Quando un po’ d’anni or sono tale Colombo Cristoforo mise piede in quello che sarebbe stato chiamato continente americano, prese possesso di quelle terre in nome e per conto dei monarchi cattolicissimi di Spagna, piantandovi relativo simbolo religioso. I reali spagnoli non persero tempo e in poche settimane dalla “notizia” fecero sancire l’acquisizione delle nuove proprietà da un Papa spagnolo con apposita bolla (Inter cœtera), che funse da base per il trattato di Tordesillas con il quale si spartirono il mondo con i portoghesi, per cui in Brasile non si parla spagnolo.
Anche il seguito è abbastanza noto: i nuovi proprietari sottomisero le popolazioni locali schiavizzandole, annientandole con nuove malattie e sterminandoli con una ferocia che aveva pochi eguali nella storia europea (guerra gallica, guerra gotica, ecc.). Liquidarono in toto le civiltà precolombiane, quella azteca, maya-tolteca, incas, eccetera. Si salvarono solo costruzioni troppo grandi per essere demolite con profitto. Fu imposto l’apartheid e la nuova religione.
Un esempio di come si mascheri e s’intrufoli nelle nostre coscienze l’indottrinamento ideologico. Un bel film statunitense, Apocalypto, per la regia di Mel Gibson. Nello Yucatán, all’inizio del XVI secolo, una coppia di cosiddetti indios, con il loro bimbo in braccio, fugge attraverso la foresta inseguita da alcuni feroci guerrieri che vogliono catturare i fuggitivi per farne vittime dei loro sacrifici umani. La fuga termina in una spiaggia, dove per la coppia e il loro bimbo non c’è più scampo, ma a questo punto c’è il colpo di scena: sulla spiaggia sono sbarcati gli alieni, gli uomini bianchi, i loro salvatori.
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Quando un po’ d’anni or sono i sionisti misero piede in Palestina, non chiesero agli abitanti locali il permesso di stabilirvisi. Motivarono la loro presenza e i continui arrivi di nuovi coloni con il fatto che in quella terra erano vissuti i loro progenitori quasi 2000 anni prima, e dunque ritenevano di avere titolo di tornarvi e trovare asilo dalle persecuzioni di cui erano oggetto gli ebrei in Europa. Ovviamente chi aveva abitato e lavorato la terra di Palestina per migliaia di anni non fu d’accordo con quell’arrivo massiccio di stranieri il cui numero aumentava.
Ne nacque una disputa a tratti molto violenta, sia da una parte che dall’altra. Solo che gli arabi palestinesi non erano sostenuti da nessuno in Europa, mentre i nuovi abitanti trovarono molti governi europei e quello americano in seguito, assai favorevoli al loro insediamento palestinese. Non solo frasi di circostanza, ma aiuti cospicui, sia da parte dei governi che da parte, come ovvio, dei loro correligionari rimasti in Europa e negli Stati Uniti.
Nel dopoguerra, le nuove Nazioni Unite decidono che ebrei e palestinesi avevano diritto di fondare un proprio Stato in Palestina. Gli arabi non accettarono questa soluzione e mossero guerra al nuovo Stato ebraico, che fu chiamato Israele, di fatto cancellando il nome di Palestina. Niente fu più improvvido da parte dei palestinesi e dei loro alleati arabi, gli israeliani non aspettavano altro. Il caso è noto: da allora non vi furono due Stati, ma uno solo, quello di Israele, che estese man mano il proprio territorio fino ad occupare quasi tutta la Palestina, insediandovi nuovi coloni anche nei territori rimasti ai palestinesi, in sprezzo alle risoluzioni delle Nazioni Unite che lo proibivano.
Questi due fatti storici, la presa di possesso del continente americano da parte degli europei e l’emigrazione massiccia degli ebrei in Palestina, con tutto ciò che ne è seguito, presenta delle analogie, che non voglio forzare, ma che sono obiettivamente rintracciabili. Che direbbero le autorità di Washington se oggi i discendenti dei cosiddetti “pellerossa” avanzassero pretese su quelli che erano in passato i loro territori? Che direbbero le autorità statunitensi se, per mero esempio, vi fossero dei discendenti di quegli antichi abitanti sparsi nel resto del mondo e decidessero di rientrare negli Stati Uniti (anche senza fondarvi un proprio Stato)?
Già sollevare una questione in tali termini, si passa per essere antisemiti, da parte soprattutto di chi vive di stipendi, spesso non proprio modesti, pagati con le nostre tasse (contributi all’editoria), con il canone in bolletta, con l’acquisto di prodotti (réclame) e altro. Vorrei sapere se tra queste grandi firme (si fa per dire ovviamente) del giornalismo vi è qualcuno che in questi giorni ha fatto richiesta formale per entrare a Gaza e documentare ciò che vi avviene.
Sappiamo che il governo di Israele, che mantiene il controllo di quella enclave abitata da oltre due milioni di civili e la sta radendo al suolo, ha vietato l’ingresso dei giornalisti. Questa è una buona scusa per non tentare di andarci. Potrei sbagliare, ma da parte di questi grandi democratici non mi pare vi sia stata nessuna protesta per tale divieto.
Qualcuno all’estero ha invitato la Federazione Internazionale dei Giornalisti (IFJ) e tutti gli altri organismi interessati alla libertà di stampa e di espressione ad adottare misure pratiche contro l’occupazione israeliana, in modo da revocare le sue restrizioni all’ingresso delle troupe dei giornalisti.
«Con giornalisti uccisi o feriti, sedi dei media distrutte, interruzioni di Internet e la minaccia di censura del canale televisivo di notizie Al Jazeera, Israele ha costantemente soppresso le notizie nella Striscia di Gaza per quasi due settimane», afferma Reporter Senza Frontiere (RSF). Che così continua: «dieci giornalisti sono stati uccisi in relazione al loro lavoro, otto dei quali a Gaza e la maggior parte, se non tutti, a causa dei bombardamenti israeliani. L’ultima vittima è Mohammad Baalouche, direttore del canale televisivo Palestine Today, ucciso da un attacco mirato alla sua casa il 17 ottobre. Oltre ai dieci giornalisti uccisi mentre coprivano la guerra, altri nove sono stati uccisi nelle loro case a Gaza a causa dei bombardamenti e degli attacchi aerei israeliani. Dal 7 ottobre, molti media sono stati completamente o parzialmente distrutti a Gaza dagli attacchi aerei».
Da allora sono passate altre settimane e l’ordine dei giornalisti nostrani se l’è cavata con un comunicato di qualche riga: «Corre veloce il contatore delle vittime civili e con esso il numero dei giornalisti uccisi, 28 in tre settimane di conflitto fra Israele e Hamas». Che bella faccia tosta questi contabili.
non vogliono neanche gli embedded, figuriamoci tanti potenziali Assange.
RispondiEliminaChi partecipa ai cortei di protesta in occidente non è certo commosso dall'informazione ufficiale. Gli assediati di Gaza stanno facendo da sé la loro denuncia al mondo mentre i nativi americani non potevano raggiungere le plebi europee, né potevano farlo i Palestinesi di settantacinque anni fa. Oggi ciascuno di noi può indignarsi e condannare come fece Bartolomé de Las Casas pertanto chi ha il potere deve combattere anche sul fronte interno. Ed anche questa volta, come per il Vietnam, il presunto egemone ha già perso prima che tutto finisca.
RispondiElimina(Peppe)