Ci è stato detto e ripetuto che non dobbiamo assolutamente perdere la svolta dell’intelligenza artificiale, l’IA. Che, per “restare in gara”, dobbiamo accettarla nelle nostre vite. Persino Wikipedia è apparentemente in declino, abbandonata dai suoi utenti in favore dell’IA, che risponderebbe a tutte le nostre domande.
È un database senza precedenti nella storia dell’umanità, accanto al quale la Biblioteca di Alessandria sembrerebbe un mercatino di remainders Si può usare per comprare un biglietto aereo, chattare con uno strizzacervelli immaginario o chiedere di che colore era il cavallo bianco di Giulio Cesare. L’Homo sapiens lo sognava da 300.000 anni, l’IA lo ha reso possibile.
Questa tecnologia ha qualcosa di seducente, perché si basa su una gigantesca massa di informazioni accumulata su Internet per anni. Le raccoglie a strascico ed elabora a bischero sciolto. Come la pesca in mare. Il risultato della pesca può dipendere da tante cose, per esempio da come posizioni l’esca: nella rete può impigliarsi una spigola oppure anche il sedile di un water. Random.
Per esempio, della stessa domanda ho invertito le parole chiave, senza che la domanda cambiasse di significato, e ho pescato due risposte diverse: nella prima risposta, in Francia nel XVIII secolo, l’aspettativa di vita alla nascita era di 25-30 anni; nella seconda risposta l’aspettativa saliva a 40 anni. Non proprio la stessa cosa. E potrei continuare con altri esempi.
In genere però le risposte sono “giuste”, nel senso che sono quelle che ti aspetteresti. Il punto è proprio questo: la normatività, la semplificazione e la superficialità delle risposte. Manca poco, l’IA invaderà le aule, minando il cervello degli studenti e la vocazione degli insegnanti. Già è un problema l’uso degli smartphone, che si pensa di risolvere vietandoli nelle scuole.
Per gli adolescenti, internet significa social media. Al punto che negli ultimi anni l’ambito pediatrico ha iniziato a interrogarsi se sia l’utilizzo dei social a rendere i ragazzi depressi, o se i ragazzi depressi semplicemente trascorrono più tempo sui social. Molti studi riguardano l’ansia e la depressione, sollevando preoccupazioni circa l’impatto dei social media sulla salute mentale, sul fatto che in genere i ragazzi sembrano più stupidi di quanto lo eravamo noi alla loro età.
Per la mia generazione e anche per quella venuta dopo ci sono voluti anni e anni di trattamento televisivo e mediatico per raggiungere livelli ottimali di stupidità, che poi si sublima attualmente nella vecchiaia; oggi, invece, per diventare stupidi bastano pochi anni di applicazione mediatica. Ma anche scolastica. Già nell’adolescenza si possono raggiungere livelli di stupidità che un tempo erano appannaggio solo di una ristretta cerchia di fortunati.
Gli utenti dei social media (anche chi sta scrivendo queste parole) sono stati addestrati a dedicare più tempo a mettersi in mostra e meno tempo a relazioni sociali autentiche. Volenterosi ostaggi dell’intensificazione delle dinamiche virali, non abbiamo ancora valutato abbastanza l’impatto che ha avuto nella vita di ognuno e sui profitti di chi gestisce la faccenda una banalità come il pulsante “Mi piace”. Per tacere del resto.
Assistiamo da decenni allo sgretolamento di tutto ciò che un tempo sembrava solido, alla dispersione di tutte le persone che un tempo formavano una comunità. Leggevo in questi giorni di come Marcel Proust, dopo pochi mesi dall’aver installato il telefono nella sua abitazione, decidesse di disdire l’abbonamento. Non sembra abbia spiegato il perché, ma sicuramente preferiva ricevere e far visita personalmente. Oppure comunicare per lettera. Aveva già capito.




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