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Il modo di produzione capitalistico ha manifestato chiaro e da sempre la natura del conflitto, la sua necessità di impoverire il lavoro per sopravvivere, per garantirsi una base decente di profitto. Svalutare il lavoro per tutelare il profitto è il leitmotiv che può essere colto nella sostanza di ogni discorso dei portavoce padronali.
Basterebbe questo, sul piano politico, per dire che la democrazia su queste basi economiche è un bluff. Comanda il capitale, le propaggini politiche obbediscono e le chiacchiere stanno a zero. Questa è la condizione che qualsiasi salariato sperimenta ogni giorno perché costretto dalla necessità a rinchiudersi nella prigione senza sbarre per almeno otto ore. Ed è lì che egli fa i conti con il tempo della propria vita che fugge e che nessuna lusinga pensionistica, peraltro sempre più incerta, potrà restituirgli da vecchio.
Da un secolo la giornata lavorativa è inchiodata a questa misura giornaliera media di sfruttamento nonostante gli enormi e strepitosi progressi della produzione sotto ogni riguardo e nonostante la massiccia disoccupazione e sottoccupazione specie nelle fasce più giovani del proletariato. Il vecchio slogan, lavorare tutti, lavorare meno, aveva indubbiamente una sua ragione. Irriderlo è servito a nulla, la realtà si prende la sua rivincita, sempre. Naturalmente non sarà sufficiente lavorare meno, ma cambiare il lavoro stesso e perciò con esso la natura dei rapporti sociali. Abbiamo oggi tutti i mezzi congrui per farlo. Perciò ogni idea in questo senso viene percepitata come pericolosissima, ridicolizzata, combattuta.
Il modo di produzione capitalistico ha dimostrato a dismisura che per garantire la sua riproduzione allargata è costretto alla finanziarizzazione spinta a livelli un tempo inimmaginabili. Una contraddizione quest’ultima indispensabile, ma ne minaccia la sopravvivenza e quella stabilità sociale tanto cara alle palinodie liberali. Queste cose e altre ancora, segnano il limite storico di questo sistema economico. Il migliore, dicono, a fronte di tutti gli altri.
Sarebbe un po’ come dire che la storia deve fermarsi qua, non deve andare oltre a causa del fallimentare tentativo di cambiamento sperimentato in alcune realtà e peraltro in determinate condizioni storiche nel secolo scorso. Le nuove generazioni, invece di interrogarsi su che cosa non ha funzionato e perché, semplicemente rinunciano a ogni tentativo di immaginare le traiettorie di uscita da questa trappola in cui ci troviamo coinvolti nostro malgrado.
Vogliono riformare questo sistema, a uso dei padroni, non cambiarlo. Poi, dopo un po’ i salariati si scoraggiano e molti, preso atto con cinismo della situazione, diventano semplicemente dei reazionari. Evidentemente che l’idea di cambiamento possa trasformarsi nel socialismo reale di memoria novecentesca li scoraggia in partenza. Non è casuale questo fatto, e non si può dire che la regia non sappia fare il proprio mestiere.
Non ho ancora letto il post.
RispondiEliminaCommento per dire, che aspetto la lettura quotidiana di questo blog, con una certa trepidazione, e quando mi viene a mancare (cioè, quando lei non posta) mi preoccupo, avendo lei accennato qualche volta a problemi di salute.
Buona giornata.
Lavorate, lavorate proletari per far più grandi la fortuna sociale e le vostre miserie individuali, lavorate, lavorate affinché, divenendo più poveri, abbiate ancor più ragioni per lavorare ed essere miserabili.
RispondiEliminaQuesta è la legge inesorabile della produzione capitalista».
[P.Lafargue - in Diritto all’ozio, ed.Feltrinelli]
Luigi
grazie. ieri non ho postato perché domenica ho avuto un lutto in famiglia.
RispondiEliminaCONDOGLIANZE!
RispondiEliminagrazie
RispondiEliminaCONDOGLIANZE!
RispondiEliminaLuigi.
le siamo vicino.
RispondiEliminagrazie a tutti
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