Scrive Luciano Gallino in apertura della sua ultima fatica, Il denaro, il debito e la doppia crisi spiegati ai nostri nipoti:
«Causa fondamentale della sconfitta dell’uguaglianza è stata,
dagli anni Ottanta in poi, la doppia crisi, del capitalismo e del sistema ecologico,
quest’ultima strettamente collegata con la prima. La stessa crisi del
capitalismo ha molte facce: l’incapacità di vendere tutto quello che produce;
la riduzione drastica dei produttori di beni e servizi i quali abbiano reale
valore d’uso; il parallelo sviluppo del sistema finanziario al di là di ogni
limite … .»
Lasciamo
da parte il discorso sull’uguaglianza che riprenderò in chiusura al post e andiamo
subito alla “ciccia” della tesi di Gallino, ossia l’incapacità di vendere tutto quello che si produce. Sarà mai una
questione di marketing la crisi?
Come
ogni economista, sociologo, politologo, anche Gallino anziché cercare la causa
delle crisi nel carattere stesso del
capitale, e con ciò mettere in luce anzitutto
il rapporto di sfruttamento tra capitale e lavoro, preferisce cercarla nella circolazione, in modo da poter scrivere
e riscrivere che la crisi in cui si dibatte il capitalismo è crisi di sovrapproduzione di merci.
Ciò
significa semplicemente una cosa, e cioè che la società nel suo insieme ha prodotto
più di quanto abbia consumato o che ha consumato meno di quanto si è prodotto
(chiarisco: la crisi di sovrapproduzione è anche crisi di sottoconsumo, benché
quest’ultima ne rappresenti unicamente un lato, un aspetto, e non la necessità). La differenza tra
produzione e consumo sarebbe causa di quello “squilibrio” che dà luogo alle
crisi, aggravate dal ruolo che ha assunto, “oltre ogni limite”, la finanza nell’economia.
Poiché
ad illudersi che si possa riformare il capitalismo sono legioni, specie a
“sinistra”, va chiarito in premessa che se fosse per questo motivo, ossia se la
causa immanente delle crisi coincidesse con il suo modo di manifestarsi, con la
sovrapproduzione di merci, nel susseguirsi periodico di espansione e ristagno, all’attuale modo di produzione sarebbe
garantita vita eterna.
Con
buona pace di ogni illusionista borghese, le cose non stanno affatto così. Ad
ogni modo vediamo in sintesi cosa raccontano gli economisti e i sociologi ai
loro nipoti.
*
Per
lungo tempo la pseudo-scienza economica borghese ha tentato di trovare risposta
alle crisi di sovrapproduzione, ossia al sottoconsumo. Keynes imputava il
ristagno nei consumi a una presunta “legge psicologica della diminuzione del
consumo in caso di crescente ricchezza”. In altri termini, la ragione
dell’insufficienza dei consumi andrebbe ricercata nell’aumento del risparmio, e
la propensione al risparmio sarebbe caratteristica di una non meglio precisata
“natura umana”.
Sia
pure con un prassi più rozza e teoricamente pasticciata, anche gente come Renzi-Padoan
cerca di dare alimento ai consumi con qualche mancia in deficit e soprattutto
alimentando con le buone novelle la propensione psicologica al consumo,
dichiarando guerra al risparmio (salvo i titoli di Stato).
Ci
si è però resi conto, specie nelle correnti di pensiero della sinistra critica,
che l’idea di “ritornare a una crescita
quale si è registrata in pochi decenni della seconda metà del Novecento sia
impensabile quanto rischiosa”. Rischiosa per due motivi, scrive Gallino:
perché tale tentativo, messo in atto con le note politiche neoliberiste,
costituisce “un attacco alle libertà democratiche”; e perché oltre a quella
economica siamo a una “crisi ecologica che potrebbe essere giunta a un punto di
non ritorno” (pp. 6 e 7).
È
lo scopo di ogni volenteroso economista e sociologo riformista, e dunque a buon
diritto anche di Gallino, quello di: 1) far apparire di per se stessa la
sovrapproduzione come una spiegazione scientifica della crisi, cioè come
analisi non di una delle possibili
manifestazioni della crisi, ma come suo fattore scatenante; 2) che sia possibile
regolare la produzione capitalistica a piacere e cioè risolvere la
contraddizione fondamentale del modo di produzione capitalistico con
l’intervento politico riformatore.
In
buona sostanza il rimedio sarebbe semplice: basterebbe intervenire sugli
“squilibri” e in tal modo eliminare la sovrapproduzione di merci e con essa la
causa principale della crisi, assicurando una crescita armonica della
produzione sociale. In fin dei conti, gratta-gratta, è la riproposizione della
vecchia teoria della “programmazione”.
Perché
ciò non viene fatto? Per pagine e pagine Gallino ci spiega che il mondo va così
male a causa della “stupidità” delle sue élite. E dunque tra le cause del disastro
attuale avrebbe un rilievo particolare, secondo il sociologo torinese,
l’aspetto ideologico e culturale di formazione delle élite. E qui non mi sento
di dargli torto, ma dobbiamo essere comunque un poco più esigenti sul terreno
analitico, altrimenti si potrebbe dire altrettanto delle tragedie enormi del
Novecento e degli eccidi di massa che hanno costellato la modernità.
*
Non
siamo in presenza semplicemente di “crisi di sovrapproduzione di merci”
determinata da mancanza di sbocchi sul mercato, in ultima analisi a delle “crisi
di sottoconsumo”. Le crisi non sono solo un problema di realizzazione, “incapacità di vendere tutto” come
sostiene Gallino. Queste sono idee che riducono un fenomeno complesso della
crisi del capitalismo ad un suo aspetto. Come ho già detto qui sopra e ridetto
varie volte in precedenza, individuare la crisi come crisi di sovrapproduzione
di merci, significa individuare la contraddizione principale non nella
produzione, bensì nella circolazione. E ciò ha delle implicazioni essenziali
che eludono il reale processo storico capitalistico.
Dall’estorsione del lavoro non pagato,
cioè dell’estorsione del plusvalore, ha origine la disuguaglianza nella
distribuzione della ricchezza, e non
dunque, come vuole dare da intendere Gallino, dall’esito delle “stupide” politiche
neoliberiste. Le quali sono invece una conseguenza da un lato della lotta tra capitale
e lavoro, e dunque della lotta tra le classi, e dall’altro sono espressione del
dominio del capitale nella sua fase di massima espansione ed egemonia.
Tali
politiche puntano a sostenere il capitale contro le difficoltà di
valorizzazione allorché il saggio generale del profitto cade, dunque di estendere attraverso lo
sfruttamento e il peggioramento delle condizioni di lavoro degli operai il
limite del plusvalore assoluto e relativo. E tuttavia non possono nulla tali
politiche quando il processo di accumulazione raggiunge il punto in cui la
massa del plusvalore è insufficiente a valorizzare una massa ancora accresciuta
di capitale accumulato (ne ho scritto varie volte).
Da
un punto di vista più propriamente tecnico la sovrapproduzione di merci è
innanzitutto sovrapproduzione di capitale (benché questa determini sempre sovrapproduzione di merci), cioè
sovraccumulazione di mezzi di produzione e di sussistenza. Il processo di
sovrapproduzione di capitale, scaturendo prima di tutto dal processo di
produzione, mostra – come dice Marx – in che modo “il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso”
e come la crisi scaturisca “dalla natura stessa della produzione
capitalistica, come necessità logica”.
La
produzione capitalistica racchiude una
tendenza verso lo sviluppo assoluto delle forze produttive, laddove la
valorizzazione del capitale è l’intrinseco fine della produzione capitalistica.
Nello sviluppo delle forze produttive, il capitalismo trova un limite che ha
nulla a che vedere con la produzione della ricchezza in quanto tale. La crisi
dunque non sta, nel suo motivo fondamentale, nella “incapacità di vendere” o semplicemente nell’eccesso di produzione
di merci, ossia in queste semplicistiche formulazioni che nulla hanno di scientifico.
*
Qui
l’uguaglianza e altre chiacchiere consimili non c’entrano, i singoli
capitalisti, o chi sta a capo delle corporation, sono interessati solo
all’acquisto e allo sfruttamento della forza-lavoro; ma, fuori del rapporto di
scambio e di sfruttamento, ogni costo diventa per loro improduttivo,
irrazionale e, dunque, assolutamente privo d’interesse. Che si tagli la spesa
sociale per dare soldi ai padroni, in nome della crescita e della
competitività, rientra nella logica dell’intervento dello Stato appaltato dal
capitale.
Lo
scontro sociale è stato abbondantemente perso, non come dice Gallino, perché
sono venute meno “l’idea di uguaglianza, anzitutto politica” e quella “di
pensiero critico”, con la “vittoria della stupidità”. Lo scontro è stato vinto
dalla borghesia innanzitutto sul piano dei rapporti sociali prima ancora che
ideologici, sul piano concreto dello dispiegarsi della nuova fase globale,
nell’internazionalizzazione del mercato del lavoro e dello scambio, e infine
agendo proprio sulle determinazioni politiche della crisi.
L’abbandono di ciò che abbiamo di più
solido e scientifico in materia di critica dell’economia politica, e dunque l’abbandono e anzi lo sputtanamento, questo sì scientifico, della critica marxiana del modo di produzione capitalistico, è stata
la causa principale della “sconfitta politica, sociale, morale” alla quale allude
Gallino rivolgendosi ai suoi “cari nipoti”. Invece di scrivere e poi far
leggere le sue fantasie ai propri nipoti, Gallino farebbe bene di studiare Marx insieme a
loro. In Marx c’è tutto ciò che devono sapere su questo argomento.
il gallino sarà pure un bravo sociologo ma di economia non capisce un tubo. infatti da anni ormai scrive anche di economia, solo che le sue elucubrazioni sull'economia sono coglionate assolute.
RispondiEliminafranco valdes piccolo proletario di provincia
in fondo Gallino ha scoperto pochissimi anni or sono che "il lavoro è una merce", ed io che mi reputo un ignorante mi sono inorgoglito tutto
RispondiEliminaquesti sapienti del cazzo lo sanno bene che la contraddizione fondamentale da cui scaturisce tutto il resto è il lavoro non pagato. ma gli fa comodo così, scrivono libri e incassano
EliminaChiunque si occupi di problemi politico-economico, e dunque, sociali a qualunque titolo e a qualsiasi livello e prescinda da Marx non può che essere in malafede.
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