Il padrone di Amazon vuole licenziare alcune migliaia di suoi schiavi salariati. L’avvento dell’intelligenza artificiale creerà nuovi e massicci licenziamenti in molti settori produttivi e soprattutto nei servizi. È dai tempi di Prometeo che le innovazioni creano nuove forme di sfruttamento e nuove vittime. Le grida d’allarme si fanno più acute del solito poiché la liquidazione di posti di lavoro non riguarda solo i “braccianti”, ma in particolare i “colletti bianchi”.
Un giorno le macchine sostituiranno quasi completamente il lavoro umano? Ampiamente previsto anche da Marx a metà dell’Ottocento e non solo per mera e fantastica congettura (*). Il problema più serio che si viene a creare sta in capo a ogni comodo liberalismo, ben di là del perimetro semplicemente teorico.
Innanzitutto l’avvento delle nuove tecnologie, compresa oggi l’IA, non risolve la contraddizione fondamentale del modo di produzione capitalistico, ossia la produzione di valori d’uso in forma esclusiva di valori di scambio. Non deve sorprendere che la totalità di coloro che se ne occupano, abbagliati dal “feticismo della merce”, eleggono ad oggetto privilegiato della loro ricerca i fenomeni di mercato. Limitando l’analisi ad un solo aspetto della contraddizione, il valore di scambio, non sono in grado di spiegare nemmeno i movimenti di questo.
Anche la forza-lavoro umana, impiegata capitalisticamente, è una merce; e come tale possiede un duplice carattere, quello di valore d’uso e valore di scambio (**). È su tale distinzione che si fonda l’intera società capitalistica, il suo sviluppo e la sua rovina, sia perché la contraddizione interna alla merce rimanda al duplice carattere del lavoro di cui s’è detto, vale a dire al movimento in senso inverso della massa dei valori d’uso, da una parte, e dei valori, dall’altra, in seguito all’aumento della forza produttiva del lavoro.
Confido risulti a tutti pacifico il fatto che con lo sviluppo della grande industria e la sussunzione della scienza nel capitale aumenta enormemente la forza produttiva del lavoro. Se la produzione di valori d’uso tende a scindersi dal tempo di lavoro vivo, quest’ultimo continua tuttavia a permanere, in quanto misura del valore di scambio, come unica fonte di valorizzazione del capitale. Ma poiché nel capitalismo gli oggetti d’uso disponibili dipendono dalle esigenze del capitale, il cui scopo è direttamente il valore di scambio e non il valore d’uso, la produzione di valori d’uso si restringe quando le merci non possono realizzarsi come valori, cioè quando il capitalista non è più in grado di realizzare il plusvalore contenuto nelle merci (questo fenomeno, tra l’altro, è ben evidenziato dalla tendenza alla finanziarizzazione dell’economia).
Ciò che è in radice alla crisi, non è lo sviluppo tecnologico, ma il fatto che esso avvenga entro le forme del modo di produzione capitalistico. Ecco dunque che lo sviluppo delle forze produttive entra in contrasto con la forma e la natura che esse assumono nel modo di produzione capitalistico, cioè con i rapporti di produzione esistenti. “Questi rapporti – scrive Marx –, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale”.
(*) Marx sapeva bene che l’innovazione tecnologica avrebbe progressivamente trasformato il lavoro. Così come Darwin non dovette attendere le scoperte della paleontologia per formulare la sua teoria, allo stesso modo Marx non dovette attendere l’invenzione del microchip per scoprire le leggi che stanno alla base del modo di produzione capitalistico e con ciò il carattere storico e transitorio della forma valore. Tanto gli bastò per immaginare il futuro quale puntualmente esso si conferma in toto. Scriveva Marx nei Lineamenti fondamentali per la critica dell’economia politica (Grundrisse, La Nuova Italia, vol. II, pp. 401- 02):
«La ricchezza reale si manifesta invece – e questo è il segno della grande industria – nell’enorme sproporzione fra il tempo di lavoro impiegato e il suo prodotto, come pure nella sproporzione qualitativa fra il lavoro ridotto ad una pura astrazione e la potenza del processo di produzione che esso sorveglia. Non è più tanto il lavoro a presentarsi come incluso nel processo di produzione, quanto piuttosto l’uomo a porsi in rapporto al processo di produzione come sorvegliante e regolatore.
L’operaio non è più quello che inserisce l’oggetto naturale modificato come membro intermedio fra l’oggetto e sé stesso; ma è quello che inserisce il processo naturale, che egli trasforma in un processo industriale, come mezzo fra sé stesso e la natura inorganica, della quale s’impadronisce. Egli si colloca accanto al processo di produzione, anziché esserne l’agente principale. In questa trasformazione non è né il lavoro immediato, eseguito dall’uomo stesso, né il tempo che egli lavora, ma l’appropriazione della sua produttività generale, la sua comprensione della natura e il dominio su di essa attraverso la sua esistenza di corpo sociale — in una parola, è lo sviluppo dell’individuo sociale che si presenta come il grande pilone di sostegno della produzione e della ricchezza. Il furto del tempo di lavoro altrui, su cui poggia la ricchezza odierna, si presenta come una base miserabile rispetto a questa nuova base che si è sviluppata nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa.
Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura, e quindi il valore di scambio deve cessare di essere la misura del valore d’uso. Il pluslavoro della massa ha cessato di essere la condizione dello sviluppo della ricchezza generale, così come il non- lavoro dei pochi ha cessato di essere condizione dello sviluppo delle forze generali della mente umana. Con ciò la produzione basata sul valore di scambio crolla, e il processo di produzione materiale immediato viene a perdere anche la forma della miseria e dell’antagonismo.
[Subentra] il libero sviluppo delle individualità, e dunque non la riduzione del tempo di lavoro necessario per creare pluslavoro, ma in generale la riduzione del lavoro necessario della società ad un minimo, a cui corrisponde poi la formazione e lo sviluppo artistico, scientifico ecc. degli individui grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati per tutti loro. Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo, per il fatto che tende a ridurre il tempo di lavoro a un minimo, mentre, d’altro lato, pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza. Esso diminuisce, quindi, il tempo di lavoro nella forma del tempo di lavoro necessario, per accrescerlo nella forma del tempo di lavoro superfluo; facendo quindi del tempo di lavoro superfluo – in misura crescente – la condizione (question de vie et de mort) di quello necessario».
(**) “[...] a tutti gli economisti senza eccezione è sfuggita la cosa semplice che, essendo la merce un che di duplice, di valore d’uso e di valore di scambio, anche il lavoro rappresentato nelle merci deve avere un carattere duplice” (lettera ad Engels dell’8 gennaio 1868).
E non è un caso che sia Darwin che Marx siano gli spauracchi del ceto dominante ormai sempre più reazionario. Marx più di Darwin, per ovvie ragioni.
RispondiEliminaPietro
Non ho capito bene, ma nel fine settimana me lo studio
RispondiEliminaauguri. attendo.
Elimina