Joseph Mengele, il primario di Auschwitz, sperimentava sui deportati, ma non si deve credere che fosse contro gli omosessuali o “transfobico”. Tra i tanti diabolici armeggi, il nazista cercava i mezzi per trasformare una ragazza in un ragazzo e viceversa. Alcuni adolescenti furono operati e mutilati per sapere se potevano cambiare sesso. Ha anche iniettato certe sostanze negli occhi per cercare di cambiarne il colore. Mengele è stato un uomo del suo tempo, ma anche, a suo modo, un precursore del nostro: ossessionato dalla possibilità di modificare i corpi, la natura, di trasformare a tutti i costi l’identità di genere. Lui lo sognava; noi lo stiamo facendo.
L’analogia tra i suoi esperimenti e quelli che si stanno diffondendo oggi sarebbe evidente a un cieco. Mengele era un ciarlatano, ma i chirurghi plastici e i dottori che aiutano i giovani a trasformarsi non lo sono? I ragazzi che provano a cambiare sesso lo fanno volontariamente, liberamente; almeno lo credono, così sostiene la società medica e capitalista, questo grande mercato ossessionato dal rifiuto dei limiti e dalla paura della morte, che non si vergogna di sé. Quei giovani sono dei pionieri, ma soprattutto dei clienti.
I gemelli Mengele non volevano cambiare sesso, colore degli occhi o ospitare il virus della scarlattina per verificare se un presunto vaccino fosse efficace. Avrebbero semplicemente voluto vivere e soffrire il meno possibile. Questi topolini da laboratorio, il buon dottor Mengele, con i suoi stivali lucidi e il suo sorriso smagliante, li chiamava “i miei figli”. Avrebbe preferito che sopravvivessero (momentaneamente) ai suoi esperimenti per giustificare il suo orgoglio. Blade runner è il sequel cinematografico.
La moltiplicazione del suffisso “fobo” è uno di quei miracoli semantici che ci fa sentire in quale società siamo entrati: una società in cui ogni critica, riluttanza, preoccupazione, satira nei confronti di una pratica, di una religione, di una fantasia identitaria, sono denunciate come una fobia, cioè non come una riflessione o un’opinione che meriti di essere discussa, contestata, ma come il sintomo di una malattia mentale che si tratta di eliminare.
La "reductio ad Hitlerum" non è un argomentazione, quindi in questo caso non siamo di fronte ad "una riflessione o un’opinione che meriti di essere discussa, contestata" ma ad una malnascosta fobia.
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