martedì 25 ottobre 2011

Un primo passo, lavorare meno


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Il modo di produzione capitalistico ha manifestato chiaro e da sempre la natura del conflitto, la sua necessità di impoverire il lavoro per sopravvivere, per garantirsi una base decente di profitto. Svalutare il lavoro per tutelare il profitto è il leitmotiv che può essere colto nella sostanza di ogni discorso dei portavoce padronali.

Basterebbe questo, sul piano politico, per dire che la democrazia su queste basi economiche è un bluff. Comanda il capitale, le propaggini politiche obbediscono e le chiacchiere stanno a zero. Questa è la condizione che qualsiasi salariato sperimenta ogni giorno perché costretto dalla necessità a rinchiudersi nella prigione senza sbarre per almeno otto ore. Ed è lì che egli fa i conti con il tempo della propria vita che fugge e che nessuna lusinga pensionistica, peraltro sempre più incerta, potrà restituirgli da vecchio.

Da un secolo la giornata lavorativa è inchiodata a questa misura giornaliera media di sfruttamento nonostante gli enormi e strepitosi progressi della produzione sotto ogni riguardo e nonostante la massiccia disoccupazione e sottoccupazione specie nelle fasce più giovani del proletariato. Il vecchio slogan, lavorare tutti, lavorare meno, aveva indubbiamente una sua ragione. Irriderlo è servito a nulla, la realtà si prende la sua rivincita, sempre. Naturalmente non sarà sufficiente lavorare meno, ma cambiare il lavoro stesso e perciò con esso la natura dei rapporti sociali. Abbiamo oggi tutti i mezzi congrui per farlo. Perciò ogni idea in questo senso viene percepitata come pericolosissima, ridicolizzata, combattuta.

Il modo di produzione capitalistico ha dimostrato a dismisura che per garantire la sua riproduzione allargata è costretto alla finanziarizzazione spinta a livelli un tempo inimmaginabili. Una contraddizione quest’ultima indispensabile, ma ne minaccia la sopravvivenza e quella stabilità sociale tanto cara alle palinodie liberali. Queste cose e altre ancora, segnano il limite storico di questo sistema economico. Il migliore, dicono, a fronte di tutti gli altri.

Sarebbe un po’ come dire che la storia deve fermarsi qua, non deve andare oltre a causa del fallimentare tentativo di cambiamento sperimentato in alcune realtà e peraltro in determinate condizioni storiche nel secolo scorso. Le nuove generazioni, invece di interrogarsi su che cosa non ha funzionato e perché, semplicemente rinunciano a ogni tentativo di immaginare le traiettorie di uscita da questa trappola in cui ci troviamo coinvolti nostro malgrado.

Vogliono riformare questo sistema, a uso dei padroni, non cambiarlo. Poi, dopo un po’ i salariati si scoraggiano e molti, preso atto con cinismo della situazione, diventano semplicemente dei reazionari. Evidentemente che l’idea di cambiamento possa trasformarsi nel socialismo reale di memoria novecentesca li scoraggia in partenza. Non è casuale questo fatto, e non si può dire che la regia non sappia fare il proprio mestiere.  

8 commenti:

  1. Non ho ancora letto il post.
    Commento per dire, che aspetto la lettura quotidiana di questo blog, con una certa trepidazione, e quando mi viene a mancare (cioè, quando lei non posta) mi preoccupo, avendo lei accennato qualche volta a problemi di salute.
    Buona giornata.

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  2. Lavorate, lavorate proletari per far più grandi la fortuna sociale e le vostre miserie individuali, lavorate, lavorate affinché, divenendo più poveri, abbiate ancor più ragioni per lavorare ed essere miserabili.
    Questa è la legge inesorabile della produzione capitalista».
    [P.Lafargue - in Diritto all’ozio, ed.Feltrinelli]

    Luigi

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  3. grazie. ieri non ho postato perché domenica ho avuto un lutto in famiglia.

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