Parliamoci
chiaro, di loro non frega realmente niente a nessuno. Né che siano degli
schiavi, né del fatto che siano trattati peggio di altri schiavi. Del resto
sono quasi tutti così detti extracomunitari, e perciò se non gli va, ritornino
da dove sono venuti.
Protestano
contro le condizioni nelle quali sono sfruttati dai loro padroni, per essere stati
licenziati in cinquanta avvalendosi di un diritto costituzionalmente garantito,
lo sciopero, quindi per non aver accettato ancora una volta di piegare la testa.
Succede nella civilissima Emilia.
Non
si tratta solo di chiedere il rispetto dei diritti dei lavoratori e di quello
di sciopero, c’è da chiedersi anzitutto che cosa sono i diritti umani e se essi
siano rispettati in questo paese così come altrove. Non avere un lavoro, ho averne uno precario e per un salario da fame, non avere diritto di lottare contro le condizioni di
lavoro imposte dai padroni, ha a che fare con il rispetto dei diritti umani,
della persona?
Avere
a che fare con un padrone riguarda i diritti umani? La superiorità del nostro
sistema sociale, rispetto a quelli del passato, sta proprio in questo: il
padrone paga il lavoro al suo prezzo legale, e il lavoratore è libero di
accettare oppure no. Perciò, dal punto di vista formale e legale il sistema economico
e sociale basato sul lavoro salariato non è un sistema di schiavitù.
A
prescindere se l’operaio è pagato meglio o è pagato peggio, che l'operaio
salariato abbia il permesso di lavorare per la propria vita, cioè di vivere,
solo in quanto lavora, per un certo tempo, gratuitamente, per il capitalista (e
quindi anche per quelli che insieme col capitalista consumano il plusvalore) è
un discorso che i borghesi benpensanti – e anche quelli che pure pensano
criticamente questa società – non vogliono prendere nemmeno in considerazione.
Del
resto, tanto per cominciare, dove andremmo a finire se dovessimo abolire la
proprietà privata? Se non avessimo questi liberi schiavi che smistano le merci,
mungono le vacche e puliscono le stalle, raccolgono i frutti dagli alberi e
nelle serre, che imballano, puliscono e fanno tutti i lavori che a noi schifano
in cambio di una manciata di euro, settori importanti della nostra economica andrebbero in crisi.
Noi
siamo perfettamente allineati agli interessi dei nostri padroni, posti su un
gradino di relativo privilegio, seppur sempre più scricchiolante. Per non
scivolare più in basso ci dobbiamo dimostrare comprensivi e sensibili verso le
esigenze di “competitività”.
Perciò
non possiamo cambiare troppo le cose, permettere che questi musi colorati
interrompano il lavoro per scioperare, semmai possiamo prendere in
considerazione dei graduali “miglioramenti” da introdurre con l’accordo dei
sindacati e dopo un lungo dibattito mediatico che soppesi i pro e i contro da
ogni punto di vista. Tranne il loro, ovviamente.
Ed è
per questi sani motivi che questa società si prende criticamente in
considerazione solo da un punto di vista laterale. Viceversa, se la critica fosse
diretta e riguardasse anzitutto i caratteri profondi e le contraddizioni alla
base degli antagonismi sociali nella loro realtà effettiva, cioè capitalistica,
si creerebbe una situazione pericolosa e i primi a rimetterci saremmo noi.
Ben
sappiamo come si sia sviluppata una classe operaia che per educazione,
tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze del modo
di produzione capitalistico. E in ciò riceviamo un grande aiuto dai media e un ineguagliabile
esempio dalla politica e dalla religione, ossia da tutti coloro che non hanno
alcun interesse di mettere gli schiavi nelle condizioni di venire a capo delle
ragioni della loro schiavitù, poiché essi diventerebbero dei ribelli
consapevoli non solo dei motivi immediati della loro situazione personale, ma
soprattutto di quelli più generali e originali che (ri)producono le condizioni stesse
del loro sfruttamento.
Perciò la nostra critica deve essere cauta e va indirizzata verso aspetti secondari, non deve essere radicale e anzi restare mediaticamente superficiale, naturalmente senza rinunciare al nostro doveroso sdegno da esibire, per iscritto o a voce, contro le nequizie dei partiti e del governo.
Perciò la nostra critica deve essere cauta e va indirizzata verso aspetti secondari, non deve essere radicale e anzi restare mediaticamente superficiale, naturalmente senza rinunciare al nostro doveroso sdegno da esibire, per iscritto o a voce, contro le nequizie dei partiti e del governo.
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