Sempre più patetico il Toynbee de noantri
È invalso il modo di definire qualunque forma di lotta, di resistenza, di guerra non convenzionale, non regolamentare, come “terrorismo”, e il terrore come un abominio. Basti pensare a Robespierre, che viene fatto passare come un mostro, tanto che a Parigi non vi è un solo toponimo che ricordi il personaggio, mentre diversi sindaci francesi hanno proposto di “togliere il suo nome alle strade che gli sono intestate” (*).
Lo steso vale per la lotta armata del periodo a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, depoliticizzata e considerata esclusivamente da una prospettiva di diritto penale, non riconoscendo che la violenza rivoluzionaria contro la disuguaglianza sociale, lo sfruttamento e l’oppressione si determina all’interno di rapporti sociali di classe e ne diventa una componente necessaria attraverso le reazioni violente del sistema di dominio.
È interessante notare come, a tale riguardo, Vera Figner, una socialista rivoluzionaria russa che partecipò all’attentato allo zar nel 1881, affrontasse già nel 1922 tale questione. Scrisse della sua epoca: «Il terrore [che, nella terminologia odierna, in un contesto emancipatorio, corrisponderebbe alla lotta militante o armata] non è mai stato fine a sé stesso. Era un mezzo di difesa, di autoprotezione, un potente strumento di agitazione, e veniva utilizzato solo quando si dovevano raggiungere obiettivi organizzativi [...] che da soli avrebbero reso possibile una rivoluzione allo scopo di trasferire il potere al popolo. Nell’autunno del 1881, l’assassinio dello zar divenne una necessità, un tema scottante del giorno [...]. Diede ad alcuni di noi motivo di considerare erroneamente l’assassinio dello zar e l’attività terroristica come il nostro programma essenziale».
Ed infatti, anche per quanto riguarda la lotta armata degli “anni delle bombe”, delle stragi di Stato per mano fascista, non tutte le organizzazioni di sinistra che vi presero parte possono essere tra loro equiparate, e alcune di esse, specie dopo una certa data, furono troppo impegnate nel confronto militare trascurando le lotte sociali, che però, bisogna riconoscerlo, avevano esaurito la loro spinta nel raggiunto benessere materiale di larghi strati popolari. Ecco dunque che una prospettiva marcatamente militaristica portò i mezzi della lotta, o meglio la loro forma, ad assumere una vita propria. La forma prevalse sul contenuto, che a sua volta divenne astratto e non più (auto)esplicativo.
Non è il caso di suscitare eventuali “sconcerti” e gridolini da parte di anime belle citando casi nostrani. Un dibattito veramente pubblico non vi è mai stato, e non vi sarà, poiché il discorso è stato plasmato dai partiti e dai media, che non possono ammettere che tale contro-violenza agli atti di violenza propri dei rapporti sociali e delle istituzioni abbia avuto il carattere di resistenza politica (**).
Si è continuata a perseguire, fino ad oggi e a fronte dell’enormità della violenza mondiale, quotidiana e sistematica, una logica criminalizzante, individualizzante e quindi depoliticizzante che corrisponde al modello della retorica sulla resistenza armata della sinistra in generale (non mi riferisco solo a Meloni e simili casi politici, sociologici e psicologici a sé stanti, ma a un Cacciari che solo oggi s’avvede che “stiamo vivendo uno stato d’eccezione”). Pertanto la prendo larga preferendo riferirmi alla strategia di approccio e alle fasi della lotta della Rote Armee Fraktion (Frazione Armata Rossa: RAF).
Nacque nel 1970 nel contesto delle rivolte e dei tentativi rivoluzionari anti-coloniali, antimperialisti, antirazzisti e antipatriarcali a livello globale (per la miscellanea ideologica che vi regnava, vedi: Heimat: Die Zeit der vielen Worte (1968–1969), di Edgar Reitz). La rivolta sociale di quegli anni e la RAF si schierarono inequivocabilmente con la maggior parte del mondo che cercava di liberarsi dal colonialismo e da condizioni di arretratezza sul piano economico e dei diritti sociali (il Partito Comunista di Germania era stato ufficialmente messo fuori legge nel 1956). Fu una rivolta e una lotta giustificata, necessaria e giusta, ma fu anche più un sismografo che non il terremoto che credeva di essere.
Oggi, quei proponimenti rivoltosi potrebbero farci sorridere, tuttavia, a parti invertite, il mondo di oggi sarebbe apparso a quelli di allora un mondo di tragicomica follia, tanto che Orwel si vergognerebbe di aver vaticinato delle dispotiche banalità superate in souplesse dalla realtà odierna.
La maggior parte dell’élite tedesca, la leadership politica, così come i vertici militari e di polizia, si schierarono ovviamente dalla parte degli assassini provenienti dai ranghi dei governi e dei servizi segreti occidentali, della polizia, dell’esercito, delle dittature e dei fascisti che assassinarono Patrice Lumumba, Salvador Allende, Steve Biko, Martin Luther King, Fred Hampton e innumerevoli altri.
La RAF, emersa dalla rivolta sociale interna del 1968, si ribellò alla continuità del nazifascismo nella Germania Ovest, al riguardo leggere gli editoriali della giornalista Ulrike Meinhof nella rivista Konkret (***). Il potere e le ricchezze della classe capitalista e dei perpetratori nazisti persistettero nello Stato della successiva Germania Ovest. Basti l’esempio del cancelliere Adenauer, che annoverava Hans Globke come uno dei suoi più stretti collaboratori e direttore della Cancelleria della Repubblica Federale. La denazificazione postbellica è stata nella sua sostanza in gran parte un mito (****).
Per la RAF all’inizio prevalse il primato dell’azione rispetto all’attacco militare, così come la conosciamo dalla storia dei movimenti anarchici, ossia una possibile pratica volta principalmente a ottenere un effetto politico e ideologico. L’incendio doloso di grandi magazzini alla fine degli anni ‘60 da parte di coloro che successivamente saranno militanti della RAF, fungeva da espressione militante di messa in discussione di una società in cui tutto – compresa la vita stessa – diventa una merce. Lo stesso dicasi per le azioni della RAF nel 1972 contro gli edifici della polizia e al grattacielo Springer di Amburgo (la RAF nacque anche per rompere il potere dei manipolatori): erano espressioni di propaganda d’azione.
Inoltre, molto più che in Italia, le loro speranze erano legate alle lotte del Viet-Cong, dei Tupamaros in Uruguay, così come delle Pantere Nere e dei Weather Underground negli Stati Uniti, dell’ANC in Sudafrica e del FPLP in Palestina. Ciò portò la RAF al dilemma strategico e cruciale di prendere le distanze dall’aspetto rivoluzionario della lotta (sull’esempio, da noi poco noto, delle Revolutionäre Zellen) e di puntare sulla lotta di liberazione e all’antimperialismo.
Dopo l’arresto dei suoi principali esponenti, nel 1973 la RAF fu sciolta. Il progetto RAF era di fatto concluso.
Fu lo Stato che, nonostante la sconfitta della RAF, condusse la guerra nelle prigioni, applicando una forma di prigionia progettata per distruggere il nemico all’interno della democrazia borghese. Sebbene non fossero più collegati a un gruppo rivoluzionario esterno dal 1973, ai prigionieri fu imposto un regime di detenzione, voluto e ordinato dall’élite al potere, che si basava sull’annientamento – sia psicologico che fisico – o sulla sottomissione (la vicenda di Holger Meins è in tal senso esemplare).
Fu proprio questa repressione (poco nota in Italia nelle sue determinazioni concrete) a portare alla rinascita della RAF. Tra il 1975 e il 1977, la RAF non aveva alcuna idea di lotta armata rivoluzionaria. Le condizioni sociali erano già cambiate. Nel 1977, non rimaneva quasi nulla delle idee radicali della rivolta del 1968, che aveva scoperto la nuda realtà di un dominio di classe che si poteva rovesciare, salvo poi trovare il modo di accomodarsi in seno al sistema, rivelando l’orientamento piccolo borghese di buona parte di quella gioventù meramente protestataria.
L’assalto all’ambasciata della Germania Ovest a Stoccolma, nel 1975, fu un tentativo di liberare i prigionieri della RAF le cui vite sembravano minacciate non solo agli occhi della “seconda” RAF, ma anche dell’intera sinistra e dell’opinione pubblica di sinistra liberale.
Nel 1975, il governo avrebbe potuto avviare trattative con il Holger Meins Commando della RAF per proteggere le vite degli ostaggi nell’ambasciata, ma Schmidt si affidava alla logica militare e a uno Stato forte (stato di emergenza), che corrispondevano a una forma di governo autoritaria e più importante persino della sopravvivenza del personale dell’ambasciata. È lo stesso atteggiamento di “fermezza” che si avrà tre anni dopo in Italia.
I diplomatici dell’ambasciata di Stoccolma non sarebbero morti, per quanto sbagliata e deplorevole fosse la loro uccisione da parte della RAF, se Schmidt e la sua squadra di crisi non fossero stati ossessionati dalla risoluzione militare del conflitto militarizzato.
Poi, nel 1977, nonostante il disastroso esito dell’Offensiva 77, lo Stato avrebbe potuto dare priorità alla vita di Hanns-Martin Schleyer, e proteggerla, avviando negoziati con i prigionieri del carcere di Stammheimer o la RAF. La squadra di gestione della crisi sacrificò uno dei loro perché ancora una volta erano disposti ad affidarsi fin dall’inizio a una soluzione puramente militare e volevano applicarla.
Schleyer era stato un membro del Partito nazista e delle Ss, il suo compito era quello di integrare l’industria della Cecoslovacchia occupata dai nazisti nell’economia di guerra tedesca, a 60 chilometri dal campo di concentramento di Theresienstadt. Fu corresponsabile del trasferimento di decine di migliaia di persone ai lavori forzati e allo sterminio nei campi di concentramento e, nel dopoguerra, divenne funzionario economico e infine presidente della Confindustria tedesca.
Anche il caso dell’assassinio di Siegfried Buback va letto in tal senso: ex nazista, come procuratore generale praticava tattiche di terrorismo di Stato contro i prigionieri. La RAF voleva porre un limite a tutto questo. Volevano porre un limite anche alla caccia all’uomo degli anni ‘70, con l’uccisione di coloro che a volte non erano nemmeno armati e persino indifesi.
Si voleva stabilire un qualche equilibrio di potere e liberare i prigionieri sottoposti a condizioni inumane (forme di isolamento e detenzione speciale ancora vigenti sia in Germania così come in Italia). Si trattava di infrangere la logica del terrorismo di Stato. Ciononostante, la RAF commise errori politici che la privarono della sua legittimità (*****). Trasferì la situazione bellica dei movimenti di liberazione anticoloniali e antimperialisti alla metropoli tedesca, dando priorità all’aspetto militare rispetto a quello politico, il che portò alla sua sconfitta.
La RAF avrebbe dovuto riconoscere, dopo la sconfitta del 1977 e l’orribile morte cui furono sottoposti i suoi membri nel carcere di Stammheim, che quella che sarebbe diventata la “politica degli omicidi” dal 1979 in poi, non avrebbe offerto alcuna prospettiva di liberazione per la situazione metropolitana, e quindi non ci si poteva aspettare alcun progresso da quella strategia.
Sarebbe stato necessario utilizzare una analisi più strutturata e precisa dello stato dello sviluppo economico sociale e delle sue prospettive a breve e medio termine, e invece quell’analisi interpretò lo sviluppo economico della transizione dal keynesismo al neoliberismo come l’economia di guerra di un sistema instabile.
Oggi, negli anni Venti del XXI secolo, mutate le coordinate politiche e sovvertite quelle geopolitiche, quell’analisi acquisterebbe più senso. Nella realtà storica di allora, il capitale globalizzato ebbe un successo inedito e ammirevole nel processo di ristrutturazione (anche ideologica). Preparò l’Unione Sovietica alla sua fine. Kohl insieme a Gorbaciov sancirono definitivamente la fine dell’esperimento socialista iniziato nel 1917 e culminato nel fallimento del socialismo stalinista.
(*) Jean-Clément Martin, Robespierre, Salerno Editrice, p. 7. Di grande interesse l’Introduzione (poco più di 6 pagine).
(**) Queste belle anime non si oppongono alla violenza in sé, ma piuttosto principalmente alla violenza che riconoscono come diretta contro sé stessi e l’élite sociale di cui fanno o credono di far parte. Sono favorevoli alla violenza perché tutto rimanga com’è.
(***) Ne esiste una raccolta anche in italiano: Stampa Alternativa, aprile 1980.
(****) Anche in Italia il Sessantotto nacque nelle scuole italiane, dove si insegnavano umbertinate sabaude, e servì se non altro (ma che lo dico a fare?) per capire che cosa era veramente successo durante il ventennio e nella resistenza e se era vero che il fascismo era stato debellato dallo Stato democratico. Si scoprì che non era vero, e se ne ebbe conferma con le stragi e le bombe. Per questo quel red block terrorizza tutt’oggi l’occidente e segnatamente l’Italia, da Repubblica (nata per reprimere) a gente come il pompiere Veltroni (solo a vederne la faccia viene il voltastomaco).
(*****) Non voglio né affermare né negare la questione della legittimità dell’omicidio di Buback o di altri, anche perché non rifletterebbe la complessità politica ed etica di quello come di altri atti. Penso che tali atti possano essere valutati solo nel contesto storico e sociale in cui sono avvenuti, nel caso di specie tale atto è nato da un tentativo disperato di autodifesa.
Nell’attentato allo Zar, alla fine del XIX secolo, il suo cocchiere morì con lui. L’autista del leader franchista spagnolo Carrero Blanco morì con lui. Eccetera. È deplorevole che muoiano anche degli innocenti – e non lo dico come una frase vuota – ma non conosco alcuna soluzione a questo problema da poter considerare corretta. È stato e sarà sempre un problema importante per tutti i tentativi rivoluzionari e per la guerra di guerriglia. A non farsi alcuno scrupolo sono comunque i responsabili – i più vari e l’elenco è lungo – di migliaia o milioni di omicidi stando seduti a una scrivania.
Della RAF, per mano della polizia e dei servizi segreti tedeschi, furono uccisi 24 membri e semplici simpatizzanti. I morti attribuiti alle azioni della RAF furono 33. La RAF si è sciolta ufficialmente nel 1998.
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