venerdì 7 gennaio 2011

La banana di Marchionne



La prima delle tre leggi della dialettica, scoperte da Hegel (Scienza della Logica) e rimesse “con i piedi per terra” da Marx ed Engels, riguarda la conversione della quantità in qualità e viceversa. Le leggi dialettiche sono leggi reali dell’evoluzione della natura, della società e del pensiero e quindi sono valide anche per la ricerca scientifica teorica.
Il modo in cui opera la prima legge della dialettica è diventato patrimonio della conoscenza comune, tanto da presentarsi oggi come ovvio. Per esempio nelle leggi fisiche e chimiche la legge si esprime nel fatto che nella natura variazioni qualitative possono aver luogo solo aggiungendo o togliendo della materia o del movimento (energia).
Allo stesso modo, le leggi della dialettica agiscono anche in rapporto ai fenomeni sociali, per esempio in quelli di natura economica, non ultimo sulla legge fondamentale dell’accumulazione capitalistica, ovvero la legge sulla caduta tendenziale del saggio di profitto scoperta da Marx ed illustrata nel 13° capitolo della III Sezione del Terzo Libro de Il Capitale:
«Dato che la massa di lavoro vivo impiegato diminuisce costantemente in rapporto alla massa di lavoro oggettivato da essa messo in movimento (cioè ai mezzi di produzione consumati produttivamente) anche la parte di questo lavoro vivo che non è pagato e si oggettiva nel plusvalore, dovrà essere in proporzione costantemente decrescente rispetto al valore del capitale complessivo impiegato».
Ciò significa sostanzialmente che più aumentano in assoluto gli elementi della composizione organica del capitale (stabilimenti, macchinari, materie prime e ausiliarie, ecc.) in rapporto alla quantità del lavoro vivo (manodopera), maggiore risulterà la differenza tra i vari saggi del profitto, cioè a seconda della diversa entità del capitale costante (c) e quindi del capitale complessivo (C) impiegati. Marx lo spiega con degli esempi:
Un capitale variabile, ad esempio di 100, rappresenta (a un dato salario e a una data giornata lavorativa) un numero determinato di operai messi in movimento; esso è l’indice di questo numero. Supponiamo che 100 sterline rappresentino ad esempio il salario di una settimana per 100 operai. Se essi fanno un lavoro necessario pari al pluslavoro, se cioè essi compiono ogni giorno per se stessi, ossia per la riproduzione del loro salario, un lavoro di durata uguale a quello che fanno per il capitalista, ossia per la produzione del plusvalore, il valore complessivo del loro prodotto sarà di 200 Lst. e il plusvalore da essi prodotto ammonterà a 100 Lst. Il saggio del plusvalore pv/v sarebbe del 100%. Questo saggio del plusvalore si esprimerebbe però, come si è visto, in saggi del profitto molto differenti a seconda della diversa entità del capitale costante e quindi del capitale complessivo C, dato che il saggio di profitto è pv/C. Se il saggio del plusvalore è del 100%, si avrà:

se c = 50, v = 100, quindi p = 100/150 = 66 2/3%
se c = 100, v = 100, quindi p = 100/200 = 50%
se c = 200, v = 100, quindi p = 100/300 = 33 1/3%
se c = 300, v = 100, quindi p = 100/400 = 25%
se c = 400, v = 100, quindi p = 100/500 = 20%

Restando immutato il grado di sfruttamento del lavoro, questo saggio del plusvalore si esprimerebbe quindi in un saggio decrescente del profitto, poiché insieme alla sua materiale entità si accresce pure, anche se non nella stessa proporzione, l’entità del valore del capitale costante e, per conseguenza, del capitale complessivo.
Se si suppone inoltre che questo graduale cambiamento della composizione del capitale non avvenga soltanto in alcune isolate sfere di produzione ma, in maggiore o minor misura, in tutte o almeno in quelle di maggiore importanza; se tale cambiamento modifica quindi la composizione media organica del capitale complessivo appartenente a una determinata società, questo graduale incremento del capitale costante in rapporto al variabile deve necessariamente avere per risultato una graduale diminuzione del saggio generale del profitto, fermi restando il saggio del plusvalore o il grado di sfruttamento del lavoro per mezzo del capitale.

Del resto, scrive Marx, questo fatto “non è altro che una nuova espressione del progressivo sviluppo della produttività sociale del lavoro, che si dimostra per l’appunto nel fatto che, per mezzo dell’impiego crescente di macchinario e di capitale fisso in generale, una maggiore quantità di materie prime e ausiliarie vengono trasformate in prodotto da un eguale numero di operai nello stesso tempo, cioè con un lavoro minore”.

Pertanto, il saggio del profitto diminuisce, non perché il grado dello sfruttamento dell’operaio sia minore, ma perché viene impiegata una quantità di lavoro minore in rapporto al capitale impiegato.

Scrive Marx: Per quanto la legge appaia semplice, […] l’economia non è finora riuscita a scoprirla. Essa ha constatato l’esistenza del fenomeno e si è affaticata a spiegarlo in tentativi contradditori. Data la grande importanza che questa legge ha per la produzione capitalistica, si può dire che essa costituisce il mistero a svelare il quale tutta l’economia politica si è adoperata dal tempo di Adam Smith; la differenza tra le varie scuole da Smith in poi consiste nei diversi tentativi per giungere a tale soluzione.

Marx naturalmente ne spiega i motivi nello stesso capitolo (per chi ha la curiosità di leggerli). Il più grande scienziato sociale moderno e l’insuperato critico dell’economica politica, oltre alla legge (pubblicata postuma) sulla caduta tendenziale del profitto, ci ha lasciato la descrizione delle cause antagoniste alla legge stessa, alcune delle quali, in estrema sintesi, sono: aumento del grado di sfruttamento del lavoro (in tale categoria rientra non solo l’estorsione del plusvalore assoluto ma anche la cosiddetta “delocalizzazione”); la riduzione del salario al di sotto del suo valore, ossia al di sotto del valore della forza lavoro.

La legge fondamentale dell’accumulazione capitalistica, ovvero la legge sulla caduta tendenziale del saggio di profitto, spiega quindi il motivo principale, per così dire “tecnico”, non solo delle crisi cicliche, ma anche della più generale crisi storica del modo di produzione capitalistico quale è sotto gli occhi di tutti. La grande borghesia, dal canto suo, tenterà ovviamente di ritardarne l’esito, con ogni mezzo e disposta a tutto.

2 commenti:

  1. Oggi (sabato) il buon Giovanni Sartori paga il suo obolo alla selvaggia campagna pro-Marchionne del board del Corriere della Sera con un editoriale di paraculaggine circolare e pressoché perfetta, che certamente non le è sfuggito.

    Da una premessa rigorosa e ormai verificata dai fatti - il sistema è al collasso: altro che crisi cicliche o congiunturali, qui è tutta la baracca che è entrata in un loop di autodistruzione - il nostro toscanaccio fa discendere la conclusione che l'unica cosa che possiamo fare è, piaccia o no, farci travolgere. Il dio antropofago vuole altre vittime umane? Sempre di più? Gliele dobbiamo servire. (Tanto a Sartori, onusto d'anni e prebende, che gli frega? Si arrangino i posteri). Amen. Seguono i soliti rituali insulti alla FIOM e ai reazionari che si oppongono al mastodonte hegeliano in maglioncino blu, così reale e così razionale.

    Altri lettori di questo blog le hanno rivolto, credo, una domanda. Gliela rivolgo anch'io, a modo mio. Che non esista la possibilità del riscatto all'interno di questa trappola mortale è di ormai solare evidenza. Ma è possibile concepire la speranza che prima che si compia il rovesciamento totale della democrazia sociale nel suo opposto speculare, l'inferno huxleyano, una... si può ancora usare questa parola?... una RIVOLTA si erga tra la fine dell'umanità e un nuovo inizio?

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  2. Purtroppo non ho avuto occasione di leggere Sartori poiché sono ammalato.

    Lei scrive molto bene nella forma e nei contenuti.

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