«Un uomo che non ha compreso le condizioni presenti della società
può ancora meno comprendere il movimento che tende a rovesciarle».
Valter Veltroni, nel suo intervento di ieri al Lingotto, ha detto tra l’altro:
"Non ci potrà mai essere una forza più radicale della nostra perché più radicale del nostro riformismo non ci sarà nulla e nessuno".Questi incantatori di lucertole sono decenni che prendono in giro le coscienze ingenue con la storiella che questo sistema si può riformare, migliorare. La crisi generale, storica, del processo di valorizzazione del capitale potrà fare ancora danni per qualche decennio, ma le contraddizioni che attanagliano questo sistema non possono essere riformate né parzialmente e tantomeno radicalmente. Perfino gli economisti borghesi più lucidi e meno pavidi prendono atto di questo stato di cose. L’economista Joseph Stiglitz, nel suo ultimo lavoro, Bancarotta, l'economia globale in caduta libera, edito da Einaudi, a pagina 316 scrive che il 15 settembre 2008, cioè il giorno del crollo della Lehman Brothers, è stato per il capitalismo come il crollo del Muro di Berlino per il comunismo (sedicente).
Ma facciamo un po’ di storia di questi cultori del riformismo “più radicale”. Il PCI un progetto alternativo di società non l’aveva più da molto tempo e del resto la via elettorale e parlamentare non poteva essere la strada per un radicale cambiamento dei rapporti di classe, anche per motivi di collocazione internazionale (Berlinguer, negli anni Settanta, a tale riguardo, scrisse alcuni articoli su Rinascita prendendo a riferimento il caso cileno e i timori di un’involuzione autoritaria del sistema). Negli anni Settanta il PCI aspirava al “compromesso storico”, cioè a creare un’alleanza di governo tra cattolici e laici di sinistra (qualunque cosa voglia dire). Il massimo risultato che raggiunse tale progetto fu l’appoggio esterno del PCI al governo Andreotti. Lo stesso Andreotti, a tale riguardo, liquidò tale prospettiva politica con queste parole: "secondo me, il compromesso storico è il frutto di una profonda confusione ideologica, culturale, programmatica, storica. E, all’atto pratico, risulterebbe la somma di due guai: il clericalismo e il collettivismo comunista."
Respinto dalla DC il tentativo di compromesso, dopo ben otto anni, il PCI si decise alla “svolta”, sposando la strategia della “alternativa democratica”, ovvero orientandosi verso la formazione di coalizioni di governo che escludessero la DC. Non vi fu esito, anche perché fu Craxi l’interlocutore privilegiato della DC.
Dopo il fatidico 1989, il pensatoio del PCI, col congresso di Rimini del 1991, liquidò il partito e partorì il PDS, ovvero il partito democratico della sinistra, entrando in tal modo, anche formalmente, nel grande circo del riformismo liberale. Alle elezioni del 1992 il PDS ottenne il 16,1% dei voti, cioè il 10% in meno rispetto all’ultimo PCI. Al successivo referendum per l’adozione del sistema elettorale maggioritario, il PDS fu per il Sì, che prevalse. Alle elezioni politiche del 1994 si coalizzò con tutti i partitini del variegato trasformismo borghese. Vinse la destra, con un partito nuovo di zecca capeggiato da un affarista lombardo proprietario di metà del monopolio televisivo e con l’appoggio della Lega (definita da D’Alema una “costola della sinistra”).
Dopo il famoso “ribaltone” della Lega, nel 1996, il PDS assuse il governo con il cattolico Romano Prodi [*] (a capo della coalizione dell’Ulivo e con Valter Veltroni vicepresidente del consiglio che riteneva di dettare la linea kennediana), ma i contrasti interni alla coalizione, la brama di potere personale e la difesa ad oltranza degli interessi più smaccati della borghesia compradora, portarono a ben tre governi nella legislatura, in perfetto stile democristiano.
Ad ogni buon conto, il PDS nel 1998 si ribattezza DS, cioè Democratici di sinistra, per coalizzarsi con altre forze parlamentari della sinistra, dai Comunisti unitari ai Cristiano sociali, ai Laburisti (!). Tutti uniti, a parole, per rendere questo paese più moderno, più democratico, più europeo e chissà cos’altro.
Il segretario dei DS, dal 1998 al 2001, è stato il carismatico leader Valter Veltroni, diplomato cine-operatore. Alle elezioni del 2001 i DS sono sconfitti dal tenebroso tycoon televisivo Berlusconi, che si prende la rivincita in alleanza con la Lega (quella della Padania, della secessione, del federalismo duro e puro, del federalismo centralista, del qualche cosa purché si tiri a campare). Per farla breve, nel 2007 i DS, non avendo più nulla a che fare, nemmeno nominalmente, con la “sinistra”, si trasformano in PD, cioè Partito democratico. Valter Veltroni, dopo aver manovrato per far cadere il secondo governo Prodi, aprendo così la strada a nuove elezioni, si propose come nuovo leader della coalizione elettorale che avrebbe dovuto battere Berlusconi. Com’è miseramente fallito il suo tentativo è ben noto.
E veniamo all’oggi, anzi al discorsetto di ieri. Come si ricorderà, Veltroni, il leader che aveva dichiarato
urbi et orbi di non essere «mai stato ideologicamente comunista», ma di aver aderito al «Pci come scelta morale», nel 2003, intervistato da una tv francese, spiegava che puntava alla rielezione a sindaco di Roma e poi, nel 2011, sperava di partire «a 56 anni e con mia moglie» per l' Africa
[qui]. Ed invece, nel gennaio 2011, i liberali di “sinistra” se lo ritrovano candidato segretario del partito e leader di coalizione in caso di elezioni. Al Lingotto, dopo aver reso doverosamente omaggio a Roosevelt e Luther King e all’immancabile nuova (?) frontiera kennedyana ha richiamato più volte la necessità di “uscire dal Novecento”. Giammai dal capitalismo, ma dal Novecento, sottolineando che "il successo dell'operazione Fiat-Chrysler è di importanza strategica per il futuro del paese". Ecco dove vorrebbe portarci Veltroni e il Pd, a braccetto con Marchionne e Bonanni, ad una nuova edizione del “compromesso storico” riveduta e corretta con dentro gli ex fascisti (peraltro riluttanti). Non capiscono, non possono capire, che ogni antagonismo sociale deriva, in ultima analisi, dalla contraddizione tra il carattere sociale della produzione e la forma privata della appropriazione del prodotto del lavoro. Ma sanno benissimo da che parte stare.
[*] Romano Prodi, è stato inviaschiato in tante faccende, come uomo e ministro di Andreotti e come presidente dell'IRI. Come presidente della Commissione europea (1999-2004) è stato referente delle multinazionali (vedi alla voce:
TransAtlantic business dialogue, anche
qui e
qui ).