Questa mattina, mentre facevo colazione con pesche
aliene, ascoltavo la lettura del vangelo. Non so dire da dove la trasmettessero
la santa messa perché guardavo le Alpi tristi avvolte da nuvolaglia grigia e immobile.
A me piacciono le favole, quella di stamane raccontava di un uomo che per magia
sfama migliaia di persone al suo seguito partendo da due pesci e qualche
panino.
Con la medesima curiosità con la quale mi pongo all’ascolto
di questo genere di letteratura fantastica, mi accosto anche agli editoriali di
Eugenio Scalfari. In quello odierno egli scrive che la “narrazione serve a guardare il passato e
a raccontarlo con gli occhi di oggi ricavandone un’esperienza da utilizzare per
agire sul presente e costruire il futuro”.
Nelle vesti di filosofo ci dona sempre delle
inedite perle di sapienza e saggezza, come quando mio nonno mi diceva che
l’esperienza non serve solo ad allacciarsi le scarpe. Dice Scalfari che “Narrare il passato è dunque un elemento
indispensabile per dare un senso alla vita. Chi rinuncia a raccontare vive
schiacciato sul presente e il senso, cioè il significato e la nobiltà della
propria esistenza, fugge via”.
Ed è perciò che Scalfari ogni domenica
non manca di raccontarci le sue favole sul mondo, dandosi troppa cura di ciò
che egli stesso crede degli uomini e però non dandosene nessuna per ciò che di
essi ignora. Perciò gli viene tanto facile essere sincero con le proprie
illusioni fino al punto di ritenere che il presente sia paragonabile al passato
secondo le idee che egli si è fatto di se stesso e della nostra epoca (*).
Poi Scalfari pontifica: “Nei tempi oscuri che stiamo attraversando
sono molti quelli che hanno rinunciato alla narrazione oppure che l’hanno
trasformata in una favola senza alcun riscontro con la realtà. Le narrazioni
sono ovviamente soggettive poiché ciascuno di noi guarda il passato con i
propri occhi, ma il riscontro con i fatti avvenuti è doveroso; poi ci sarà il
confronto sulle differenze. Le favole, invece, sono lo strumento preferito dei
demagoghi e servono solo per accalappiare gli allocchi”.
Appunto. Quella di Scalfari, fin dalla
premessa, è una posizione idealistica: nella sua ricostruzione abituale dei
fatti economici e sociali, la base reale della società non è minimamente
disturbata, nessuna delle reali contraddizioni che stanno a fondamento della
crisi storica del modo di produzione capitalistico viene toccata.
Nel descrivere le contraddizioni nelle
quali si dibatte il capitalismo e la società che gli corrisponde, Scalfari si
limita a prendere atto degli effetti e degli influssi più manifesti delle
dinamiche di quella che egli assieme a tanti altri chiama globalizzazione.
Nemmeno lo sfiora – o almeno non può darlo a vedere – il sospetto che
l’erompere in tutti gli ambiti dell’articolazione sociale del conflitto esistente fra le forze produttive della
società e i rapporti di produzione costituisca una contraddizione di carattere oggettivo – sia pure e per
ovvie ragioni in contrasto con la narrazione borghese – alla base della crisi
generale del modo di produzione capitalistico.
La quale crisi generale, occorre precisarlo, non
significa semplicemente crisi del
processo di accumulazione, caduta del saggio medio del profitto, sovrapproduzione
di capitale e di capacità produttiva. Il capitale è un rapporto sociale e non
semplicemente una cosa. La crisi mostra, al livello di sviluppo attuale delle
forze produttive, ossia a fronte di una capacità sociale inedita e traboccante
di produrre ricchezza, quanto le condizioni sociali della sua distribuzione
siano soggette a dei rapporti sociali ristretti e miserabili. Quanti siano, a
fronte delle possibilità e delle potenzialità, gli esclusi, e come ciò ormai
venga a toccare inevitabilmente le sorti di quelle classi che credevano
superate le contraddizioni del passato e vivevano il presente come un tempo
assoluto dove sarebbe stato possibile solo migliorare le proprie condizioni di
vita, di lavoro e di consumo. Secondo, appunto, la narrazione degli ideologi borghesi.
Scalfari anche sull’evoluzione degli
uomini e dalle idee che essi si fanno del processo storico in atto, non ha da
dire molto, se non appunto che è il racconto e il confronto con il
passato che deve conformare e confermare il nostro agire sul presente, con ciò
suscitando una coscienza sul fatto storico nella sua interpretazione narrativa,
al punto che la storia successiva diventa lo scopo di quella precedente.
E le voci della
narrazione alle quali dovremmo dare ascolto sono quelle del governatore della
banca d’Italia e del presidente della repubblica (e daglielo ‘sto cazzo di
laticlavio a Scalfari). E poi c’è un “terzo protagonista”, nientemeno che
l’attuale presidente del consiglio, al quale spetterà, “allo scadere dei primi cento giorni del
suo governo, di
trarre indicazioni politiche dalla duplice narrazione”. Altro che
pippe, qui si va sul solido, sulle narrazioni economiche e sociali irresistibili.
Scalfari
scrive a proposito dell’intervento di Visco:
“La
forza lavoro ha quasi interamente disertato dall'agricoltura e si è riversata
nei servizi che però sono quasi tutti di manovalanza o di professionalità
strettamente corporative. Il capitalismo ha una dimensione d’incroci azionari
incestuosi che designano un sistema di tipo oligopolistico. Le innovazioni
difettano, la finanza prende il posto della manifattura, langue la ricerca
aumentano le rendite e le diseguaglianze, il tasso di evasione e il mercato
sommerso galoppano, la classe operaia si frantuma in centinaia di contratti”.
E queste sarebbero le dinamiche del
capitalismo “dalla seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso”? Sono
rimasti un po’ indietro con le letture. L’urbanesimo e la proletarizzazione
datano da almeno alcuni secoli e l’accelerazione di tale fenomeno in Italia è
avvenuta tra gli anni 1950 e 1960, con le deportazioni di massa verso il
triangolo industriale. Quanto alla “dimensione d’incroci azionari incestuosi
che designano un sistema di tipo oligopolistico” bastava leggere non dico
Lenin, frutto proibito e destabilizzante, ma almeno Hobson, non solo quello di Imperialism (1902), ma già quello di The evolution of modern capitalism (dove
esamina le “economie di potere produttivo” e le “economie di potere
competitivo”), e dunque senza chiamare in causa quel birichino di Marx, il
quale aveva già ben descritto tutto e anche di più.
Da notare
quanto scrive Scalfari riferendo le parole di Visco: “la forza lavoro ha quasi interamente
disertato dall'agricoltura, la classe operaia si frantuma in centinaia di
contratti”, come se il soggetto dell’azione, forza lavoro e classe operaia,
agisse in proprio, per autonoma determinazione e non secondo le circostanze
create dallo sviluppo capitalistico e dalle sue contraddizioni.
Ma questo post è già diventato troppo
lungo e per oggi non voglio dedicare altro tempo alle solite sciocchezze scalfariane.
(*) “Come non
si può giudicare un uomo dall'idea che egli ha di se stesso, così non si può
giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se
stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della
vita materiale, con il conflitto
esistente fra le forze produttive della società e i rapporti di produzione”
(Karl Marx, Prefazione a Per la
critica dell’economia politica).
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