177 anni or sono, Marx ed Engels scrivevano che la proprietà privata era abolita per i nove decimi della popolazione. Oggi, per la quasi totalità delle persone la proprietà privata si riduce agli oggetti strettamente personali, per i più fortunati alla loro abitazione. Eppure c’è chi ancora equipara il capitalismo al liberalismo economico. In realtà il liberalismo economico è scomparso dalla scena globale. Si tratta di un fenomeno storico di grande portata, finora scarsamente identificato per ragioni soprattutto ideologiche (*).
Del resto, la realtà del sistema imperialistico delle multinazionali ha tolto ogni dubbio in proposito.
Il liberalismo si diffuse in un periodo che va dal 1815 circa alla fine del XIX secolo, raggiungendo il suo apice intorno al 1860-1870. Dopo una pausa di diversi decenni, riprese vigore nel 1945 in una forma mitigata dall’intervento pubblico nel blocco occidentale. Tale intervento pubblico in seguito fu fatto saltare, e il capitalismo divenne infine noto a partire dagli anni Ottanta con il nome di neoliberismo o neoliberalism (**).
Dopo l’ubriacatura mercatista, la messa in discussione del libero scambio, dei meccanismi concorrenziali e il ritorno a una concezione autarchica dell’economia, si accompagnano alla decuplicazione dei grandi monopoli, sia privati che statali. È sotto gli occhi di tutti una libertà dei mari minata, un riarmo generale, una nuova corsa all’accaparramento di terre, minerali e specie viventi, tutti fenomeni che riflettono una mutazione del capitalismo globale verso un insieme coerente, nuovo e antichissimo al tempo stesso.
C’è una forma di ciclicità, necessariamente anche ideologica, del capitalismo fin dalla sua nascita nel XVI secolo. Durante il primo periodo del capitalismo, tra il XVI e il XVIII secolo, gli europei combatterono per terra e per mare per essere i primi ad appropriarsi di spazi trasformati in colonie con le loro miniere, stazioni commerciali, porti e piantagioni. Usarono violenza brutale, restrizioni commerciali e metodi monopolistici per essere i primi ad accaparrarsi i mercati tessili e schiavistici asiatici, in un mondo in cui l’idea di una crescita globale della ricchezza non aveva alcun senso.
All’inizio del XIX secolo, con la concentrazione delle forze produttive, l’inedita accumulazione di capitale interno, la Pax Britannica e l’avvento del liberalismo classico, il mondo si stava aprendo a un orizzonte infinito. Ma dalla fine del XIX secolo in poi, un nuovo mondo “finito” venne presentato agli occidentali da economisti, geografi, militari e politici (cito per tutti Alfred Thayer Mahan), in relazione alle proiezioni demografiche, ma anche al crescente bisogno di risorse e sbocchi della seconda rivoluzione industriale.
Su questo territorio limitato, gli esseri umani stavano aumentando, anzi raddoppiando. Si trattava quindi di un’offerta limitata, per una domanda illimitata. In virtù della legge della domanda e dell’offerta, il prezzo al metro quadro di terra aumentava visibilmente. Non c’erano abbastanza risorse e mercati per tutti a causa dell’emergere di nuove potenze industriali sulla scena mondiale: la Germania, incubo dell’Inghilterra, ma anche il Giappone e gli Stati Uniti. Quel tipo di ideologia e di spinta capitalistica ci regalò due guerre mondiali.
Dopo il 1945, grazie a un’enorme e inedita crescita della ricchezza materiale, che irrigò aree precedentemente trascurate del grande sogno occidentale, agì un capitalismo di stampo liberale che intendeva regolare la predazione attraverso un sistema ideologico potente e seducente, quello dell’avvento del benessere materiale universale derivante dal libero mercato, laddove l’economia era concepita come un gioco a somma non zero per individui, imprese e Stati: tutti possono crescere senza (troppo) ostacolare i propri vicini, adattandosi costantemente a un ambiente competitivo. L’orizzonte escatologico dell’ideologia liberale era quello della crescita economica e della pace mondiale.
Con gli anni Novanta, il mondo si riempiva di promesse di espansione materiale grazie alla libertà dei mari, unita all’affermazione di un impero manifatturiero, la Cina, e a una nuova dimensione dello spazio, nata dall’informatica e dal digitale. Era giunto il momento di un mondo senza quasi confini, la quasi scomparsa dei dazi doganali, e senza vincoli. Questa costruzione teorica e pratica, tuttavia, si è infranta sui limiti delle risorse (minerali e metalli) e della sostenibilità ecologica, oltre che sulla nuova contesa geostrategica.
I nostri anni sono quelli del massimo sviluppo dei satelliti e dei dati digitali, di una strategia portata avanti da Stati nazionali e aziende pubbliche o private al fine di accaparrarsi le ultime terre emerse e gli ultimi altipiani oceanici disponibili (guardando in prospettiva alla dimensione extraterrestre), quindi di generare profitto e rendita al di fuori della sfera tradizionale dell’economia. Da qui viene la relegazione dei meccanismi di mercato, messi da parte a favore di zone commerciali imperiali, monopoli, cartelli e coercizione violenta, la chiusura e privatizzazione dei mari, la creazione di imperi formali o informali attraverso l’acquisizione di grandi spazi (fisici e informatici) da parte di aziende pubbliche e private.
Un capitalismo che non promette in alcun modo una crescita universale della ricchezza perché vede l’economia come un gioco a somma zero. Il suo stato normale attuale è una situazione che non è né guerra né pace. Si trova sempre tra le due, poiché è apertamente predatorio, violento e rentier. La sua forza motrice è un sentimento ansioso suscitato dalle élite ma ampiamente diffuso nell’opinione pubblica: quello di un mondo di cui bisogna impadronirsi in fretta e con qualsiasi mezzo.
Tutti si battono per il potere, non per l’abbondanza; per l’autarchia, non per il libero scambio (celebrato fino a ieri a parole); perché il loro punto di partenza è una semplice massima: non ce n’è abbastanza per tutti. Già da molto tempo e sempre di più saranno i monopoli tecnologici a impadronirsi di intere sezioni di ciò che è sottratto al potere pubblico, in una vasta sostituzione dello Stato, quale l’avevamo conosciuto, con aziende-Stato private che occupano il territorio attraverso le loro reti e “creano” il mercato perché il loro potere monopolistico (razzi, satelliti, server, cavi sottomarini, intelligence, intelligenza artificiale, ecc.) è tale da dirigere la produzione e la distribuzione in molti settori.
Gli Stati-società sono un’altra forma di occupazione mondiale. Vedemmo giusto già cinquanta anni fa ...
(*) «Voi inorridite all’idea che noi vogliamo abolire la proprietà privata. Ma nell’ attuale vostra società la proprietà privata è abolita per i nove decimi dei suoi membri; anzi, essa esiste precisamente in quanto per quei nove decimi non esiste. Voi ci rimproverate dunque di voler abolire una proprietà che ha per condizione necessaria la mancanza di proprietà per l’enorme maggioranza della società» (Manifesto del partito comunista, MEOC, VI, p. 501). Subito prima, nello stesso capitolo, gli Autori affermavano: «Ciò che distingue il comunismo non è l’abolizione della proprietà in generale, bensì l’abolizione della proprietà borghese. Ma la proprietà privata borghese moderna è l’ultima e la più perfetta espressione della produzione e dell’appropriazione dei prodotti che poggia su antagonismi di classe, sullo sfruttamento degli uni da parte degli altri» (ibidem, p. 499).
(**) “L’affermazione secondo cui non esisterebbe una traduzione italiana di “neoliberismo” in inglese è falsa: il termine inglese è neoliberalismo (con la ‘l’), e si riferisce a una dottrina economica che enfatizza la riduzione dell’intervento statale nell’economia a favore di meccanismi di mercato.”
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