La bozza di riforma costituzionale di cui si discute in questi giorni dovrebbe portare, una volta approvate le modificazioni alla Carta, a un premierato forte che darebbe stabilità al sistema politico e governativo, premessa fondamentale, secondo gli squinternati proponenti della riforma, per il rilancio dell’economia italiana.
Premesso che è una simile forma di premierato non esiste in nessun’altra parte del globo, essa mi ricorda, pur con tutte le differenze storiche e di situazione, il premierato del cavalier Benito Mussolini. Il quale però, un giorno alla settimana, doveva presentarsi davanti a V.E. III, battere i tacchi, informarlo e ragguagliarlo, quindi sottoporgli i decreti per la firma.
Ma ciò che m’interessa di più mettere in luce, non è l’aspetto tecnico/costituzionale della riforma ancora in bozza, quanto l’aleatorietà della motivazione che la supporta, secondo programma politico elettorale dell’attuale maggioranza, che recita: «da decenni l’Italia cresce meno della media europea. L’instabilità politica è anche uno dei principali fattori del nostro declino economico. Assicurare governi stabili, grazie al presidenzialismo, non è una misura astratta: è la più potente misura economica di cui necessita l’Italia».
Come si vede, tra l’altro, si puntava al presidenzialismo e non al premierato forte. Ma questi, visto con chi abbiamo a che fare, sono dettagli. È la favola della stabilità dei governi, che dovrebbe consentire la ripresa economica, che non regge. Dal 1948 al 1972 si possono contare ben 24 governi. Era l’Italia del boom economico, di alcune grandi riforme che in buona sostanza sono le uniche di cui possiamo vantarci.
Quelli che non sono posti in luce (ma sarebbero in grado di farlo?) sono i reali motivi del declino economico, sociale e civile italiano. Dal punto di vista storico, la crisi della grande industria cominciò a farsi sentire in Italia a partire dagli anni settanta sotto l’effetto di un duplice shock: quello salariale legato alle conquiste operaie, che misero fine ad uno sviluppo favorito dal basso costo del lavoro, e dallo shock petrolifero del 1973, che espose un paese privo di materie prime e di risorse energetiche alla spirale inflazionistica e alla recessione.
Verso la metà degli anni ‘80, negli anni dell’affermazione dell’Italia come quinta potenza industriale del mondo, i segnali di declino delle più antiche concentrazioni manifatturiere non apparivano ancora come un’emergenza nazionale, tanto più che tale declino si è manifestato gradualmente ed è stato attenuato dai generosi strumenti dello Stato sociale.
Tanto per dire, a cavallo tra i ’70 e gli ’80, la Fiat era in forte ripresa di ordini e di profitti, tuttavia nel 1980 a pagarne il conto furono i 23.000 operai Fiat, la maggior parte dei quali non tornò più alla produzione. Vi fu un profondissimo rinnovamento dei mezzi di produzione ed un rimescolamento delle mansioni e dell’organizzazione del lavoro. Si trattò di rendere più competitivo il sistema industriale italiano aumentando la diffusione di nuove tecnologie. Chiusure o licenziamenti avvenuti in centinaia di piccole medie fabbriche in quegli anni lasciarono una lunga teoria di disoccupati. Vale ancora l’esempio della Fiat: in poco meno di dieci anni il numero dei dipendenti si dimezzò e tra loro si diffusero disillusione, risentimento e scoraggiamento.
Tutto ciò ridefinì e rimodellò tutta l’articolazione della struttura sociale e della composizione di classe. Le premesse per la sconfitta della sinistra e la crisi del sindacato c’erano tutte. Un ruolo importante in questa svolta spetta alla pubblica informazione: cala il silenzio sui lavoratori espulsi dall’industria e sulle loro lotte. Questi ultimi sono presentati come i difensori di un mondo ormai sconfitto, di un modello di sviluppo insostenibile e dannoso, mentre i sindacati, indeboliti dalla crisi dei “partiti operai”, cominciano a essere percepiti dai lavoratori non più come organizzazioni in lotta per il lavoro ma come delle aziende a sé stanti che puntano a far passare la riforma del salario (legata alla produttività), la modifica della scala mobile e la gestione dell’inquadramento unico.
È proprio la riforma del salario direttamente legata alla gestione dell’inquadramento unico il punto irrinunciabile del famoso Piano Triennale (Piano Pandolfi). Con l’inquadramento unico il padronato poté dare inizio a quella che verrà chiamata “mobilità selvaggia” aumentando il cumulo delle mansioni. Scatta il ricatto delle assegnazioni alle varie mansioni per i passaggi di livello. Non si tratta più di valorizzare un mestiere che non esiste più nella fabbrica moderna, ma di premiare la disponibilità del lavoratore ad adattarsi e a collaborare all’innovazione, alla mobilità, all’aumento dei ritmi, eccetera.
Ciò nonostante, il declino industriale della grande industria del Nord-Ovest divenne un fenomeno davvero percepibile, e il “sistema Italia” poteva ancora reggere grazie a un boom industriale di una fittissima rete di piccole e medie imprese familiari, dove l’estrazione del plusvalore relativo diventava una componente determinate. Questo “capitalismo molecolare” del Nord-Est ha consentito all’Italia di mantenere una quota di industria nella propria economia superiore a quella degli altri paesi europei, grazie ad un modello di specializzazione produttiva flessibile e decentrata in un mercato che si stava globalizzando in accelerazione.
Nel 1992-1993 l’Italia attraversa una grave crisi politica e finanziaria, durante la quale scompaiono i partiti storici e vengono riscritte le stesse basi istituzionali della Repubblica. La Comunità Europea vieta gli aiuti di Stato e pone un limite al debito. Lo Stato, invece di procedere a una mirata ristrutturazione del settore industriale pubblico, dismettendo le imprese decrepite ma valorizzando ciò che ancora meritava di essere preservato, di svolgere cioè un ruolo strategico e “aggregatore”, semplicemente liquidava le aziende pubbliche, comprese le banche, con una gigantesca operazione di privatizzazione.
A differenza di altri Paesi europei, lo Stato italiano rinunciava così alla gestione pubblica dei processi produttivi. Un Paese che non è dominante su scala globale o regionale, come l’Italia, senza il sostegno pubblico la sua industria è destinata a contrarsi o viene rilevata da capitali stranieri.
Le multinazionali straniere hanno acquistato aziende in settori strategici: trasporti ferroviari (Ansaldo Breda e STS), energia (Ansaldo Energia), telefonia (Telecom, Eolico, ecc.), industria design (Pininfarina), edilizia (Ital-cementi), aeronautica (Avio Aero), industria alimentare (Parmalat e altri), pneumatici (Pirelli), motocicli (Ducati), eccetera.
La presenza di capitali stranieri non è di per sé un problema, ma lo diventa quando gli interessi strategici italiani sono subordinati alle potenze straniere. Il passaggio di aziende nazionali sotto bandiera estera implica una perdita di controllo su decisioni cruciali: l’ubicazione dei siti produttivi, la ricerca, la distribuzione degli utili, il loro reinvestimento, l’elusione ed evasione fiscale, ecc.
L’Italia è al secondo posto tra gli Stati membri dell’UE per privatizzazioni di aziende pubbliche dall’inizio degli anni ’90 ed è anche uno dei rari paesi europei ad aver ridotto drasticamente il numero dei dipendenti pubblici. L’Italia ha fatto ampio ricorso a pratiche di outsourcing per i servizi pubblici locali, in particolare nei settori dei trasporti, della sanità (ormai siamo ai pronto soccorsi privati!) e dell’istruzione.
Il progressivo disimpegno dello Stato – sottoposto alle interessate ingiunzioni europee successive al Trattato di Maastricht – è stato disastroso per l’industria italiana. Settori un tempo considerati vitali (informatica, aeronautica civile, chimica, elettronica di consumo, comunicazioni, alimentare, alta tecnologia, siderurgia) hanno subito un declino inesorabile (*).
In tal modo, il contributo delle imprese pubbliche al Pil italiano è precipitato a livelli bassissimi. Uno dei pochi monopoli che ci teniamo stretti, per ragioni di tribuna politica, è quello dei cosiddetti balneari e dei tassisti.
La strategia economica dei governi si è basata essenzialmente da un lato su una politica di schiacciamento dei salari, di riforme del mercato del lavoro come il Jobs Act, di drastica riduzione della spesa pubblica per investimenti, dall’altro sulla riduzione dei vincoli amministrativi e diverse misure di sostegno alle imprese che dovevano consentire di rilanciare la produzione e promuovere le esportazioni. Tali politiche non hanno avuto effetti benefici sul rapporto debito pubblico/Pil, che ha continuato ad aumentare a causa della riduzione di quest’ultimo.
Aumentare la domanda pubblica è diventato illegale da quando nella Costituzione, da parte del governo Monti, è stato introdotto l’obbligo del pareggio di bilancio. Il calo dei prezzi porta ad una redistribuzione della ricchezza a vantaggio dei proventi finanziari e delle imprese esportatrici. Dopo il covid-19, il forte aumento dell’inflazione ha avuto l’effetto di penalizzare ancora di più i redditi da lavoro e le pensioni, dunque la domanda interna.
Per quanto riguarda il PNNR, avrebbe dovuto portare una buona dose d’ossigeno per quanto riguarda gli investimenti pubblici, ma va rilevato che chi ha firmato tale accordo doveva essere palesemente ubriaco (se non peggio), per i tempi ristretti in cui tali finanziamenti sono stati previsti e per la mancata adeguata preparazione a livello tecnico- amministrativo perché tali finanziamenti andassero a buon fine. Così ci troveremo con altro debito pubblico aggiuntivo e con poche e anche discutibili realizzazioni infrastrutturali.
Ecco dimostrato, penso, che il postulato su cui s’incentra la riforma che dovrebbe stravolgere la Costituzione, è falso e antistorico, così com’è manipolatoria l’ideologia che accompagna le ambizioni di potere di questa destra capeggiata da una leader fin troppo sopravvalutata (come tutti i suoi predecessori) per capacità e vedute.
La riforma costituzionale di Meloni difficilmente andrà in porto, per varie ragioni. E tuttavia sta passando da tempo l’idea dell’esigenza di un forte esecutivo come conseguenza diretta degli effetti della disgregazione delle funzioni tradizionali di rappresentanza dei partiti politici. Sullo sfondo l’ormai decennale saldatura diretta tra economia e politica, e la dipendenza della seconda della prima. Più sottotraccia procede una ristrutturazione globale del controllo sociale secondo lo schema dispotico e totalizzante tracciato dalla vicenda del covid-19, in cui ciascun insieme sociale, come ciascun individuo, deve muoversi secondo input rigidamente regolamentati, secondo decisioni vincolanti per tutto il popolo degli esecutori.
(*) Nel 2015 l’Italia era al secondo posto in Europa e al terzo nel mondo in termini di privatizzazioni. Le aziende privatizzate (a prezzi molto favorevoli) sono quelle che generavano i maggiori profitti e dividendi: ora ne beneficiano i nuovi acquirenti e non lo Stato. In settori tradizionali del made in Italy come quello degli elettrodomestici, aziende storiche come Indesit o Zanussi sono passate sotto bandiera estera, con gravi conseguenze su occupazione e capacità produttiva. La produzione di elettrodomestici è così scesa da 36 milioni di unità nel 2008 a 13 milioni nel 2013, nel 2018 già sotto i 10 milioni.
https://www.officinadeisaperi.it/agora/il-senso-delle-parole/golpe-ci-riprovano-da-il-manifesto/
RispondiEliminama no, ma quale golpe, questi non sono in grado, al massimo un ennesimo pasticcio
EliminaPer quanto riguarda il PNRR, basta dare un'occhiata alla tavola comparativa dell'utilizzo da parte dei paesi europei per sentire il sangue che si ghiaccia nelle vene (Qui: https://www.openpolis.it/il-pnrr-italiano-e-il-confronto-con-gli-altri-paesi-europei/).
RispondiEliminaI soldi sono, come è noto, sia a fondo perduto che in prestito. Si vede bene che gli altri paesi hanno privilegiato il fondo perduto. Solo noi ci siamo abbuffati di prestiti. Il risultato è stato che poi le varie commissioni si sono scervellate per trovare che cosa fare dei fondi. E sono fiorite le bocciofile e gli stadi di calcio, che hanno riempito le cronache satiriche. Ma, purtroppo, non era tutto lì. Peggio ancora, se fosse possibile, sono i progetti di transizione verde e digitale, nei quali i rapporto costo/beneficio tende a non essere dimostrato, in base all'idea che ciò che è verde e digitale è di per sé una gran figata.
Ma, anche senza guardare al dettaglio, è sufficiente la comparazione con gli altri paesi: come mai gli unici furbi siamo noi, e ce lo lasciano fare? Io ero rimasto alla constatazione che a noi in Europa ce lo mettono sempre in quel posto, per l'eccellente motivo che i nostri uomini a Bruxelles sono gli unici a non fare l'interesse del loro paese. Invece, con il PNRR l'avremmo messo noi in quel posto a tutti.
ho potuto sistemare solo ora alcune ripetizioni e refusi sintattici. ho scritto, come d'abitudine, il testo di getto, ma la questione del PNRR l'ho chiara da anni. la borghesia italiana non è capace d'esprimere una classe politica e dirigente di livello, perciò si fanno largo gli stracciaroli, tipo Meloni, Conte, Calenda, Schlein, per tacere di peggiori ancora.
EliminaGermania: produzione industriale ancora in calo
RispondiEliminaLa produzione industriale in Germania è diminuita dell’1,4 per cento a settembre rispetto ad agosto 2023. E’ quanto emerge dai dati preliminari forniti dall’Ufficio
statistico tedesco (Destatis). Questo dato indica che la produzione è diminuita per il quarto mese consecutivo. In
un confronto trimestrale la produzione industriale da luglio a settembre è stata inferiore del 2,1 per cento
rispetto al secondo trimestre. Stando ai dati di Destatis, ad agosto la produzione è diminuita dello 0,1 per cento rispetto a luglio dopo la revisione dei risultati preliminari.
Secondo alcuni analisti, la crescita potrebbe riprendere l’anno prossimo con il calo dell’inflazione.