Ha destato un certo scalpore un documento di 16 pagine
redatto dagli economisti (la crema degli ideologi al servizio del capitale) del
gigante finanziario americano JP
Morgan, i quali senza troppe circonlocuzioni dicono quello che la
borghesia ha sempre pensato, ossia che la crisi non è dovuta solo a
“limiti intrinseci di natura prettamente economica: debito
pubblico troppo alto, problemi legati ai mutui e alle banche, tassi di cambio
reali non convergenti, e varie rigidità strutturali. Col tempo – dicono questi sinceri funzionari del
capitale – è divenuto chiaro che esistono anche limiti di natura politica”.
E quali sarebbero questi limiti
politici?
“I sistemi politici dei paesi del sud, e in particolare le
loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una
serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore
integrazione dell'area europea.”
Nel caso non fosse
ancora chiaro, gli specialisti della JP Morgan precisano:
“I sistemi politici della periferia meridionale sono stati
instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da
quell'esperienza. Le costituzioni mostrano una forte influenza delle idee
socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti
di sinistra dopo la sconfitta del fascismo”.
Non vedo di che stupirsi per
queste parole, a parte il fatto che anche certi paesi europei più
settentrionali hanno conosciuto sistemi che proprio non oserei indicare come
esempi di democrazia. Che cosa c’è di strano dunque, non è forse vero che tali
costituzioni contengono contraddizioni stridenti con quelle che sono i principi
salienti, non solo della concezione ultraliberista d’impronta americana, bensì del
modo di produzione capitalistico comunque inteso e variamente interpretato
socialmente?
Ripeto, almeno nella loro
formulazione letterale, poiché nei fatti quelle costituzioni sono carta
straccia. Prendiamo il primo comma dell’articolo 36 della costituzione
nostrana, “la più bella del mondo”:
Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione
proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente
ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.
Se fosse effettivamente applicato questo dettato
costituzionale nella realtà dei rapporti tra capitale e lavoro, verrebbe meno
il pilastro su cui regge il capitalismo. Ed infatti tale principio non trova e
non può trovare applicazione sostanziale poiché lo scopo fondamentale della
produzione capitalistica è quello di produrre plusvalore.
Pertanto, in un sistema di produzione capitalistico,
richiamare il diritto dell’operaio ad avere una retribuzione
proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro, è puro non senso, demagogia. Il lavoro dell’operaio non è altro che un mezzo per valorizzare il
capitale. Se la retribuzione dell’operaio fosse realmente
proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro, cesserebbe il processo di valorizzazione del
capitale e perciò stesso lo scopo del capitalista nella produzione stessa.
E poi, se anche tale "proporzionalità" fosse da intendersi in senso lato, secondo quale altro rapporto oggettivo verrebbe stabilita la retribuzione secondo quantità e qualità?
Succede nelle costituzioni borghesi lo stesso
travisamento che troviamo nelle encicliche pretesche, laddove è detto che
all’operaio deve essere corrisposta per il suo lavoro “la giusta mercede”
(Rerum novarum). Ma per il
capitalista il salario, ossia il prezzo pagato per utilizzare la forza-lavoro, è
giustissimo, anzi, fin troppo elevato!
Lo scopo animatore del capitale, la
creazione di plusvalore, è il pungolo e il contenuto assoluto dell’operare del
capitalista. Perciò il suo obiettivo è necessariamente quello di pagare il prezzo d’acquisto della forza-lavoro più basso
possibile, e, del pari, di intensificare il lavoro e di allungare quanto più
possibile la giornata lavorativa, alias la famosa produttività, ossia il saggio
di sfruttamento.
Laddove questa competitività media sociale del lavoro il capitale non riesca ad ottenerla con i normali mezzi della costrizione legale, provvede con altri mezzi e con altri artifici, per esempio con la svalutazione
della moneta, ossia con la svalutazione del prezzo delle merci, quindi anzitutto
dei salari.
In tal senso, il capitalista, come
personificazione del capitale, appare come sottomesso alla schiavitù del
rapporto capitalistico, in ciò non meno di quanto avviene per l’operaio (con
conseguenze pratiche assai diverse, ovviamente).
Pertanto, per riferirci solo a questo essenziale
esempio, che cosa affermano di tanto strano, dal loro punto di vista e cioè
dalla prospettiva dell’interesse dei capitalisti, questi “esperti”? Non è forse
chiaro che la democrazia borghese quale comunemente fraintesa è solo un
abbellimento della contesa tra capitale e lavoro? E allora, perché menare
scandalo e stupore?
In fin dei conti questa falange della borghesia
non chiede altro ai governi dei “paesi del sud” di rimettersi alle condizioni
oggettive e naturali nelle quali deve procedere il capitalismo. Essi sanno bene
che è lo Stato con la fiscalità generale a sanare in parte le disuguaglianze
sociali più stridenti e ad assicurare in vari modi la sostenibilità del sistema
sociale dal punto di vista di una democrazia. È quello che chiamiamo welfare.
E tuttavia, in un sistema capitalistico, in una
democrazia borghese, questo tipo d’intervento statale, questa perequazione
parziale della ricchezza a favore delle classi sociali più “svantaggiate”, nel
tempo mostra la reale natura delle contraddizioni di questo sistema (non è
necessario elencarle per l’ennesima volta). Ecco perché gli “esperti” prendono
di mira le “tutele
costituzionali dei diritti dei lavoratori, le tecniche di costruzione del consenso
fondate sul clientelismo, e la licenza di protestare se vengono proposte
sgradite modifiche dello status quo”.
cito dal post:
RispondiElimina"In fin dei conti questa falange della borghesia non chiede altro ai governi dei “paesi del sud” di rimettersi alle condizioni oggettive e naturali nelle quali deve procedere il capitalismo."
"Ecco perché gli “esperti” prendono di mira le “tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori, le tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo, e la licenza di protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo”."
tutte questo non basta a spiegare il comportamento attuale del capitalismo. il modo di produzione capitalistico è entrato forse nella sua crisi definitiva, per cui invoca il fascismo. tutto come da copione. la miglior analisi sull'attuale crisi del capitale (decisiva?) è contenuta in un libro tedesco uscito l'anno scorso: "Die große Entwertung", di E. Lohoff e N. Trenkle, Unrast Verlag (www.unrast-verlag.de). non ho notizia di altrettanto precisa analisi e critica, nonostante in tutto il mondo si parli e sparli di "crisi del buoncapitalismo produttivo per colpa del cattivo capitalismo finanziario" ( e con ciò siamo serviti!). che i figli del POTERE che ci sta riducendo in mutande, ci indichino la via per uscirne?
franco valdes piccolo proprietario di provincia
Caro Franco, riporti in traduzione qualche stralcio significativo o un sunto della tesi sostenuta nel libro: ha eccitato la mia curiosità. Da buon borghese, tronfio e compunto, benché sia facile all’entusiasmo, io ho in sospetto il principio di «crisi definitiva» del capitale; piú interessante è l’esigenza di fascismo in questa fase, sennonché avremmo da intenderci sul senso: un generico autoritarismo con limitazione dei diritti, o un fascismo esemplato storicamente, con forte vocazione allo Stamokap e allo Stato sociale?
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