Ventisette anni or sono l’Italia segnava un sorpasso
storico che la portava ad essere la quinta potenza economica mondiale. Oggi è
da dubitare che possa annoverarsi tra le prime dieci. Allora si stava
profilando l’apice produttivo con i cosiddetti distretti industriali, una
miriade di piccole e medie imprese attive soprattutto nei settori produttivi
più tradizionali, dove massimo è il valore aggiunto, cioè lo sfruttamento del
lavoro.
E, difatti, la competitività fu ottenuta tagliando e
poi abrogando la scala mobile, riducendo a colpi d’inflazione e di contratti al
ribasso il valore della forza-lavoro (i famigerati tagli al “costo del lavoro”).
La coesione sociale fu rafforzata allargando la spesa pubblica, facendo
esplodere il debito pubblico, in larga misura per favorire un welfare
parassitario e clientelare. Quindi favorendo una massiccia evasione fiscale da
parte di quel mondo delle partite Iva a cui prestavano tanta attenzione sia
Craxi e anche D’Alema, tanto per citare un defunto e un fantasma.
Il capitalismo privato italiano poteva in tal modo fare
grandi profitti, investendo poco o nulla nell’innovazione e nella ricerca, mantenendo
una struttura di tipo familiare, con scarsa capitalizzazione e poco
azionariato. Emblematico, in tal senso, il caso Fiat. Il resto, gradualmente,
lo faceva l’incipiente “globalizzazione”, rendendo la chimica e la siderurgia
fuori mercato. Poi anche le altre produzioni, man mano, persero competitività nel momento in cui i capitali battono le strade internazionali del plusvalore.
Dal lato dell’industria pubblica e delle
società a partecipazione statale, il perverso intreccio tra economia, affari e
partitocrazia, e la scelta di puntare verso un modello di liberismo puro, di
“capitalismo selvaggio”, portava a un vasto programma di privatizzazioni. Naturalmente tutto ciò avveniva inizialmente senza un piano, senza una
ben definita selezione
dei beni oggetto di privatizzazione e senza che vi fosse alcun
tipo di dibattito politico o sindacale sul processo di privatizzazione.
Come solito, il popolo bue fu distratto da
dibattiti di ben altro momento. Al massimo si dava per scontato che le
partecipazioni statali fossero solo dei grandi carrozzoni in perdita e che la
loro liquidazione o vendita fosse necessaria per risanare le finanze pubbliche,
per rientrare nei famigerati parametri di Maastricht. Ovviamente la stampa
padronale aveva tutto l’interesse di far passare questo asettico e neutrale
punto di vista.
Con le privatizzazioni degli anni Ottanta
furono favoriti i grandi gruppi
industriali privati con il risultato di condizionare l’economia del paese,
sottoponendola ancor più al dominio delle grandi famiglie (vedi il caso
Alfa-Romeo), relegando i piccoli azionisti (il mitico “azionariato
popolare” o “diffuso”) al
ruolo di spettatori ai margini del processo di privatizzazione. Basti citare il
caso della grande azienda alimentare SME, la cui vendita non era dettata da una
crisi economico-finanziaria, quanto piuttosto dalla volontà di costruire un
grande polo alimentare nazionale a caratterizzazione privatistica.
Nell’estate del 1992, il governo presieduto
da Giuliano Amato, redigendo un piano di politica economica e sociale (concordato con il gotha finanziario atlantico) nel quale
furono indicati gli strumenti volti a modificare la struttura del nostro
sistema economico e sociale, decretava ufficialmente il via a un nuovo e più
massiccio processo di privatizzazione delle imprese pubbliche. Con ciò s’intendeva
– almeno a parole – far fronte ai processi di globalizzazione
dell’economia e ai relativi fenomeni della concorrenza, con la cessione ai
privati di interi settori di attività, ritenuti inefficienti.
In realtà, la necessità di un
ridimensionamento dell’intervento dello Stato nel settore economico, di
miglioramento della struttura organizzativa, economica e finanziaria delle
imprese pubbliche, si è tradotta in una sostanziale liquidazione del patrimonio
pubblico, nel trasferimento della ricchezza della nazione in poche mani private,
come dimostrano i casi Telecom, Nuovo Pignone, dei servizi e dei beni pubblici
e tanti altri. Oggi, seguendo questa strada demenziale, non ci resta che
portare gli ultimi pezzi d’argenteria al monte dei pegni.
Con ciò è dimostrato che a tentare di trasformare una zuppa di pesce in un acquario, si resta digiuni.
Il risultato è un debito pubblico enorme, il calo
progressivo del Pil, una decrescita produttiva vistosa accompagnata
inevitabilmente da un calo drammatico dei consumi e di un corrispondente
aumento della povertà diffusa, eccetera. Ad aggravare, se possibile, le cose,
una classe politica e dirigente di scoperti analfabeti e imbecilli sottopelle, di leader boriosi, di puttanieri e lenoni, grandi criminali e semplici grassatori, ossia nel complesso una classe politica che l’on.
Madia ha definito pochi giorni or sono come un’associazione a delinquere.
Sull’esito di questa situazione non credo
possano esserci illusioni. Ai poveracci non resta che risolversi per un verso o
per l’altro del dubbio amletico. Per il momento continuiamo a sopportare e a
sognare.
Quello che apprezzo sempre con molto stupore e' questa sua capacita' di chiarezza e di sintesi. In una paginetta lei e' riuscita a riassumere trent'anni della nostra storia politica ed economica. Brava, anzi bravissima!!
RispondiEliminaAnnick
grazie!
EliminaSugli italiani nessun amletico dubbio, cara Olympe: ladri e fessi!
RispondiEliminaLadri perché rubando si assicurano i propri piaceri sottraendo risorse agli altri e costringendoli a soffrire. Con il cinismo di chi festeggia l’ennesima rapina avendo il morto in casa.
Fessi perché come tutti i fessi non conoscono il piacere dell'amore (condivisione della gioia) e non sanno cosa si perdono nel rilassarsi e godersi la vita, la semplicità di un bambino, di un gatto, di un cane, di un tramonto in solitudine, della natura, del viso sereno e rilassato del vicino, la semplicità del non avere fretta, di non competere, di non gareggiare ...
Come quei ricchi che pur essendo ricchi devono lavorare sempre di più per essere sempre più ricchi e poi non hanno nemmeno il tempo di godersi le ricchezze rubate (infatti se li godono mogli figli e amanti)
Ad “un giorno da pecora” ( raidio2 - > minuto 19) Briatore ringrazia Il sindaco di Napoli De Magistris per aver finalmente visto una città cambiata in meglio. E’ la descrizione di un poveraccio che arrivato a Napoli via mare sul suo yacht per accompagnare la moglie che doveva registrare “made in sud” in tv, vede il golfo di Napoli nel suo naturale splendore ignorando la morte, la sporcizia, la miseria, la follia di miliardi di opere d’arte abbandonate all’incuria e diventate alberghi a 5 stelle per piccioni, etc. Roba da prenderli a paccheri (di Gragnano)
La metafora della vita: oligarchie che governano il mondo imponendo alla plebe il loro “punto di vista”. Ciao
Gianni, io non ti capisco. Sul serio, non ti capisco.
EliminaI ladri sono gli evasori ovvero politici commercianti liberi professionisti imprenditori di vario tipo, giornalisti e cortigiani a tempo perso che generalmente, evadendo le tasse e facendole pagare unicamente a lavoratori dipendenti e pensionati, si sono arricchiti oltre misura negli ultimi 30 anni.
EliminaI fessi sono quelli che non vanno a prenderli a bastonate ovvero il popolo, la plebe, la ciurmaglia (la forza lavoro) che si lascia incantare da ogni sorta di imbonitore in tv e preferisce togliersi la vita pur di non disturbare.
Lo stesso popolo che invece si sa auto organizzare benissimo quando si tratta di fare il tifo per la propria squadra del cuore, accedere un cero alla Madonna e magari fare la "ola" al papa o al politico di turno.
Il capitalismo morente sta per spazzare via qualche miliardo di umanoidi a cui ha già rubato il futuro oltre che il presente.
Miliardi di umanoidi capaci solo di qualche rivolta ogni tanto e che protestano civilmente facendo girotondi mano nella mano.
Non siamo mai stati Popolo.
RispondiEliminaSiamo passati da plebe direttamenta a massa.