domenica 12 novembre 2023

Non erano 4 amici al bar

 


Il capitalismo, nel perseguire il proprio scopo precipuo (investimento di denaro per produrre più denaro), è una forza capace di generare produttività ed efficienza. Le nostre società sono riuscite a mettere questa forza propulsiva al servizio della produzione di beni e servizi che hanno reso la vita del maggior numero di persone più confortevole e più piacevole. Se il capitalismo è andato in questa direzione, tuttavia, è perché le nostre società lo hanno spinto in quella direzione. Lasciato a sé stesso, non sarebbe mai arrivato così lontano su questa strada. Negli ultimi quarant’anni questa pressione si è seriamente allentata.

Dalla fine degli anni ’70 i movimenti di capitale furono liberalizzati, eliminando molti dei vincoli a cui era soggetto senza misurarne le conseguenze (o forse proprio per favorirle). Acquisendo la possibilità di spostare le proprie sedi, il capitalismo ha quindi messo in concorrenza le imprese, le quali, acquistando al prezzo più basso possibile la forza-lavoro e i servizi di cui hanno bisogno, hanno eroso ruolo e status delle classi medie e di coloro che le rappresentavano, con un conseguente peggioramento delle disuguaglianze a cui non si è di fatto reagito.

L’Italia ha rappresentato un modello: invece di aumentare la qualità della produzione, si è abbassato il prezzo. Spesso ci si è accontentati di abbassare le aliquote fiscali e di rendere la manodopera più a buon mercato e più flessibile. Interi settori dell’industria sono stati distrutti dalla delocalizzazione e dall’outsourcing.

La grande trasformazione dell’economia: l’espansione delle logiche di mercato, lo smantellamento delle regolamentazioni poste in precedenza, l’ascesa del potere della finanza, il primato sempre più marcato della azionisti, di un’economia del debito, eccetera; una trasformazione inseparabile da cambiamenti nell’ordine sociale: disuguaglianze sempre più profonde e polarizzazione sociale, l’esperienza del lavoro degradata e umiliata, ripetuti attacchi contro il sistema salariale, ecc.; nell’ordine politico: metamorfosi dello Stato, ordinato a modellarsi su modelli di business; nell’ordine culturale: valorizzazione del privato a scapito del pubblico, celebrazione delle virtù della concorrenza, cambiamento permanente e movimento perpetuo, ecc..

Naturalmente, questi cambiamenti in profondità e su larga scala non sono avvenuti senza conseguenze sulla vita quotidiana delle persone, sulle possibilità loro offerte o rifiutate, sulla concezione che hanno di sé stesse, del proprio valore e del proprio ruolo nella società, stigmatizzazione dei poveri e dei disoccupati, produzione della dualità tra un “Noi” (quelli buoni) e un “Loro” (quelli cattivi), che diventa bellicosa e razzista.

Tuttavia sarebbe sbagliato e fuorviante credere che l’evoluzione totalitaria del neoliberismo, il declassamento e la decadenza di tutto ciò che rientra nel concetto di società civile, sia avvenuta per generazione spontanea, ossia per mero effetto delle immanenti dinamiche del capitalismo, oppure solo attraverso il ruolo svolto dalle grandi organizzazioni sovrannazionali, tipo il FMI, l’OCSE, l’UE, certi think tank, eccetera.

Il progetto neoliberista è stato portato avanti, in anni cruciali, da una classe minoritaria, la borghesia. Ad essere più precisi da una frazione apicale della borghesia stessa dominata da un’immaginazione di espansione e di massimizzazione continua. La sua concezione del mondo organico del neocapitalismo globalizzato è quella di imporre a tutti le pratiche di una reale e indissolubile sottomissione alle logiche del capitale industriale e finanziario.

Un programma ideologico che è un lavoro politico, di distruzione metodica di tutto ciò che è pubblico e collettivo, che tende a favorire la rottura tra l’economia e le realtà sociali; un programma neoliberista che trae la sua forza sociale dalla forza politico-economica di coloro di cui esprime gli interessi. Un’utopia concreta che, con l’aiuto della teoria economica su cui regge, riesce a pensarsi come descrizione scientifica della realtà, basata sulla concorrenza e apportatrice di efficienza.

Un programma forte e difficile da combattere perché ha dalla sua parte tutte le forze di un mondo di potere, il coinvolgimento diretto, com’è a tutti noto, delle “accademie” e dei media. Sappiamo poco invece sugli intrecci del cosmopolitismo borghese, sugli stretti legami di un mondo d’innumerevoli alleanze e collegamenti tra i lignaggi, le sue connessioni transnazionali.

Resta appunto in ombra il ruolo dai circoli dove s’incontra e si riunisce questa élite, quella che forma lo zoccolo duro della coscienza di classe globale (è sufficiente leggere le interviste domenicali sul quotidiano di Confindustria a certi personaggi per rendersi conto di tale coscienza elitaria). Senza cadere a sindromi di apofenia, per farsi un’idea di chi realmente esercita un’influenza determinante sull’elaborazione ideologica e sulla direzione delle grandi cose, è sufficiente fare riferimento a questi circoli esclusivi e dedicati alla centralizzazione, aggiornamento, mantenimento e tutela delle reti di conoscenza interna delle classi dominanti di ciascun paese.

Questi circoli si sono sempre concepiti come istituzioni elitarie, ne fa parte un’aristocrazia con legami privilegiati con il mondo del management dell’impresa e della finanza, che condivide lo stesso orientamento generale in politica e in economia, ossia il medesimo pensiero di classe. Circoli ai quali si appartiene per nascita o per cooptazione, per aver frequentato le stesse scuole e gli stessi ambienti sociali, circoli ai quali i loro membri continuano a farne parte fino alla fine dei loro giorni anche quando smettono di frequentarli.

Non tutti i circoli sono uguali, ovviamente. La diversità tra gli organismi della socialità mondana è un indicatore delle principali linee di divisione tra le diverse frazioni della classe dominante. A un livello più esclusivo vi sono delle enclave caratterizzate da un’oligarchia tecnocratica e aziendale dotata non solo di capitale sociale e simbolico ereditario ma soprattutto di capitale economico e, in misura minore, culturale.

Per esempio, all’inizio del secolo, allo scadere di uno dei momenti più cruciali di trasformazione di cui s’è detto, tra i presidenti dei primi 100 gruppi industriali e commerciali italiani, 98 erano uomini e 67 di loro gestivano imprese a controllo familiare. Tra questi ultimi, erano diversi i soci di un noto circolo milanese: Giovanni Agnelli (Fiat), Marco Tronchetti Provera (Pirelli e Telecom Italia), Bernardo Caprotti (grande distribuzione), Gian Marco Moratti (petrolio), Guido Barilla (alimentare), Carlo Camerana (cemento), Rocco Bormioli (vetro), Alberto Falck (energie rinnovabili). Eccetera (Classifica annuale prodotta dall’ufficio studi Mediobanca, edizione 2002).

Negli anni della grande “transizione” italiana, tale club poteva contare, tra gli altri, anche molti banchieri d’affari, come Gabriele Galateri di Genola (Mediobanca) o Gerardo Braggiotti, considerati allora i kingmakers del capitalismo cisalpino; avvocati d’affari, come Marino Bastianini e Alberto Rittatore Vonwiller, che dirigevano il più grande studio legale italiano (Carnelutti SLA); e i capataz della stampa come Carlo Caracciolo di Castagneto (La Repubblica); oppure Luca Cordero di Montezemolo, presidente della Ferrari (Gruppo Fiat), che nel 2004 assumeva la guida di Confindustria.

Lo stesso club meneghino, nel 2001 incarnava un modello di elitarismo su scala nazionale e internazionale: il 18% dei suoi membri aveva la residenza principale in una regione italiana diversa dalla Lombardia e il 13% all’estero. Una rete di conoscenze e relazioni può essere mobilitata in molteplici modi, non pianificati in anticipo. Le possibilità di cooperazione e di partnership professionali che ciascun gruppo sociale può mettere a disposizione dei propri affiliati dipendono dalle forme elementari del capitale sociale di cui ogni ambiente di conoscenza reciproca è una combinazione unica, cosa che in certa misura si può sperimentare anche in sodalizi assai più circoscritti e di più modesto peso sociale.

Perciò è chiaro che un gruppo denso di conoscenze reciproche come gli affiliati ai club, e segnatamente al club al quale qui alludo, uniti da forti legami e da tempo affermati come classe dominante (e la cui identità è, di conseguenza, consolidata), non avevano come comune interesse solo lo sport, il gioco del golf o al biliardo francese, le belle case o le agapi clandestine. Magari potevano buttar giù, durante le discussioni accanto al fuoco di legna scoppiettante, qualche idea di strategia politica, economica e d’ingegneria sociale. Certo, dato il loro peso economico, politico ed editoriale specifico, non lo facevano come lo potevano fare quattro amici al bar.

N.B. Il club a cui ho fatto allusione nel post non è il Rotary o i Lions, a cui basta il meglio di ogni categoria professionale, dal grande avvocato al grande ... spazzino.

2 commenti:

  1. Risposte
    1. la P2 più che altro millantava. la P stava per Potere. Quelli descirtti il potere l'avevano veramente.

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