Nei
decenni successivi al dopoguerra venne maturando quel patto sociale tra le
classi degli sfruttati e quelle degli sfruttatori che aveva la sua
codificazione nella Costituzione. Si basava sulla mediazione politica degli
interessi delle varie classi, e a una certa data trovò nelle lotte operaie l’occasione
per rafforzare le aspirazioni politiche ed economiche dei ceti intermedi. Acqua
passata.
Poi
è venuto passo-passo “il rinvigorimento,
su base tecnocratica, del modo di produzione capitalistico” (*), il prevalere
del “mercato” e dell’odiologia
neoliberista, il mutare del quadro internazionale. L’originario patto sociale va
all’aria e i soggetti mediatori sono travolti, sul piano politico si dispiega la
svolta controrivoluzionaria in tutta la sua brutalità antiproletaria.
L’esito
di queste trasformazioni “da cui non si
torna più indietro” oggi lo possiamo apprezzare nelle infinite lacerazioni sociali,
nello sfaldamento istituzionale, nella crescente repulsione cui è oggetto la
classe politica e l’astensione di massa alle elezioni. Tuttavia, bene o male, il
Titanic non è ancora affondato e l’orchestra
è impegnata in melodie statistiche e la servitù nella consueta mistificazione degli
antagonismi di classe.
La
crisi è ormai un dato strutturale e irreversibile. Alla fine del famoso tunnel
non si vede nessuna reale possibilità di ripresa; ogni politica economica deve
avere quindi come asse centrale l’attacco frontale e generalizzato alle classi
lavoratrici, alle condizioni di vita e di lavoro e a qualsiasi forma di
autonomia politica (obiettivo ampiamente raggiunto).
L’establishment
politico nazionale ha ben chiare le minacce che presenta la nuova fase del
capitalismo e il disordine internazionale, il pericolo in termini di consenso
delle politiche di rigore che puntando al risanamento finanziario aggiungono per
contro altra recessione. Da qui vengono alcuni dei motivi della ridicola jacquerie
tra il cameriere pro tempore di palazzo Chigi e l’élite politica e tecnocratica
europea di obbedienza berlinese.
Accompagnata
dal declino inesorabile della piccola manifattura e del commercio c.d. di
prossimità, la dinamica tecnologica mostra l’impossibilità di mantenere un
tasso di occupazione sufficiente a garantire un quadro di stabilità sociale. Per
tamponare si sarà costretti a concedere una qualche forma di sussidio a quelle
moltitudini, soprattutto giovanili, che si trovano sbandate e alla canna del
gas.
C’è
dunque bisogno di “flessibilità” sul deficit, ma in alcun caso però il bluff
potrà reggere finanziariamente molto a lungo, poiché il debito pubblico
continua a correre in termini assoluti nonostante le tante vantate riforme.
Tale tendenza non muta poiché il sistema regge sulla spesa pubblica e separare
il sistema dei partiti dallo Stato significherebbe, per come si è venuto a
determinare storicamente, distruggere lo Stato stesso.
Sullo
sfondo si muovono le dinamiche capitalistiche, e tra queste prima di tutte la
crisi finanziaria mondiale. Crisi che non potrà non avere – a breve medio
termine – riflessi decisivi sulla voragine del debito e dunque sulla
sostenibilità del sistema. Debito pubblico che è in mano largamente alle
banche, il cui destino e in gran parte legato alle decisioni prese jenseits der alpen.
Banche e istituzioni europee con le quali i Dulcamara nostrani credono di poter
giocare come al gatto con il topo.
(*)
Dall’interrogatorio di Aldo Moro:
“Di fronte a molteplici richieste circa
gli assetti economici sociali dell’Europa di domani, ed in essa dell’Italia,
devo dire onestamente che quello che si ha di mira è il rinvigorimento, su base
tecnocratica, del modo di produzione capitalistico […]. Ma il
nerbo della nuova economia, assunto
come condizione di efficienza, è l’imprenditorialità privata ed anche pubblica
con opportuna divisione del lavoro. Questo modo di essere dell’Europa
strettamente legata all’America e da essa condizionata, non varia con il
mutare, in generale, degli assetti interni dei vari Paesi, come si riscontra
nella fiducia parimenti accordata a Governi Laburisti o Conservatori in
Inghilterra come a Governi socialdemocratici o democristiani in Germania
occidentale. Anzi qualche volta a maggior favore è andato alle formule
socialdemocratiche nell’affermarsi di un’ideologia di fondo produttivistica e
tecnocratica Mitteleuropea. È noto come questo indirizzo e questo spirito siano
coltivati da libere organizzazioni paragovernative […].”
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