubblica di Weimar poco prima della sua caduta".

All’indomani della sconfitta elettorale di novembre, le divisioni tra l’ala destra e sinistra (pensa un po’!) del partito nazista che avevano afflitto il nazionalsocialismo negli anni Venti, riemersero improvvisamente. Scrive Joachim Fest: «Hitler avrebbe potuto divenire cancelliere soltanto di un governo che avesse dalla sua la maggioranza parlamentare; e poiché il capo dello NSDAP evidentemente non era in grado di assicurarsela, il segretario di stato di Hindenburg, Meissner, gli indirizzò una lettera»  nella quale liquidava ogni velleità del «Signor Hitler» alla nomina a cancelliere. Nella lettera si diceva testualmente: «il Signor Presidente del Reich non può non temere che un gabinetto del genere da Lei guidato si trasformi inevitabilmente nella dittatura di un partito».

Sul fronte finanziario, con migliaia di funzionari di partito e le SA che da sole costavano due milioni e mezzo di marchi la settimana, il NSDAP era alla bancarotta. Eloquente in tal senso l’annotazione tratta dal diario di Goebbels secondo cui Hitler, in dicembre, se ne uscì con questa frase: «Se il partito va a pezzi, tempo tre minuti e la faccio finita con un colpo di pistola».

Ai primi di dicembre Hindenburg, anche sotto la pressione di parte delle forze armate di cui il generale Kurt  Schleicher era ministro, affidò l’incarico di formare il nuovo governo proprio a quest’ultimo, il quale considerava Hitler come “un pericoloso maniaco”. Ciò avvenne con grave scorno del suo rivale Papen. Il 31 dicembre Goebbles scrive: «sparite interamente ogni prospettiva e ogni speranza». Assunti i pieni poteri, Schleicher fece una mossa popolare tentando di aprire ai sindacati (questi peraltro in profonde divergenze con i socialdemocratici) avviando la prima iniziativa nazionale per la creazione di lavoro. Gustav Stolper ricordò poi una scherzosa colazione tenutasi presso la cancelleria del Reich nel gennaio 1933, in cui Schleicher e i suoi collaboratori fecero a gara nel prevedere quanti voti avrebbero perso i nazisti nelle elezioni che Schleicher intendeva indire nella primavera successiva. Certamente, il primo gennaio 1933 gli editoriali di capodanno della stampa berlinese erano ottimisti. Vorwats, il quotidiano socialdemocratico, salutò il nuovo anno con il titolo: «Ascesa e caduta di Hitler».

Il 15 gennaio, Kurt von Schuschnigg, allora ministro austriaco della Giustizia, in visita dal cancelliere Schleicher, assicurò che «il signor Hitler ha cessato di costituire un problema, il suo movimento non rappresenta più un pericolo politico, tutta la questione è risolta, non è più che una cosa del passato». Quello che il ministro austriaco forse non sapeva, ma di cui Schleicher era abbastanza avvertito, è che per tutto il mese di gennaio von Papen e la lobby agraria e gli elementi più aggressivi delle forze armate si erano dati un gran daffare per convincere Hindenburg a dimissionare Schleicher ed ad aprire la porta ad un esecutivo Hitler-Papen, nella convinzione di poter poi manovrare a piacimento il capo del NSDAP. Da ultimo, a far pressione, si era aggiunto anche Oskar, il figlio del presidente.

La borghesia e gli agrari tedeschi volevano farla finita con la Repubblica e la democrazia. Essi volevano il ritorno a una Germania di tipo imperiale, la nobiltà e l’esercito chiedevano il ripristino degli antichi privilegi di casta, nonostante che la Repubblica avesse trattato le classi alte – come scrive Shirer nella sua opera sul Terzo Reich – con estrema generosità e tolleranza: «Aveva permesso all’esercito di continuare a costituire una specie di Stato entro lo Stato, aveva dato modo agli uomini d’affari e ai banchieri di realizzare ampi profitti e agli Junker di mantenere le loro proprietà improduttive mediante prestiti del governo, che non venivano mai pagati e che solo di rado venivano usati per la miglioria delle loro terre». Dal canto loro, i conservatori e i nazionalisti più moderati, non assunsero mai responsabilità di governo o di opposizione. Per quanto riguarda i comunisti, essi perseguivano la “strategia” di Mosca di contrapposizione dura ai socialdemocratici, spezzando l’unità politica delle classi lavoratrici. Mancando una classe media politicamente forte, l’instabilità e il mercanteggiamento politico erano inevitabili.

Dunque, in sintesi, non la Prima guerra mondiale e si suoi strascichi creò le condizioni politiche e sociali per l’ascesa di Hitler, bensì la crisi economica mondiale degli anni Trenta, la svalutazione competitiva, la miopia politica dei vecchi partiti, nonché gli interessi dell’esercito, della borghesia, della nobiltà decaduta e della piccola e grande proprietà fondiaria.

Anche la questione delle riparazioni di guerra, cioè del debito che la Germania doveva pagare alle potenze vincitrici per i danni causati dal conflitto da essa scatenato, va inquadrata nel suo effettivo contesto senza sottovalutarne la portata ma anche senza esagerarne le dimensioni come si è soliti fare.

Non è mia intenzione fare qui (si tratta di un post non di un saggio) la storia dei vari accordi che si succedettero negli anni in riferimento al debito di guerra tedesco, ma intendo solo offrire altri spunti di riflessione al riguardo.

È poco noto che nel 1934 il Terzo Reich registrò la sua crisi finanziaria più grave della sua breve storia. A seguito della crisi internazionale e della svalutazione della sterlina (1931) e poi di quella del dollaro (aprile 1933), il Reichsmark si trovò ad essere sopravvalutato, di modo che le merci tedesche si trovavano a non essere competitive. Sul fronte finanziario questo stato delle cose si manifestava con una drastica riduzione delle entrate valutarie, entrate indispensabili per procedere all’acquisto di materie prime (pensiamo solo al caucciù) per procedere al programma di riarmo (la spesa pubblica era superiore del 70% ai livelli del 1928).

Ad aggravare la situazione fu anche la politica antisemita del governo hitleriano, la quale costringeva molti ebrei a lasciare la Germania: 37.000 nel 1933, 23.000 nel 1934 e 21.000 nel 1935. Secondo una stima prudente, nel 1933 la ricchezza degli ebrei tedeschi valeva almeno 8 miliardi di Reichsmark, ossia una cifra enorme. Chiaro che la Germania non si poteva permettere un simile salasso, e tuttavia tra il gennaio e il giugno 1935 le uscite di moneta forte dovute all’emigrazione arrivarono in totale a 132 milioni, di cui 124,8 destinati agli ebrei emigrati. Una cifra apparentemente contenuta, in realtà ben sostanziosa se si considera che a giugno del 1934 le riserve in Reichsmark si erano ridotte a 100 milioni. Il governo dovette vietare ai tedeschi in viaggio all’estero di portare più di 50 Reichsmark e agli altri viaggiatori fu proibito portare banconote oltre il confine del Reich.

Il governo doveva adottare misure drastiche, tra le quali anche la svalutazione, per incrementare le esportazioni, oppure avrebbe dovuto imporre pesanti limitazioni alle importazioni (**). Hitler non era – come disse a Schacht – contrario in linea di principio alla svalutazione (calcolata sul 40%, con un aumento tra il 5,4 e il 7,4% dei prezzi e un aggravio del costo della vita per il proletariato per un rincaro degli alimenti del 10%) e tuttavia era ben chiaro che una svalutazione rispetto alle altre monete avrebbe vanificato il vantaggio che un Reichsmark forte aveva nel pagamento dei debiti di guerra (***). Dunque, si doveva anzitutto sbarazzarsi del debito.

Era necessario quindi dichiarare una moratoria unilaterale sul debito, poiché se si voleva gestire seriamente la crisi valutaria, l’altra strada era l’abbandono del costosissimo progetto di riarmo unilaterale. Ciò fu detto chiaramente al ministro degli Esteri tedesco dall’ambasciatore americano William Dodd nel giugno 1934. Dopo di che Schacht tenne un discorso alla camera di commercio americana di Berlino, ampiamente riportato dai media, alzando deliberatamente la tensione. Ma di questo, parlerò un’altra volta.



(*) Il padronato contestava le spese per la politica sociale spingendo invece per favorire la “formazione di capitale”. I sindacati per contro rivendicavano la “forza d’acquisto di massa”, ossia la difesa dei salari per sostenere i consumi, pur riconoscendo l’esigenza di “creare di capitale”. Insomma il cliché delle crisi capitalistiche. Hjalmar Schacht, governatore della Banca centrale, impose “una drastica riduzione delle spese pubbliche, l’alleggerimento fiscale e l’accantonamento di una somma destinata all’estinzione dei debiti statali”, costringendo il ministro delle Finanze Hilferding (autore del celebre Il capitale finanziario) alle dimissioni. Anche in questo, nulla di nuovo sotto il sole.

(**) La Gran Bretagna costituiva il maggior mercato di esportazione per la Germania. La maggior parte delle merci tedesche venivano vendute all’estero attraverso cartelli; i macchinari speciali e le materie prime delle quali la Germania deteneva il monopolio rappresentavano quasi un terzo delle esportazioni (110).

(***) Il 20 agosto scorso, un tizio a commento di un mio post ebbe a scrivere: "chi ti ha detto che pagare un debito con una moneta svalutata non conviene? conviene eccome!". Ce n'è di gente con strane idee.