mercoledì 29 novembre 2023

L'effetto cocktail

 

Per doveri familiari e sociali, domenica ero in gita con una benemerita associazione. Tra l’altro siamo stati a San Leo, piccolo borgo e celebre fortezza. Dopo la visita, di ritorno al pullman, un mio vicino di posto mi ha chiesto se avevo avuto l’ardire di arrampicarmi fin lassù sulla rocca e se l’avevo visitata. Gli risposi che non l’avevo visitata, fermandomi alla biglietteria dove avevo chiesto del signor Cagliostro. Mi era stato risposto, dissi, che Cagliostro non c’era, se ne era già andato. Una battutina del cavolo, d’accordo. Tuttavia, il buonuomo che mi aveva rivolto la domanda, con molta serietà mi ha chiesto: “Questo Cagliostro è il proprietario?”.

Non è grave ignorare chi fosse Cagliostro, ossia se fosse il proprietario o solo suo malgrado l’occasionale inquilino della rocca di San Leo. Più preoccupante è il fatto che tanta brava gente si faccia intortare dai tanti Cagliostro in circolazione con i loro consiglieri per la comunicazione.

“Tutto è veleno, nulla è senza veleno, solo la dose impedisce che sia veleno”, pare avesse detto Paracelso. Dovremmo tenerlo presente quando accediamo al televisore o al cellulare: è la dose che fa il veleno. L’intera società è vittima di un avvelenamento. Ciò che Paracelso non disse ma probabilmente sottintese è il fatto che l’effetto dei veleni, anche in piccole dosi di per sé quasi innocue, si somma.

Non solo l’effetto si somma, ma si combina. Nessuno tiene conto degli effetti combinati. Contrariamente a quanto suggerisce l’intuizione, accade spesso che piccole dosi di veleno, ben al di sotto degli standard ufficiali, possano avere combinate tra loro effetti più disastrosi di singole dosi molto maggiori. Per tacere dell’esistenza di effetti non lineari delle molecole chimiche. Vediamo bene quali effetti cocktail producono le pozioni, anche in dosi quasi omeopatiche, che ci propinano giorno dopo giorno i tanti Cagliostro della politica e della comunicazione. Ma ne siamo diventati più o meno tutti dipendenti. 

lunedì 27 novembre 2023

"La grande società" secondo Hayek

 

L’inserto domenicale de Il sole 24 ore pubblicava ieri un breve estratto da un libro (La presunzione fatale. Gli errori del socialismo) di uno dei più ascoltati ideologhi borghesi della seconda metà del XX secolo, Friederich Hayek (membro eminente della Società Mont- Pèlerin, così come esistono Hayek Society e altro ancora).

Darò qui di seguito solo un cenno della sua concezione storica, dalla quale il lettore potrà trarre un giudizio sul livello intellettuale e le ambizioni di simili personaggi e di quelli che gli vanno dietro (*).

Leggiamo: «Gli istinti innati dell’essere umano non sono fatti per una società come quella in cui vive oggi. Istinti erano adatti alla vita nei piccoli gruppi a cui si univa durante i millenni dell’evoluzione del genere umano. Se l’essere umano avesse continuato a lasciarsi guidare totalmente da quegli istinti, non sarebbe mai stato in grado di sostenere i numeri ora raggiunti dalla sua specie».

Possiamo già subito osservare che gli “istinti innati” dell’essere umano non sono dissimili da quelli degli altri primati. È ovvio che per distinguersi la nostra specie deve aver compiuto una trasformazione radicale nel proprio comportamento, innanzitutto intervenendo attivamente sulla natura esterna per controllarla e in qualche misura sottometterla alla soddisfazione coscientemente preordinata dei propri bisogni. L’antenato dell’uomo cominciò a modificare e a dirigere la sua stessa natura, cominciò a prodursi socialmente come uomo.

Pertanto, ciò che afferma Hayek è alquanto banale, ma ciò non deve sorprendere da parte di un sociobiologo. Così come quando afferma che «Ciò è avvenuto perché i nuovi modi di agire si sono diffusi attraverso un processo di trasmissione di abitudini acquisite, un processo analogo all’evoluzione biologica ma diverso da quest’ultima sotto aspetti importanti».

Ciò che Hayek chiama puerilmente “abitudini acquisite”, è in effetti il fatto che gli esseri umani entrano tra loro in rapporti sociali per il tramite di strumenti; non solo strumenti materiali, ma anche strumenti segnici, come il linguaggio, ossia lavorano per produrre informazione extragenetica e cioè strumenti di conoscenza indispensabili per finalizzare la propria attività trasformatrice del mondo circostante. Lavoro per trasmettere, comunicare, sensazioni, conoscenze, comandi. Lavoro per sottomettere controllare il proprio come l’altrui comportamento.

Ma quale “processo analogo all’evoluzione biologica”? Roba tipo la biologia della cultura? La concezione degli esseri umani di Hayek, per quanto in linea di principio possa sembrare che lo neghi, è improntata a un naturalismo radicale di tipo deterministico ed evoluzionistico, sulla scorta di Herbert Spencer. Così come la sua concezione del socialismo è tratta della pianificazione di tipo sovietico: dallo Sputnik alla carta igienica.

Non deve sorprendere che Hayek riveli la mancanza di una concezione dialettica del rapporto tra biologico e sociale. Non considera che sistema biologico e rapporti sociali costituiscono un’unità di opposti il cui polo dominante è rappresentato dai quei stramaledetti rapporti sociali nei quali siamo invischiati fino al collo dalla culla alla bara, e di cui proprio Hayek e i suoi sodali sono interessati a mantenere inalterati.

Formazione sociale e individuo concreto sono termini che non si oppongono non essendo tra loro in rapporto di prima/dopo, dentro/fuori, sopra/sotto. Tra l’uno e l’altro non c’è alcuna differenza di contenuto, poiché il concreto divenire dalla materia sociale li implica vicendevolmente.

Dice Hayek: «L’individualismo primitivo descritto da Thomas Hobbes è un mito. Il selvaggio non è “solo” e il suo istinto è collettivistico». Bene, ma andava detto diversamente: l’essere umano non è un’astrazione immanente all’individuo singolo, ma è la concreta materia sociale nelle sue forme di esistenza storicamente determinate. L’individuo concreto, infatti, in quanto parte di una data formazione sociale storicamente determinata è sempre con essa in un rapporto di isomorfismo e dunque riproduce nella sua attività, sia pure in forme particolari, l’insieme dei rapporti sociali.

Andava detto diversamente poiché altrimenti si scade nell’ideologia, come quando Hayek sostiene che «Il collettivismo moderno è un ritorno a questo stato del selvaggio, un tentativo di ristabilire quei forti legami all’interno del gruppo ristretto che hanno impedito la formazione di unioni più ampie ma meno costrittive».

Quali unioni più ampie, quale collettivismo moderno e più costrittivo del lavoro degli operai nella fabbrica capitalistica? Tanto per dire. Di queste coglionate di Hayek e altri simili a lui si nutre l’ideologia borghese. Lo scopo di questi apologeti è sempre quello: considerano il capitalismo come inevitabile e giudicano le persone in base alla produttività e all’efficienza.

Del resto è molto chiaro: «Dobbiamo imparare a vivere in due società alle quali persino dare lo stesso nome è fuorviante. La società estesa non può emergere se trattiamo tutte le persone come nei nostri prossimi; tutti trarranno beneficio se non lo facciamo e se invece delle regole di solidarietà e altruismo nei nostri rapporti con gli altri adottiamo le regole della proprietà privata, dell’onestà e della veridicità».

Nel 1984 sostenne il ritorno a “un mondo in cui non solo la ragione, ma la ragione e la moralità, come partner alla pari, devono governare le nostre vite; dove la verità della morale è semplicemente una specifica tradizione morale, quella dell’Occidente cristiano, che ha dato origine alla morale della civiltà moderna.»

Tutto sommato non abbiamo a che fare con una versione ideologica fondamentalmente nuova. Ma basta con ‘sta roba qua.

(*) Hayek è un’icona su entrambi i lati della divisione neoliberista/populista: rifiuto dell’egualitarismo, privatizzare tutto, riprogettare lo Stato per limitare la democrazia senza eliminarla, combinare l’idea neoliberista del capitale umano con l’identità nazionale, ovviamente tagliare le tasse, ecc.. Non deve sorprendere che secondo i suoi epigoni (piace anche in Cina) il comportamento umano possa essere compreso secondo le stesse logiche evolutive in atto negli animali.


In nome dei profeti

 

Stiamo vivendo la storia del mondo, quella della distruzione e dello spargimento di sangue ovunque, e allo stesso tempo ne siamo così lontani: infelici, ma preservati, semplicemente relegati nel tiepido inferno dei commenti e del cattivo umore.

C’è chi vede nella tragica vicenda del rapimento di una bimba di pochi mesi il male assoluto, chiama i rapitori terroristi (se non è terrore quello ditemi che cos’è), e però non vede e non spende una parola che sia una per i bambini assassinati sotto le bombe di chi sta spianando una città circondata (se non è terrore quello ditemi che cos’è). In nome dei rispettivi profeti, ovviamente.

Tutto sulla terra ha cominciato a marcire: gli esseri umani sono il bestiame sacrificale di un mondo che si avvia verso il massacro globale.

La lettura da fare di questo dramma è chiarissima: sono loro contro di noi. Il modo in cui raccontiamo queste storie è determinato dal modo in cui le riceviamo, sono usate per mettere le persone l’una contro l’altra? Certamente, ma non solo. Vogliamo essere e siamo lo zoccolo duro di chi sta dalla parte della nostra bandiera, lusingati di fare gli stronzi sulle disgrazie altrui.

È così che ci siamo ritrovati al centro di un nuovo divario profondo e incolmabile. Però non facciamoci troppo ingannare, ciò non accade solo perché “l’uomo” è cattivo di suo. Pensiamo solo a cos’è accaduto nella tranquilla e soporifera Dublino. Che cosa accade in Francia e che cosa potrà accadere in Olanda e in Germania se la crisi, non solo economica, prenderà una certa piega (non più in Italia, dove tutto scorre nel migliore dei modi)?

Non sono mondi che si scontrano, è lo stesso mondo che collassa di nuovo su sé stesso. Sono questi i prodotti del colonialismo, degli effetti della globalizzazione, di un sistema che più contraddittorio e demenziale non potrebbe essere. Cazzo, la storia del Novecento ci dirà pur qualcosa o tutto è dipeso dalla malvagità di uomini che, pistola alla tempia degli elettori, sono riusciti a strappare decine di milioni di voti?

giovedì 23 novembre 2023

Non solo Gaza

 

La tregua che dovrebbe partire da oggi servirà allo Stato terrorista d’Israele a ricaricare le armi, a far giungere nuove forniture belliche dai suoi complici. Quanto alla Cisgiordania, che per gli arabi è Palestina, per i coloni ebrei è la Giudea e la Samaria.

Quasi 500.000 coloni vivono tra 2,8 milioni di palestinesi e continuano a guadagnare terreno secondo una strategia ben consolidata. I più radicali tra loro, conosciuti come i “giovani delle colline”, si stabiliscono negli “avamposti”, spesso sulle alture della Zona A (secondo il piano di spartizione della Cisgiordania, l’Area A è sotto l’amministrazione dell’Autorità Palestinese).

Piantano tende, costruiscono prefabbricati e vengono regolarmente sfrattati dall’esercito. Niente che li scoraggi, continuano a ritornarci finché non hanno partita vinta: la legge israeliana legalizza retroattivamente i loro insediamenti. Queste costruzioni sono accompagnate da demolizioni e sequestri di proprietà palestinesi. Nel 2021, il relatore speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati ha indicato che gli insediamenti costituivano un crimine di guerra. Senza che la sua denuncia abbia cambiato nulla. Del resto, decine di risoluzioni dell’ONU, ignorate da Israele, non hanno prodotto alcuna sanzione economica o politica da parte dell’Occidente.

Quest’anno, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU rilevava che tra il 15 giugno e il 19 settembre, ad esempio, le autorità israeliane hanno portato avanti il piano di costruzione di 6.300 unità nell’Area C. In prima linea in questo movimento di occupazione (“ripopolamento”, secondo i coloni) ci sono i sostenitori del sionismo religioso, guidati da una visione messianica di questa conquista territoriale. Considerano la vittoria israeliana nella Guerra dei Sei Giorni nel 1967 un miracolo dell’intervento divino. Che interpretano come una sorta di via libera per fondare il “Grande Israele”, tra il Nilo e l’Eufrate.

Il giorno dopo il 7 ottobre, il ministro di estrema destra per la Sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir (anche lui residente nella Zona A, ossia a Kiryat Arba) ha allentato le condizioni per l’ottenimento di armi e ha promesso la consegna di 10.000 armi, tra cui 4.000 fucili d’assalto, ai coloni della zona. Cisgiordania. Due settimane dopo, il consiglio regionale di Samaria ha distribuito 300 fucili d’assalto, in coordinamento con l’esercito. La settimana successiva all’attacco di Hamas è stata la più micidiale per i palestinesi in Cisgiordania. Secondo l’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR), 75 palestinesi sono stati uccisi dai coloni o dall’esercito.

Si sentono sicuri del loro diritto di occupare la regione. Dicono che quella è la loro terra da quattromila anni, anche se fino a pochi anni fa abitavano, per esempio, negli Stati Uniti. Lì c’è la tomba dei Patriarchi, di cui sentono l’aura. Nonostante siano minacciati dai barbari, dagli animali (così chiamano i palestinesi), è la loro terra e niente li fermerà.

Vivono esattamente nel centro della città palestinese di Hebron, famosa per ospitare la tomba dei Patriarchi, definita la Moschea di Abramo per i musulmani. L’edificio è diviso tra moschea e sinagoga dal 1994, anno in cui Baruch Goldstein, fervente apostolo di Meir Kahane, autore di una dottrina favorevole alla conquista della Terra Promessa, aprì il fuoco su 29 musulmani in preghiera.

Tre anni dopo, la firma del Protocollo di Hebron conferì alla città uno status speciale. Da un lato (Hebron 1), la capitale economica palestinese con 200.000 abitanti; dall’altra Hebron 2, il centro storico, dove vivono ora 800 coloni protetti da 2.000 soldati. A Hebron 2 per decenni il paesaggio urbano è stato devastato da posti di blocco e filo spinato. In tale situazione, 1.700 negozi hanno chiuso i battenti e molte case palestinesi sono state abbandonate dai proprietari. Ora, la principale via dello shopping della città vecchia, è vietata ai palestinesi.

Il venir meno della famiglia

 

In questi giorni, in una ventina di comuni dell’alto Veneto, a turno, si terranno delle fiaccolate contro la violenza sulle donne. A che cosa servono? A poco, forse a niente, a gratificare e rassicurare le donne che vi partecipano. Sia chiaro, so benissimo che vi sono associazioni femminili di ascolto e aiuto molto valide, ma questo è un altro discorso.

Quello che ho tentato di dire in un post recente sul cosiddetto patriarcato, è che la posizione e condizione della donna nella società dipende anzitutto dal fatto che la prima divisione del lavoro, dunque dei ruoli, riguarda proprio i sessi. In origine, la divisione del lavoro è del tutto naturale, essa sussiste solo tra i due sessi (la prima forma di servitù). A ciò si sommano i retaggi storico-culturali (il riconoscimento politico e giuridico della predominanza del maschio), dunque il prendere forma di una determinata psicologia nei due sessi così separati (subordinato quello della donna: essa riconoscerà l’ordinamento sociale esistente come il solo possibile). Procedere solo sui temi dell’atteggiamento psicologico e della mentalità del maschio, come in gran parte si sta facendo, porta su una strada senza sbocco.

Dopo che hai partecipato alla fiaccolata, dopo che ti sei recata al seggio (per rifarmi al film di Cortellesi), torni a casa e trovi che la tua condizione di donna (e di madre, direbbe qualcuna) non è cambiata di un millimetro. Infatti, se la condizione della donna negli ultimi sessant’anni è cambiata, modificata in meglio, ciò è dovuto principalmente se non univocamente al fatto che è cambiata la condizione economica generale e, in essa, quella della donna (anche dal punto di vista giuridico), la quale partecipa su vasta scala sociale alla produzione, e il lavoro domestico e l’allevamento dei figli non la impegna più come un tempo.

Paradossalmente l’emancipazione della donna, il venir meno dell’autocrazia del maschio nella casa, è dovuta più all’introduzione di determinati elettrodomestici e all’ingresso su vasta scala della donna nel mondo del lavoro extradomestico che a tutto il dibattito nel movimento femminista. Finalmente la donna disponeva per sé di più tempo libero e della merce delle merci che contiene in sé occultamente tutte le altre, il denaro. Dunque ciò dovrebbe spingere all’indagine della base economica di un tale stato di cose. Anche se ciò non basta a spiegare del tutto l’antagonismo tra uomo e donna.

La sottomissione e la violenza subita dalle donne, laddove i singoli episodi di cronaca sembrano abbandonati al puro caso, risponde, nell’insieme della sua condizione, alla cieca necessità di un sistema economico-sociale che ha posto per millenni la donna al centro della prima grande scissione della società. Oggi, col profondo cambiamento dell’ordine sociale al quale stiamo assistendo nella nuova fase capitalistica, la violenza subita dalle donne non è solo la reazione del maschio che vede sfuggirgli la “preda” (come dice, in altri termini, Pierluigi Bersani), ma è dovuta anche alla disgregazione e conseguente disorientamento (nel maschio, nei figli, in tutti) provocati dal venir meno della famiglia singola come unità finora fondamentale della società.

mercoledì 22 novembre 2023

I padrini della guerra

 

Il giovane Anwar el-Sadat non aveva remore a complottare per conto dell’Afrikakorps, perché sperava che i nazisti aiutassero gli egiziani a liberarsi dagli inglesi. Divenuto presidente dell’Egitto nel 1970, lanciò il suo esercito contro Israele nel 1973 durante la guerra dello Yom Kippur. Nonostante questo, nel 1977 si recò a Gerusalemme per incontrare il primo ministro israeliano Menachem Begin, poi firmò con lui, un anno dopo, gli accordi di Camp David, con i quali l’Egitto riconquistò il Sinai perduto nel 1967, facendo così la pace con Israele. Nel 1981 fu assassinato dagli islamisti della Jihad islamica che non gli perdonarono questo riavvicinamento allo Stato ebraico.

Yitzhak Rabin, da giovane fece parte della sezione militare dell’organizzazione terroristica Haganah, poi combatté nel 1948 durante la prima guerra arabo-israeliana, fu capo di stato maggiore nel 1967, durante la Guerra dei Sei Giorni. Primo ministro di Israele dal 1974 al 1977, poi di nuovo nel 1992, firmò gli accordi di Oslo con Yasser Arafat nel 1993, fu assassinato due anni dopo da un estremista religioso, Ygal Amir, contrario al processo di pace avviato con i palestinesi (*).

Figure emblematiche del conflitto israelo-palestinese, questi due statisti sono stati assassinati da estremisti religiosi. Apparentemente, perché la religione è una cortina ideologica dietro cui si nascondono interessi politici.

Esaminando gli itinerari di questi due personaggi politici, viene spontaneo considerare che uno statista è una personalità politica che sa vedere oltre il suo percorso personale, con l’unico obiettivo di servire gli interessi del suo Paese, anche se ciò significa prendere decisioni difficili.

Oggi non c’è una figura con la statura di uno statista, capace di prendere decisioni coraggiose, di imporle al proprio campo, per porre fine a questo sanguinoso conflitto. Netanyahu è un politico miserabile, intrigante e bugiardo, che non ha esitato a tentare di manomettere la Costituzione del suo paese per sfuggire alla prigione. Mahmoud Abbas è a capo dell’Autorità Palestinese solo di nome, screditato dalla corruzione e dal compromesso.

Non c’è l’ombra di uno statista all’orizzonte, per due popoli che tuttavia pretendono di essere uno Stato o di averne uno. Ecco dunque spazio per coloni ebrei suprematisti nei territori occupati, armati e completamente fuori controllo; quindi milizie islamiste come Hamas, il cui obiettivo è il conflitto permanente con Israele. Quale autorità è in grado di ordinare alle parti di fermare le proprie azioni violente?

Questo conflitto è da tempo tenuto in ostaggio da estremisti che nessuno sembra in grado di mettere fuori gioco. Sono loro a dettare legge in questo conflitto e ad imporre i loro tempi a tutti gli altri attori. Se hai l’audacia di uccidere un presidente egiziano o un primo ministro israeliano, allora puoi uccidere chiunque.

È un conflitto che somiglia sempre meno a una guerra tra uno Stato e un’Autorità, ma sempre più a una guerriglia tra fazioni, tra milizie, guidate da signori della guerra che non obbediscono, almeno apparentemente, più a nessuno. Finché le milizie razziste dei coloni o i gruppi terroristici islamici come Hamas non saranno stati neutralizzati dai loro stessi padrini, non ha senso parlare di “pace” o di qualunque “cessazione”.

E di quali padrini stiamo parlando? I padrini degli interessi americani, europei, turchi, russi, iraniani e insomma quelle forze politiche ed economiche che sobillano e armano un mondo che si sta di nuovo sfasciando alla grande. Nel parterre c’è il tifo di un’arena che tutto sommato si diverte quanto più scorre il sangue.

(*) Leggo su Wikipedia che Amir divenne amico di Avishai Raviv, un dichiarato attivista radicale anti-Rabin, in realtà un agente infiltrato dello Shin Bet, il servizio di spionaggio e controspionaggio di Israele, a cui Amir rivelò la sua intenzione di uccidere Rabin.

Patriarcato: un altro punto di vista

 

Che cos’è il patriarcato di cui si parla tanto in questi giorni? Per avere una definizione basta consultare Wikipedia e accontentarsi.

Che i fatti clamorosi e il contesto sociale e politico in cui ci troviamo legittimino il riutilizzo di questo termine un po’ desueto e lo renda urgente non ci dice nulla, né della sua rilevanza per analizzare e trasformare la situazione attuale, né del modo di intenderlo, fermo restando che sul suo significato non c’è mai stato accordo unanime.

Giusto indagare che cosa fa il patriarcato alla psiche delle persone: che tipo di sentimenti, di relazioni con sé stessi e con gli altri produce, quindi cercare di localizzare nella psiche le cause della persistenza o della resistenza del patriarcato in un contesto sociale e politico dove il riferimento all’uguaglianza, almeno apparentemente, sembrava essersi imposto.

L’ordine patriarcale impone agli individui di assumere identità – maschile e femminile – che rendono impossibile stabilire relazioni “autentiche” con l’altro, cioè relazioni realmente paritarie, inibendo di fatto il bisogno vitale che hanno gli esseri umani di stabilire relazioni autentiche.

Questo è l’approccio che cerca la chiave della persistenza del patriarcato nei meccanismi mentali, nei cambiamenti emotivi e psicologici che colpiscono i ragazzi e le ragazze quando entrano nell’età adulta e vengono “iniziati” alle gerarchie esistenti e inevitabilmente a quella situazione che correntemente viene definita come patriarcato. Quindi i lunghi discorsi sulle fasi emotive: protesta, disperazione, poi distacco o attaccamento ansioso, che rimandano a forme di attaccamento patologico. Ma c’è dell’altro.

Il patriarcato non può essere ridotto a una forza che aleggia al di sopra dell’organizzazione sociale, insinuandosi magicamente nelle nostre menti e nei nostri corpi. Gli agenti sociali non sono semplici ingranaggi determinati esternamente da forze al di fuori del loro controllo. Il discorso psicologico può svilupparsi solo in dialogo con altri discorsi, in particolare quelli relativi alle forme di organizzazione sociale, dell’economia, della politica, della sociologia e della storia.

Pertanto la domanda da porsi è: quali sono i fondamenti socioeconomici dell’oppressione delle donne, su quale base materiale poggiano tali meccanismi psichici e ideologici? Le donne continuano a svolgere la maggior parte del lavoro di cura da cui dipende la riproduzione della società e dei suoi membri; svolgono la maggioranza dei lavori a tempo parziale; continuano a guadagnare meno degli uomini a parità di posizione e competenze, eccetera.

La violenza fisica, le minacce, il sessismo non sono semplicemente dei fattori psicologici. Tantomeno lo sono la dipendenza economica, la segmentazione del mercato del lavoro, la svalutazione delle professioni, eccetera. Una formazione sociale in cui gli uomini continuano a detenere il potere, in cui il maschile è sistematicamente avvantaggiato a scapito del femminile. Dunque i privilegi, non solo meramente materiali, che il dominio fornisce al dominante e il desiderio di quest’ultimo di mantenere questi privilegi.

Questa realtà materiale non è opposta alla sua realtà psichica. Al contrario, è cercando di descriverlo e analizzarlo, di interrogarsi sulle sue interazioni con l’organizzazione sociale, che potremo rendere conto degli effetti psicologici che il patriarcato ha su ognuno di noi.

Tenuto conto anche del fatto che questi effetti differiscono, non solo tra uomini e donne, ma anche tra uomini, tra donne e per chi non si riconosce in queste categorie.

martedì 21 novembre 2023

Ciò che non è possibile neanche all’Italia

 


L’Argentina ha scelto il suo nuovo presidente. L’elettorato si trovava a dover scegliere tra l’ultraliberale Javier Milei o la vecchia ricetta peronista di Sergio Massa, ultimo responsabile, in ordine di tempo, dell’inflazione che dissangua il Paese.

Milei, economista 53enne, è un “Chicago boy”, seguace delle teorie ultraliberali di Hayek e Friedman, una sorta di Trump, ma anche di peggio s’è possibile (il suo mentore è Murray Rothbard). La sua vice è ora Victoria Villarruel, che, tanto per dire, nega i crimini della dittatura militare (1976-1983).

Milei, arrivato secondo al primo turno, ha vinto al secondo con 55,7% dei voti, ma non ha la maggioranza al Congresso, anzi, non ha quasi una propria rappresentanza. Tuttavia ha dalla sua parte l’ex presidente Mauricio Macri e Patricia Bullrich (terzo posto al primo turno). Dunque non solo un sostegno sociale trasversale nelle urne, ma anche al Congresso troverà forti sostenitori (sempre in cambio di “qualcosa”, ovviamente).

In campagna elettorale, al primo turno, Milei dichiarava un programma che lui stesso definiva “operazione motosega”: eliminazione dei ministeri dell’Istruzione, della Sanità, dei Lavori Pubblici, dello Sviluppo Sociale e delle Donne; privatizzazioni; abolizione delle imposte sul reddito e della previdenza sociale.

Dopo il primo turno, Milei ha abbandonato i suoi proclami più radicali di privatizzazione totale dello Stato, perché erano in conflitto con la sensibilità egualitaria e pro-servizio pubblico di gran parte dell’elettorato (il peronismo è come il fascismo in Italia, non se n’è mai andato). Il tutto mescolato con la solita nauseante retorica contro la “casta” politica (mai contro la ricca borghesia di cui egli è un esponente) e un’estetica “rock”, per usare un eufemismo.

Sosteneva che il cambiamento climatico è un’invenzione del socialismo o del “marxismo culturale” (il marxismo è sempre colpevole), sottolineava che viviamo sotto una sorta di neo-totalitarismo progressista (Milei è fautore di un totalitarismo ultraliberista). Dunque Milei ha saputo, come già le altre destre neofasciste, cogliere i motivi della rabbia popolare e aspetti reali della crisi di sistema colorandoli con un’ideologia reazionaria, trasformando il trolling anti-progressista in un progetto presidenziale.

E la “dollarizzazione”, ovvero la sostituzione della moneta nazionale, il peso, con il dollaro americano. Ovvio che se adotterà realmente questa politica monetaria (che non ha mai finito di spiegare) creerà una corsa alle valute estere, i prezzi aumenteranno ma non i salari, dunque si farà aspro il conflitto sociale. Non potrà esserci situazione migliore per un intervento “risolutore” dei militari. Ma è un po’ tutto da vedere che cosa verrà realmente lasciato fare a questa marionetta.

Com’è potuto accadere che un soggetto come Milei fosse un candidato spendibile per la presidenza? L’inflazione, appunto, che ha raggiunto il 138% in un anno, e il 758% dall’inizio del mandato del presidente Alberto Fernández e del suo vicepresidente, Cristina Kirchner, lei stessa alla guida dello Stato dal 2007 al 2015, preceduta dal marito dal 2003. Il tandem Fernández-Kirchner incarna un peronismo con accenti progressisti, di cui il “kirchnerismo” è il lato corrotto e inefficiente. Sergio Massa era il ministro dell’Economia.

Nell’Unione per la Patria, la coalizione che sosteneva Massa, c’era sia il Partito Comunista che il Partito Popolare Conservatore, il cui nome parla da solo. Anche la candidata del sindacato Insieme per il cambiamento, Patricia Bullrich, come detto arrivata terza al primo turno, è un’ex peronista, ma il 19 novembre ha chiamato a votare per Milei.

Pertanto non bisogna chiedersi il perché una sorta di Joker, che incitava alla ribellione a Gotham City, abbia vinto le elezioni. Sarebbe come chiedersi perché ha vinto dapprima Grillo/Casaleggio e poi la famiglia Meloni in Italia. Le plebi pagano con il proprio voto l’ingresso in un nuovo show.

Il peronismo è la maledizione dell’Argentina, così come il populismo italiano, trasversale ai partiti, è la maledizione nostra. Fondato dal generale Juan Domingo Perón, presidente dal 1946 al 1955 e poi dal 1973 fino alla sua morte nel 1974, il peronismo è un populismo ipersintetico: favorevole all’Asse, accolse numerosi ex nazisti, riunisce una buona parte delle classi lavoratrici, i descamisados, e uno spettro politico che anche allora spaziava dall’estrema destra all’estrema sinistra dei Montoneros.

Appesantita da un debito colossale, con altri miliardi di dollari contratti con il Fondo monetario internazionale nel 2018 dal governo del liberale Mauricio Macri (presidente dal 2015 al 2019, è stato decisivo per le possibilità di Milei al secondo turno), l’Argentina è la terza economia dell’America Latina, ma con il 40% della popolazione povera (povera davvero). L’elettorato aveva la scelta tra continuare la caduta nel baratro con Massa o esplodere con Milei. Ciò che non può fare l’Argentina – e questa è la cosa più grave – è di essere uno Stato sovrano e stabile allo stesso tempo.

Ciò che non è possibile neanche all’Italia.


lunedì 20 novembre 2023

Israele ha perso


Il conflitto israelo-palestinese, o meglio, tra l’esercito israeliano e i civili nel ghetto di Gaza, è entrato in una fase senza precedenti. È disperato. In futuro, tutto ciò che accadrà, sia sul campo che a livello diplomatico e politico, non avrà più alcun impatto su ciò che si pensa nel mondo di questa guerra e dei suoi diversi attori, diretti o indiretti.

Dire che le opinioni su questo conflitto, che si trascina da più di settantacinque anni, fossero già decise è un eufemismo. Più che mai, ognuno si accampava sulle proprie posizioni, tuttavia l’attacco agli ospedali e alle scuole non ha solo esacerbato tali posizioni fino al punto di non ritorno, ma sta sfociando in qualcosa di diverso e investe un’opinione pubblica molto più vasta.

Non si può avere alcuna simpatia per Hamas, Hezbollah, l’Iran e i paesi arabi dove vige l’impiccagione e la decapitazione, ma Israele la sta facendo troppo sporca. Senza dubbio un giorno potremo valutare con maggiore precisione il numero delle vittime, con il massacro terroristico freddamente perpetrato da Hamas il 7 ottobre in Israele e la distruzione di Gaza a fare da specchio, ma questa volta è diverso.

Nell’era dei social network onnipotenti, dei deepfake, dell’intelligenza artificiale, della paranoia consolidata come dogma e della propaganda a tutto campo, tutti fanno del loro meglio per fornire la prova delle bugie dell’avversario. Quando ognuno ha la propria verità, la realtà non ha più importanza. Ma, ripeto, questa volta è diverso: Israele ha perso la faccia. 

domenica 19 novembre 2023

Cornute e mazziate

 

Questa sera, in un cinema di periferia, al modico prezzo di 4,5 euro (la vecchiaia offre qualche modico vantaggio), ho visto il tanto celebrato film C’è ancora domani di Paola Cortellesi. Buona prova tecnica della regista e grande sua interpretazione nel ruolo della protagonista (Delia). Un film in bianco e nero, ricco dei più vieti stereotipi, a tratti fin troppo lezioso e macchiettistico, perfino fiabesco (l’episodio dell’esplosione del bar). Incentrato su un tema giustamente molto sentito dalle donne, ossia i maltrattamenti subiti da Delia in famiglia da parte di un marito manesco (Valerio Mastandrea), in realtà punta a veicolare un altro messaggio, che traspare nel fatto che non vi è alcun nesso logico-narrativo tra la trama del film (le volenze subite da Delia) e il suo finale a sorpresa, laddove lo spettatore attende il riscatto della vittima e invece si trova in un seggio elettorale. Dunque un film di propaganda politica contro l’astensionismo elettorale. Un film la cui sceneggiatura poteva essere scritta da un Valter Veltroni, per intenderci. Un film che piace anche a Famiglia Cristiana (in fin dei conti Delia si rassegna alla situazione familiare) e centra il bersaglio: al termine della proiezione il pubblico applaude, soprattutto le donne. Cornute e mazziate, come usa dire da qualche parte.


sabato 18 novembre 2023

L'orologio

 

Bisogna uscire dal bosco dell’apatia, non possiamo darla vinta alla propaganda della paura e al trionfo dell’estrema imbecillità. È proprio l’abituarsi alla catastrofe che aumenta il nostro senso di impotenza. Poi ti guardi intorno e vedi che non c’è più nulla da dire sulla portata della catastrofe politica, sociale, culturale, mentale del nostro tempo. Impossibile prendere parte, tutto diventa così inospitale, le difese della ragione cedono una dopo l’altra per sfinimento. Le nostre certezze rassegnate finiscono inevitabilmente per disintegrarsi contro una criminale devastazione. E chiedi: che ore sono sull’orologio del giudizio universale?

venerdì 17 novembre 2023

Il vuoto

 

Mi rivolgo ai sanzionatori. Quelli che riescono a commuovermi quando invocano, in nome della giustizia e l’universalismo dei diritti, della libertà e della democrazia, sanzioni economiche contro dittatori e malfattori (non tutti, ovvio). Siamo arrivati al dodicesimo pacchetto di sanzioni contro la Russia. Se credono, possono continuare così, con altre infornate di sanzioni. Mai ho speso una parola contro queste sanzioni, salvo criticarne la scarsa efficacia. Ora, però, un piccolo, modesto pacchetto di sanzioni, anche solo come pura tattica, minaccia senza effetti reali, lo dovreste promuovere per Israele. Per dare almeno l’idea che non siete solo degli ipocriti, che in fondo, anche se molto in fondo e raschiando, vi è rimasto un po’ di onore. Ci sarebbe più umanità in questo gesto che nella maggior parte di ciò che vediamo, leggiamo e sentiamo in questi giorni.

Il vuoto di umanità non è mai stato così pieno.

giovedì 16 novembre 2023

Ci costerà di meno

 

Il biologico. Qualunque cosa ormai è “bio”. Ovviamente anche le uova, il latte che non è latte e via di seguito. Anche le orate sono “bio”. È un’esperienza che facciamo tutti al supermercato e ovunque. Se devi investire in un’attività produttiva o commerciale, meglio sia “bio”. Una garanzia di successo.

Ovviamente ci sono anche le fiere del “bio”, con relative tavole rotonde. Un naturopata (?!), un uomo coraggioso e determinato a darci i suoi consigli per curare tutte le malattie. Per un’ora è un vero e proprio inno a un certo “principio attivo”, sputacchiato in un microfono mal accordato, davanti a un pubblico attento che acquista direttamente su Amazon i prodotti consigliati. Lui stesso prende dai 6 ai 7 g di quella roba al giorno, e funziona! La prova è che non ha il cancro “e ha una vista eccellente”. Ma zitti! “L’industria farmaceutica non vuole che tu lo sappia, perché devi continuare a stare malato”.

La cura più curiosa è quella proposta da due “dottoresse” (in pedagogia, lettere, ... ?), che ti spiegano la loro terapia a base di “fotoni”. Posso anche rivelare dove hanno il loro “ambulatorio”: Castelfranco Veneto. Prezzi modici: 90 euro a seduta, salvo la prima “visita”, che costa 200 euro.

Ma c’è anche chi ti suggerisce di esercitarti a camminare a piedi nudi per “stabilizzare la catena muscolare”. Eh, quant’è importante la “catena” per il nostro benessere. Tutte le stronzate biologiche riunite in un solo posto.

La folla si accalca allo stand dove ti promettono una “valutazione per misurare in tempo reale la tua biodisponibilità agli oligoelementi e minerali nonché l’intossicazione da metalli pesanti dei tuoi tessuti”, oppure in quello dove ti garantiscono una buona igiene dentale grazie all’acqua biodinamizzata o anche in quell’altro che vende lampadine “a spettro ionizzante completo”.

Naturalmente non manca chi ti converte alla medicina olistica, alle cure per le vescicole gialle, all’agopuntura senza aghi e alle rune vichinghe. Pezzi di plastica per “informare ed energizzare l’acqua”, protezioni contro le onde elettromagnetiche, generatori di ioni negativi, calendari biodinamici ...

All’uscita la ciarlataneria continua. Un tizio distribuisce volantini per esortarci ad “aprire gli occhi” perché i “Maestri di Saggezza con a capo Maitreya” si preparano a ritornare sulla terra. Se nella tua vita non ti basta salvia, rosmarino e lattuga, puoi trovare il team di Maitreya Natura, come “ambasciatori della natura”.

E invece, ti assicurano, l’agricoltura biodinamica (da non confondere col biologico) è una cosa seria: “olistica, rigenerativa e positiva”. Senza la biodinamica (ossia un metodo esoterico) il mondo diventerebbe un deserto, ma grazie alla biodinamica il pianeta si potrebbe salvare. Dobbiamo evocare le energie cosmo-telluriche, affidarci all’antroposofia, alle forze delle stelle e dei pianeti, ottenere l’armonia con l’influsso vibratorio del Sole, della Luna, di Venere e Mercurio.

Mi ricorda l’omeopatia, gli approcci ideologico/religiosi, il freudo-lacanismo, quelle robe lì. Se fumi tabacco “biologico” e bevi alcol “biodinamico”, anche il cancro sarà biologico e biodinamico. Mentre se fumi tabacco convenzionale e bevi alcol convenzionale, ti verrà solo uno sfortunato cancro convenzionale! Ci costerà comunque un po’ di meno.

mercoledì 15 novembre 2023

Dai Rolling Stones agli U2

 

La sinistra offre sempre il fianco alla reazione, anche quando ha mille ragioni. In questo caso la CGIL (e la UIL). Volete fare uno sciopero serio? Includete tutte le categorie per 24 ore. Perché altrimenti fare uno sciopero dei trasporti di otto ore sempre di venerdì? Non per fare il fine settimana lungo, ma per rompere i coglioni. Non a me personalmente, né a quelli come me che possono permettersi di viaggiare in qualunque altro giorno. A tutti gli altri, specie a chi lavora. Non da oggi, ma da sempre.

Lo stesso giorno, Moody’s emetterà il suo giudizio sulla sostenibilità del debito pubblico italiano. Altro che week-end lungo, se il giudizio sarà negativo, come penso sia probabile, sarà un lungo week-end prima di un possibile sisma del nostro debito (la prossima settimana, speriamo di no). Sono trent’anni che si taglia la spesa sociale, e tuttavia il debito pubblico non ha mai smesso di crescere. Il motivo principale è questo: più della metà degli italiani non dichiara redditi. Dell’altra metà che dichiara, fatti salvi i salariati e pensionati, la maggioranza è costituita da evasori a vario titolo e capacità.

Poco importa se evadono per volontà o necessità. Il tradizionale argomento che sostiene che esiste evasione fiscale perché le tasse sono troppo alte, non regge alla realtà.

Scrive il Manifesto: «Questo governo, più che da una forza intrinseca, è sorretto da una legge elettorale truffaldina e dall’assenza di una sinistra». No, non è assente la sinistra. Né tantomeno è assente la destra. Entrambe sono in non piccola misura costituite (sono i numeri che parlano) da un elettorato che non dichiara reddito e da coloro che ne dichiarano solo una parte. È su questo elettorato attivo che regge la finta alternanza destra/sinistra.

Questo è dimostrato dal fatto che negli ultimi trent’anni (ma anche prima) sia la sinistra e ovviamente la destra non hanno trasformato le basi del sistema fiscale che rimane segnato, da un lato, da meccanismi complessi e farraginosi che incoraggiano la frode e l’evasione fiscale dei soggetti privilegiati, dall’altro da una tendenza neoliberista che favorisce le grandi imprese.

È meraviglioso vedere i giornali e le televisioni dei padroni miliardari strombazzare che è inevitabile riformare le pensioni non più sostenibili, che è urgente ridurre la spesa pubblica (improduttiva!) per ridurre il debito pubblico mentre ricevono milioni di euro in aiuti pubblici per sostenere i loro giornali e network, quindi agevolazioni fiscali per altre loro società. Quante società quotate in borsa, quante famiglie tra le più ricche, quelle dei principali azionisti delle società che beneficiano della gli aiuti pubblici, hanno un conto offshore nei paradisi fiscali (legali) europei ed extraeuropei?

Il ruolo dei paradisi fiscali va ben oltre gli echi degli imbrogli finanziari che ci arrivano: rappresentano pilastri essenziali della globalizzazione economica. Ciò riflette la natura sistematica dell’evasione fiscale praticata dai più ricchi, che è una patologia del capitalismo e una condizione intrinseca della società borghese.

Riporto un esempio quasi spiritoso che ha ad oggetto due noti complessi musicali. Il 2005 fu un anno eccezionale per il gruppo U2, con utili netti stimati in 217 milioni di euro. Tutto andava bene per Bono e la sua banda, finché la loro patria d’origine, l’Irlanda, che offriva agli artisti l’esenzione dal pagamento delle tasse, decideva di limitare l’esenzione fiscale. Bono, fino ad allora noto per la sua lotta per la cancellazione del debito dei paesi più poveri, cedeva subito la gestione degli utili del gruppo a una società olandese, la Promogroup. Tra i suoi clienti figuravano già i Rolling Stones che, grazie ai loro buoni consigli su come utilizzare al meglio la legislazione fiscale delle Antille olandesi, hanno un’aliquota fiscale negli ultimi vent'anni pari a... 1,6% del loro reddito.

Che fare?

 

C’è chi per attirare l’attenzione su di sé le deve sparare sempre più grosse. Tipo Lenin che “saccheggia” ernyevskij. Chi vuoi che vada ad eccepire, a contestare una frase così, buttata là. Ci vorrebbero mille e mille parole per farlo per bene. E poi, al giorno d’oggi, per il 99% di chi legge ernyevskij chi era? Un Carneade vissuto in Russia tra il 1828 e il 1889.

Secondo l’opinione di molti sui contemporanei – sia tra gli ammiratori di ernyevskij che tra i suoi più accaniti critici – nessun’altra opera, nessun romanzo di Turgenev o Dostoevskij, nessuno scritto di Tolstoj ebbe un’influenza così palpabile sulla società russa e sui lettori dell’epoca come il suo romanzo del 1863, Che fare?

Certo, anche Lenin, giovanissimo, ne fu influenzato. Ne mutuò il titolo per un suo celebre saggio politico. Ma da qui a dire che Lenin “saccheggiò” ernyevskij, ce ne corre. Più interessante sarebbe indagare l’impatto che la letteratura aveva sul comportamento individuale nella vita quotidiana di allora. Oggi non più, ci sono gli influencer (che non ho ben capito chi siano e che cosa facciano, ma è un problema mio).

La vera avventura di una vita non è necessariamente spettacolare, ma quella di ernyevskij e del suo romanzo lo fu, eccome. Con la morte di Nicola I e l’ascesa al trono di Alessandro II, che allentò le misure di repressione politica dopo le rivoluzioni europee del 1848-1849 e intraprese importanti riforme politiche e sociali (la più importante l’abolizione della servitù della gleba, febbraio 1861), gli anni che seguirono furono un punto di svolta nella storia culturale russa.

Il sentimento generale degli anni Sessanta dell’Ottocento era quello di una “nuova era”, un’era di liberazione e di rinnovamento spirituale. Un qualche parallelismo si può tracciare con gli anni Sessanta del Novecento per quanto riguarda l’Occidente (ma non solo). In entrambi i periodi storici ciò che accadde fu visto come una serie di eventi simbolici di portata mondiale, che aprirono la strada a nuove concezioni politiche e sociali, etiche ed estetiche, fino ad investire le modalità dei rapporti umani e le abitudini della vita domestica.

Insomma, sia negli anni Sessanta dell’Ottocento e poi in quelli del Novecento, si discuteva attivamente sulla necessità di riforma e rinnovamento in tutte le sfere della società, pervasi da un comune sentimento di sradicamento sociale e da uno spirito di opposizione generalizzata all’ordine esistente, di rifiuto radicale del “vecchio mondo”, delle sue credenze e delle sue tradizioni. Oggi tutto ciò è lontano anni luce.

Non deve dunque sorprendere l’influenza che ebbero su quel clima sociale ed intellettuale personaggi come il “vecchio” Bakunin, Herzen, Turgenev o Belinski. A proposito di quest’ultimo: tutta l’intellighenzia riconosceva che era la letteratura a costituire l’avanguardia del realismo: il realismo russo come movimento intellettuale apparve nel campo delle lettere attraverso le opere del critico letterario Vissarion Belinski († 1848).

Un posto specifico nella storia di quell’epoca appartiene, appunto, a ernyevskij, il quale esercitò un’indubbia influenza politica e fu un ardente propagandista del materialismo nell’epistemologia e nell’estetica, nell’etica utilitaristica e nella politica antiliberale. La letteratura era quasi universalmente considerata una “guida alla vita” onnicomprensiva (parole di ernyevskij) e una forza trainante per il progresso sociale e storico. È del tutto naturale che il giovane Lenin, nato nel 1870, aderisse al romanzo di ernyevskij, poiché proponeva un programma di comportamento positivo, coerente e globale, dagli atti sociali importanti ai più piccoli dettagli dell’organizzazione domestica.

ernyevskij fu definito un “profeta della generazione più giovane”. È interessante notare che il profeta degli anni Sessanta dell’Ottocento non era il poeta (come ai tempi del romanticismo), ma il giornalista di spicco (o “pubblicista”), un ruolo che combinava le attività e le competenze di critica letteraria, divulgatore scientifico e attivista pubblico.

Il romanzo Che fare? ebbe un successo strepitoso, la sua influenza fu colossale. Il prezzo d’acquisto passò da 25 rubli nel 1860 a 60 rubli alla fine del secolo, una somma enorme per l’epoca. Racconta di un’utopia sociale oltre che sentimentale: la trama si basa su quella che è fondamentalmente una complicata storia d’amore con un forte background femminista. L’eroina, Vera Pavlovna, è una normale ragazza pietroburghese di origine piccolo-borghese, che soffre del dispotismo familiare sotto il tetto della madre avida e senza scrupoli.

Sebbene il tema centrale del romanzo fosse la riorganizzazione dei rapporti tra i sessi, sia l’autore che i lettori ne trassero l’idea di una riorganizzazione di tutti i rapporti sociali. Ebbe un’enorme influenza su diverse generazioni di russi, e fu il romanzo più decisivo nella formazione del giovane Lenin. Tuttavia, bisogna usare molta cautela prima di inferire che Lenin “saccheggiò” ernyevskij. Detto così rientra nel novero delle solite sciocche frasi ad effetto di un giornalismo da strapazzo (il 99 per cento).

Sto ultimando la biografia su Aleksandra Kollontaj, scritta da Hélène Carrère d’Encausse e pubblicata da Einaudi quest’anno. Un libro da non perdere. Racconto succintamente che cosa m’è capitato in una delle maggiori librerie del profondo Veneto. Ho chiesto una copia del libro. L’addetto mi guarda: ”È un libro di nicchia, non penso ne abbiamo una copia in casa”. Replico: “Di nicchia un libro dell’Einaudi uscito quest’anno?”. Di rimando: “Beh sa, è un genere che non va molto”. Quindi, frugando nel computer, palesemente stupito e quasi incredulo: “Mi sbagliavo, ne avevamo una copia, venduta ieri!”. Guarda caso, mancata per un soffio. “Vede – concludo – non è poi un libro così di nicchia”. I tempi son questi, che fare?

martedì 14 novembre 2023

Un settore industriale che non conosce crisi

 

Un aneddoto storico, prima che cambiate canale: Voltaire è conosciuto come uno degli autori più pacifisti e umanitari per i suoi intramontabili riferimenti contro la guerra in Candide e per le sue vigorose campagne sui diritti umani contro i processi iniqui, la tortura e la pena di morte. Ma Voltaire non fu brillante solo in termini artistici e politici, aveva anche uno spiccato senso degli affari. Silenziosamente costituì un importante patrimonio non grazie alla scrittura e alle sue commedie, ma grazie a lucrosi affari: fornendo uniformi all’esercito francese.

Voltaire aveva beneficiato legalmente di ciò che gli specialisti chiamano “economia di guerra”, ossia il sistema che consiste nel produrre, mobilitare e stanziare risorse per alimentare la violenza.

Qual è il ruolo delle multinazionali nel creare e mantenere delle situazioni di conflitto armato? Sappiamo molto bene che la guerra può essere sia economica che politica. Le multinazionali non sono solo attori economici, ma anche attori politici, e in particolare geopolitici. Le grandi imprese si sono infatti internazionalizzate e competono con l’esercizio del potere e della forza da parte degli Stati. Non ultime, tutt’altro, le multinazionali del comparto degli armamenti e delle forniture militari.

Alcune multinazionali possono avere un progetto essenzialmente economico per il raggiungimento del quale usano la violenza e la politica (vedi il caso del rovesciamento di Mossadeq o di Gheddafi), o un progetto essenzialmente politico per il quale la violenza serve loro a prendere il controllo economico necessario per finanziarlo (diamanti, oro, terre rare nelle guerre africane).

Le risorse economiche non spiegano mai completamente un confronto politico, ma sono innegabilmente al centro di numerosi conflitti armati, ultimi quello in Ucraina e quello in Palestina. La guerra è sempre stata uno strumento di strategia economica e un mezzo di arricchimento. “Commercio e cristianesimo” era la parola d’ordine dell’imperialismo Britannico, così come tutti i modelli violenti di accumulazione primitiva che accompagnano lo sviluppo del capitalismo.

Ne ho già scritto nel blog, la prima multinazionale moderna, la Compagnia inglese delle Indie Orientali, aveva un esercito permanente di 200.000 soldati che mobilitò per massacri e battaglie campali, da qui la celebre espressione di Adam Smith, che descriveva la Compagnia come un “monopolio macchiato di sangue”.

Altro caso esemplare è quello della guerra in Iraq, i nuovi contratti assegnati ad aziende internazionali del settore petrolifero, costruzioni e servizi dopo il cambio di regime, insomma un chiaro esempio dei profitti realizzati dagli Stati Uniti e dai suoi paesi alleati grazie alla guerra.

Di seguito, qualche cifra sul giro d’affari delle multinazionali della guerra.

La spesa statale mondiale per gli armamenti ha superato per la prima volta i 2mila miliardi di dollari nel 2021, (+0,7% sul 2020 e +12% sul 2012, in termini reali), raggiungendo il massimo storico di 2.113mld (pari a 5,8mld al giorno, il 2,2% del PIL globale). Il 37,9% di tale spesa globale fa capo agli Stati Uniti e il 13,9% alla Cina.

I cittadini che spendono maggiormente per la difesa del proprio Paese sono quelli del Qatar, Israele, Stati Uniti e Kuwait con più di 2mila dollari pro-capite nel 2021. L’Italia spendeva nel 2021 “solo” 88 milioni il giorno, oggi un po’ di più. Come richiesto dalla NATO, l’Italia sta gradualmente innalzando la propria spesa nella difesa con l’obiettivo di raggiungere la soglia del 2% del PIL entro il 2028.

Nel 2022 gli investimenti per gli armamenti sono cresciuti a una velocità più che tripla rispetto ai ricavi e i titoli azionari hanno realizzato i rendimenti più elevati. Performance di Borsa nel 2022: +34,6% rispetto al -11% dell’indice mondiale. La distribuzione di dividendi è aumentata del 5,2% sul 2021, con l’81% del totale assorbito dagli azionisti dei gruppi statunitensi.

La capitalizzazione del panel di multinazionali degli armamenti segna un +27,1%, nel 2022. Il giro d’affari (+13,3%) e investimenti (+17,5%) in crescita per tutti i settori del comparto. Le indiane Bharat Electronics e Hindustan Aeronautics, a controllo statale, le più capitalizzate, seguite dalla francese Dassault Aviation (capitale netto pari a 25,7 volte i debiti finanziari). Nel 2023 atteso un aumento del 6% dei ricavi complessivi, ma le cose possono andare meglio se il Medioriente s’infiamma.

Nel 2022 il giro d’affari aggregato dei trenta gruppi mondiali con prevalente specializzazione nella Difesa è stato di 432mld di dollari, di cui 316mld si stima siano generati esclusivamente dallo stesso comparto (+4,0% sul 2021 e +10,5% sul 2019). Il panorama è dominato dai player statunitensi con una quota del 74% del totale, seguiti dai gruppi europei con il 22% e da quelli asiatici con il 4%. Anche l’Italia sul podio dei primi dieci: Leonardo ottavo player mondiale per fatturato e 12° per investimenti, Fincantieri sesta per investimenti, entrambi contano per il 21% del giro d’affari europeo e per il 4,7% di quello mondiale. Dunque sarà bene privatizzare anche questi due gruppi industriali italiani.

I primi cinque posti per ricavi stimati generati dal comparto della Difesa sono occupati esclusivamente da gruppi statunitensi: Lockheed Martin 57,5mld di dollari, Raytheon Technologies 37,1mld, Boeing 35,6mld, Northrop Grumman 29,5mld e General Dynamics 25,9mld. In ottava posizione si colloca Leonardo 12,2mld e in 23esima Fincantieri 2,4mld.

L’incremento dei ricavi vede primeggiare la turca Aselsan (+75,0% sul 2021, società a controllo statale), davanti alle tedesche Hensoldt (+15,8%) e Rheinmetall (+13,3%) e alle statunitensi HII-Huntington Ingalls Industries (+12,1%) e Booz Allen Hamilton (+11,8%), tutte in crescita a doppia cifra. Entrambi i gruppi italiani si distinguono per un incremento superiore alla media: Fincantieri con +8,1% e Leonardo con +4,1%. Nel 2022 il rendimento azionario per Leonardo (+34,2%) è stato il quarto a livello mondiale e ottavo per Fincantieri (+11,6%). Tuttavia le due italiane sono fra le meno valorizzate dalla Borsa: Fincantieri quota 1,5 volte il capitale netto e Leonardo 0,6 volte. Sarà proprio il caso di approfittarne e privatizzarle.

(Fonte: Mediobanca)

lunedì 13 novembre 2023

L’eternità non ha bisogno ...

 

«La questione più piccola è Taiwan, e quella veramente decisiva è il mondo» (Mao Tze Tung» (*).

La contesa sino-americana, la guerra in Ucraina e il subbuglio in Medioriente sono la rappresentazione di un contesto di tensioni globali che riemergono in un momento in cui il mondo è diventato un vasto luogo di spaccature e il rischio di passare da un mondo fratturato a un mondo esplosivo non può più essere escluso, tutt’altro (**).

Se l’Occidente non è più lo scriba della storia, il resto del mondo non è ancora nella posizione di scrivere il resto. E non è detto che in futuro ci riesca, proprio nel senso che una guerra mondiale è oggi un tipo di conflitto che in nessun caso potrà essere circoscritto alle sole armi convenzionali.

Lo sconvolgimento economico e politico è accompagnato da uno sconvolgimento sociale non più a lungo contenibile, che aspetta solo l’occasione per deflagrare. Se proprio vogliamo tracciare un’analogia con un altro periodo prebellico, sappiamo bene a quale periodo riferirci.

In un post del 25 marzo 2015, scrivevo: «La lotta per la spartizione del mondo fu la causa principale del conflitto bellico 1914-1918 che costò la vita a milioni di persone, cui s’aggiunse l’epidemia di “spagnola” che falcidiò la popolazione debilitata a causa della guerra, con circa 50 milioni di morti su una popolazione mondiale che era un quarto di quella attuale».

Ancora una volta, sullo sfondo del conflitto ucraino, della contesa sino-americana e così di tutto ciò che fomenta tensione globale c’è la lotta per la spartizione del mondo. Non c’è da stupirsi, si tratta pur sempre della lotta per la supremazia. Chi vince piglia tutto. Solo che stavolta possono perdere tutti.

E l’Europa di Adenauer, Schuman, De Gasperi, Delors e Prodi, che fa oggi l’anatra zoppa? I capi di Stato e di governo hanno discusso per cinque ore per stiracchiare una posizione comune sul conflitto tra Israele e Hamas. I Ventisette sono riusciti solo a mettersi d’accordo sulla richiesta di creare “corridoi umanitari” a Gaza e “pause per bisogni umanitari”. L’idea di chiedere una pausa per “motivi” umanitari è stata considerata troppo vicina ad un appello al cessate il fuoco (***).

“Le luci si sono spente sull’Europa e la nostra generazione non le vedrà riaccendersi”.

Quanto al conflitto israelo-palestinese, con la religione come fondamento non ha possibilità di finire. Perché la religione è eternità, e l’eternità non ha bisogno di un cessate il fuoco.

(*) Menorandum of Conversation: Beijing, October 21, 1975; Foreign Relations of the United States (FRUS), vol. XVIII (cit. da H. Kissinger, Cina, p. 278).

(**) Il 21 febbraio 2015, scrivevo: «...vediamo come la crisi Ucraina presenti delle caratteristiche diametralmente opposte a quella cubana, e, all’opposto, per nulla favorevoli a una soluzione pacifica della crisi. Lì è minacciata la sicurezza nazionale russa; le forze convenzionali russe sono preponderanti; vi è stata una palese violazione delle norme principali di coesistenza (tranne che per i media occidentali, ovviamente); sono in atto dei combattimenti. E, fatto non trascurabile, è cambiata la strategia geopolitica e la qualità delle élite occidentali e orientali odierne è assai scadente. Oggi invece di grandi leader carismatici d’un tempo abbiamo dei banchieri, e non conosco un solo banchiere che sia carismatico e abbia un cuore».

(***) Le Monde: «...les Vingt-Sept n’ont pu se mettre d’accord que sur l’appel à l’établissement de « corridors humanitaires » à Gaza et à « des pauses pour nécessités humanitaires ». L’idée d’appeler à une pause pour raisons humanitaires a été jugée trop proche d’un appel à un cessez-le-feu.»

Se l'avessimo saputo

 

Ieri sera, un canale televisivo ha trasmesso un filmato di quasi vent’anni fa. Senza avvertire il pubblico dell’evidente errore, senza scusarsi del disservizio. Tuttavia si trattava sì di un vecchio filmato, ma inedito. Nessuno l’aveva mai visto prima, forse nemmeno i responsabili del canale televisivo. Il pubblico è rimasto dapprima interdetto, poi agghiacciato.

Un filmato di quesi veni anni fa ci raccontava cose che sarebbero accadute solo in seguito. Premonizione, vaticinio, lungimiranza, genio.

Ebbene, oggi, grazie a quel filmato televisivo mostrato accidentalmente ieri sera, oltre ad avere la conferma ufficiale che il Movimento 5 Stelle era innanzitutto l’emanazione di un’azienda informatica, sappiamo come fu scelto l’uomo che per anni avrebbe guidato il Paese, tra l’altro nel pieno di un’emergenza pandemica di straordinario impatto sociale ed economico.

Ci ricordiamo tutti ciò che accadde solo cinque anni or sono, nel 2018, dopo le elezioni. Ci vollero due mesi e mezzo di incontri, trattative, psicodrammi vari, giuramenti quasi amorosi e deliranti scene domestiche, perché la Lega e il Movimento 5 Stelle, i due grandi vincitori delle elezioni del 4 marzo, che allora sembravano fatti per vivere insieme, varassero un governo comune attorno a un presidente del Consiglio di cui nessuno sapeva assolutamente nulla.

Non solo quel filmato ci ha edotti sui criteri che hanno portato a quella scelta, ma ci è stato segnalato, en passant, quanto sia pericolosa l’intelligenza artificiale e la raccolta dei nostri dati personali. E chi ce lo diceva in quel filmato di quasi vent’anni fa? Beppe Grillo, proprio lui in persona.

All’inizio c’era un uomo appassionato di Internet, Gianroberto Casaleggio. Questi vede un comico all’uscita di uno dei suoi spettacoli e gli spiega perché Internet sconvolgerà la politica. Non convinto, Beppe Grillo accetta tuttavia di seguire il suo interlocutore nei meandri dei suoi pensieri. Finisce così che Grillo diventerà il guru non tanto del M5S, ma il guru politico di un’azienda, la Casaleggio Associati. Questa società è la prima ad intraprendere una meticolosa raccolta di dati sugli elettori italiani. Il fatto non è unico: Barack Obama aveva già fatto molto affidamento su questo tipo di metodo per assicurarsi la sua elezione, poi ci penserà Cambridge Analytica per Trump.

Tutta l’organizzazione del M5S era concentrata su un unico obiettivo: raccogliere dati. Con innanzitutto il sito di Grillo, allora il blog più potente e influente: beppegrillo.it. Sono nate anche molte piattaforme digitali per succhiare dati, dai siti di pseudo-informazione, fino al portale Rousseau destinato agli attivisti del partito. Tutto questo gestito dall’azienda di Casaleggio. Il tesoro del movimento non erano le sue finanze occulte, ma i suoi dati nascosti.

Perché l’utilizzo dei dati permette di servire agli elettori il menu che si aspettano. Non importa la coerenza, le contraddizioni: il M5S non usava marketing politico, era marketing politico. La democrazia rappresentativa è antiquata: i dati a disposizione del movimento permettono di capire in modo molto più dettagliato cosa vogliono gli elettori, basta diffondere i messaggi e vedere come vengono percepiti e recepiti. Se gli elettori comprano il prodotto, bene, altrimenti basta cambiarlo.

Ma quale destra o sinistra, un’idea è buona o cattiva a prescindere. Collocare questo movimento su uno scacchiere destra/sinistra significa analizzare un fenomeno nuovo utilizzando vecchie griglie di lettura. Erano più avanti, dicevano, sarebbe stato un nuovo modo di governare l’Italia, con un algoritmo, e di aprire i parlamenti come si aprono le scatole di tonno.

Che peccato non aver potuto vedere quel video di quasi vent’anni fa e sentire la voce di Grillo sulla vera natura di questo pseudo-partito. O forse no, bastava ascoltare che cosa diceva Davide Casaleggio, quando parlava del movimento come se fosse un’azienda di consegne a domicilio: “Garantiamo un servizio migliore e siamo più efficienti nel portare le richieste dei cittadini alle istituzioni. [...] la vecchia partitocrazia è come Blockbuster [ex catena di videoclub], mentre noi siamo come Netflix.»

Oggi, seppure in ritardo e grazie a Grillo, per la prima volta veniamo a sapere che la tecnologia digitale non è diventata solo un mezzo per accedere al potere, è il potere. Tutte cose che del resto si potevano leggere a suo tempo in questo piccolo blog, che veniva proprio per questo abbandonato allora da quasi metà dei suoi lettori conquistati dalla merce offerta dalla Casaleggio Associati e dai suoi commessi viaggiatori. Nemo profeta in patria.

domenica 12 novembre 2023

Non erano 4 amici al bar

 


Il capitalismo, nel perseguire il proprio scopo precipuo (investimento di denaro per produrre più denaro), è una forza capace di generare produttività ed efficienza. Le nostre società sono riuscite a mettere questa forza propulsiva al servizio della produzione di beni e servizi che hanno reso la vita del maggior numero di persone più confortevole e più piacevole. Se il capitalismo è andato in questa direzione, tuttavia, è perché le nostre società lo hanno spinto in quella direzione. Lasciato a sé stesso, non sarebbe mai arrivato così lontano su questa strada. Negli ultimi quarant’anni questa pressione si è seriamente allentata.

Dalla fine degli anni ’70 i movimenti di capitale furono liberalizzati, eliminando molti dei vincoli a cui era soggetto senza misurarne le conseguenze (o forse proprio per favorirle). Acquisendo la possibilità di spostare le proprie sedi, il capitalismo ha quindi messo in concorrenza le imprese, le quali, acquistando al prezzo più basso possibile la forza-lavoro e i servizi di cui hanno bisogno, hanno eroso ruolo e status delle classi medie e di coloro che le rappresentavano, con un conseguente peggioramento delle disuguaglianze a cui non si è di fatto reagito.

L’Italia ha rappresentato un modello: invece di aumentare la qualità della produzione, si è abbassato il prezzo. Spesso ci si è accontentati di abbassare le aliquote fiscali e di rendere la manodopera più a buon mercato e più flessibile. Interi settori dell’industria sono stati distrutti dalla delocalizzazione e dall’outsourcing.

La grande trasformazione dell’economia: l’espansione delle logiche di mercato, lo smantellamento delle regolamentazioni poste in precedenza, l’ascesa del potere della finanza, il primato sempre più marcato della azionisti, di un’economia del debito, eccetera; una trasformazione inseparabile da cambiamenti nell’ordine sociale: disuguaglianze sempre più profonde e polarizzazione sociale, l’esperienza del lavoro degradata e umiliata, ripetuti attacchi contro il sistema salariale, ecc.; nell’ordine politico: metamorfosi dello Stato, ordinato a modellarsi su modelli di business; nell’ordine culturale: valorizzazione del privato a scapito del pubblico, celebrazione delle virtù della concorrenza, cambiamento permanente e movimento perpetuo, ecc..

Naturalmente, questi cambiamenti in profondità e su larga scala non sono avvenuti senza conseguenze sulla vita quotidiana delle persone, sulle possibilità loro offerte o rifiutate, sulla concezione che hanno di sé stesse, del proprio valore e del proprio ruolo nella società, stigmatizzazione dei poveri e dei disoccupati, produzione della dualità tra un “Noi” (quelli buoni) e un “Loro” (quelli cattivi), che diventa bellicosa e razzista.

Tuttavia sarebbe sbagliato e fuorviante credere che l’evoluzione totalitaria del neoliberismo, il declassamento e la decadenza di tutto ciò che rientra nel concetto di società civile, sia avvenuta per generazione spontanea, ossia per mero effetto delle immanenti dinamiche del capitalismo, oppure solo attraverso il ruolo svolto dalle grandi organizzazioni sovrannazionali, tipo il FMI, l’OCSE, l’UE, certi think tank, eccetera.

Il progetto neoliberista è stato portato avanti, in anni cruciali, da una classe minoritaria, la borghesia. Ad essere più precisi da una frazione apicale della borghesia stessa dominata da un’immaginazione di espansione e di massimizzazione continua. La sua concezione del mondo organico del neocapitalismo globalizzato è quella di imporre a tutti le pratiche di una reale e indissolubile sottomissione alle logiche del capitale industriale e finanziario.

Un programma ideologico che è un lavoro politico, di distruzione metodica di tutto ciò che è pubblico e collettivo, che tende a favorire la rottura tra l’economia e le realtà sociali; un programma neoliberista che trae la sua forza sociale dalla forza politico-economica di coloro di cui esprime gli interessi. Un’utopia concreta che, con l’aiuto della teoria economica su cui regge, riesce a pensarsi come descrizione scientifica della realtà, basata sulla concorrenza e apportatrice di efficienza.

Un programma forte e difficile da combattere perché ha dalla sua parte tutte le forze di un mondo di potere, il coinvolgimento diretto, com’è a tutti noto, delle “accademie” e dei media. Sappiamo poco invece sugli intrecci del cosmopolitismo borghese, sugli stretti legami di un mondo d’innumerevoli alleanze e collegamenti tra i lignaggi, le sue connessioni transnazionali.

Resta appunto in ombra il ruolo dai circoli dove s’incontra e si riunisce questa élite, quella che forma lo zoccolo duro della coscienza di classe globale (è sufficiente leggere le interviste domenicali sul quotidiano di Confindustria a certi personaggi per rendersi conto di tale coscienza elitaria). Senza cadere a sindromi di apofenia, per farsi un’idea di chi realmente esercita un’influenza determinante sull’elaborazione ideologica e sulla direzione delle grandi cose, è sufficiente fare riferimento a questi circoli esclusivi e dedicati alla centralizzazione, aggiornamento, mantenimento e tutela delle reti di conoscenza interna delle classi dominanti di ciascun paese.

Questi circoli si sono sempre concepiti come istituzioni elitarie, ne fa parte un’aristocrazia con legami privilegiati con il mondo del management dell’impresa e della finanza, che condivide lo stesso orientamento generale in politica e in economia, ossia il medesimo pensiero di classe. Circoli ai quali si appartiene per nascita o per cooptazione, per aver frequentato le stesse scuole e gli stessi ambienti sociali, circoli ai quali i loro membri continuano a farne parte fino alla fine dei loro giorni anche quando smettono di frequentarli.

Non tutti i circoli sono uguali, ovviamente. La diversità tra gli organismi della socialità mondana è un indicatore delle principali linee di divisione tra le diverse frazioni della classe dominante. A un livello più esclusivo vi sono delle enclave caratterizzate da un’oligarchia tecnocratica e aziendale dotata non solo di capitale sociale e simbolico ereditario ma soprattutto di capitale economico e, in misura minore, culturale.

Per esempio, all’inizio del secolo, allo scadere di uno dei momenti più cruciali di trasformazione di cui s’è detto, tra i presidenti dei primi 100 gruppi industriali e commerciali italiani, 98 erano uomini e 67 di loro gestivano imprese a controllo familiare. Tra questi ultimi, erano diversi i soci di un noto circolo milanese: Giovanni Agnelli (Fiat), Marco Tronchetti Provera (Pirelli e Telecom Italia), Bernardo Caprotti (grande distribuzione), Gian Marco Moratti (petrolio), Guido Barilla (alimentare), Carlo Camerana (cemento), Rocco Bormioli (vetro), Alberto Falck (energie rinnovabili). Eccetera (Classifica annuale prodotta dall’ufficio studi Mediobanca, edizione 2002).

Negli anni della grande “transizione” italiana, tale club poteva contare, tra gli altri, anche molti banchieri d’affari, come Gabriele Galateri di Genola (Mediobanca) o Gerardo Braggiotti, considerati allora i kingmakers del capitalismo cisalpino; avvocati d’affari, come Marino Bastianini e Alberto Rittatore Vonwiller, che dirigevano il più grande studio legale italiano (Carnelutti SLA); e i capataz della stampa come Carlo Caracciolo di Castagneto (La Repubblica); oppure Luca Cordero di Montezemolo, presidente della Ferrari (Gruppo Fiat), che nel 2004 assumeva la guida di Confindustria.

Lo stesso club meneghino, nel 2001 incarnava un modello di elitarismo su scala nazionale e internazionale: il 18% dei suoi membri aveva la residenza principale in una regione italiana diversa dalla Lombardia e il 13% all’estero. Una rete di conoscenze e relazioni può essere mobilitata in molteplici modi, non pianificati in anticipo. Le possibilità di cooperazione e di partnership professionali che ciascun gruppo sociale può mettere a disposizione dei propri affiliati dipendono dalle forme elementari del capitale sociale di cui ogni ambiente di conoscenza reciproca è una combinazione unica, cosa che in certa misura si può sperimentare anche in sodalizi assai più circoscritti e di più modesto peso sociale.

Perciò è chiaro che un gruppo denso di conoscenze reciproche come gli affiliati ai club, e segnatamente al club al quale qui alludo, uniti da forti legami e da tempo affermati come classe dominante (e la cui identità è, di conseguenza, consolidata), non avevano come comune interesse solo lo sport, il gioco del golf o al biliardo francese, le belle case o le agapi clandestine. Magari potevano buttar giù, durante le discussioni accanto al fuoco di legna scoppiettante, qualche idea di strategia politica, economica e d’ingegneria sociale. Certo, dato il loro peso economico, politico ed editoriale specifico, non lo facevano come lo potevano fare quattro amici al bar.

N.B. Il club a cui ho fatto allusione nel post non è il Rotary o i Lions, a cui basta il meglio di ogni categoria professionale, dal grande avvocato al grande ... spazzino.