Il Mediterraneo è in fiamme, l’Ungheria protesta e a Londra si decide di tornare in piazza. I metalmeccanici italiani scioperano e, come previsto, i media padronali minimizzano. Gli operai esistono solo quando si tratta di fare il tifo per i sindacati “gialli”. Che cosa ci dobbiamo aspettare da questo sistema economico, dai padroni delle ferriere che riportano l’orario di lavoro all’Ottocento, a dieci ore, la mensa dopo il turno di lavoro, riducono le pause per i bisogni più elementari? Alla fine è stato questo il risultato di tre decenni di profetiche chiacchiere sulla modernità, la robotizzazione, la qualità totale e le infinite stronzate sulla fine della fatica e la scomparsa dell’operaio. Questo sistema non solo ha svuotato di significato i gesti del lavoro in ogni angolo del pianeta, ma con la folle competizione planetaria ha ridotto ancor più al sottosviluppo le vite stesse dei suoi schiavi, affollati nei capannoni di periferie metropolitane grigie e anonime, costretti a produrre per alimentare l’ossessiva e illimitata bulimia del capitale.
«Hanno aggiunto che dappertutto i lavoratori fanno sacrifici, “per competere”, a cominciare dagli operai tedeschi. Non ci dicono che quelli della Wv, per prendere i più rappresentativi, hanno accettato sì, fin dal 2006, di sacrificarsi sull’orario, ma passando da una settimana lavorativa di quattro giorni a una di cinque (dalle 28 ore stabilite fin dal 1993 a 33, prima, e ultimamente a 35, non di più). Che hanno ceduto, certo, sulle pause, ma per scendere a una pausa di 5 minuti per ogni ora di lavoro. Che hanno fatto sacrifici salariali, ma per ottenere, dopo il “taglio”, remunerazioni lorde che vanno dai 2.800 ai 3.500 euro mensili (tra il 30 e il 50% superiori a quelle italiane, con un costo della vita del tutto paragonabile o addirittura più favorevole».
Va bene porre in luce i dati che ci vedono soccombenti anche in termini di confronto, ma non basta. La domanda che dobbiamo anzitutto porre è molto semplice: lo sviluppo di una società dell’abbondanza deve portare all’abbondanza di che? L’unico tipo di produzione che ci deve interessare è quella che ci libera dalla schiavitù di un sistema insaziabile di lavoro e di “sacrifici”, da un’organizzazione dominante che sequestra la nostra vita, censura i nostri bisogni più autentici e stimola quelli artificiali, adatti a consumatori isolati, incapaci di volere e di scegliere, ipnotizzati dallo spettacolo mediatico, ormai l’unica e surrogata realtà disponibile.
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