Leggendo
i saggi e gli articoli di politologi, sociologi, economisti e teologi alla
Scalfari, si possono trovare descritte cose come il fatto che 80 individui
detengono la metà della ricchezza mondiale. E commenti come questo: il vero scandalo non è la ricchezza ma la
povertà. Come se una cosa non fosse strettamente legata all’altra. Oppure
altri dati, come i 61 milioni di posti di lavoro e i 1200 miliardi di dollari
di redditi persi con questa crisi.
L’ineguaglianza
distributiva e gli effetti devastanti delle crisi sono fatti risalire al
cattivo funzionamento di questa società dove trionfa la speculazione
finanziaria, all’assenza di regole e riforme volte a calmierare gli effetti
distruttivi e perversi dell’ordoliberismo (così lo chiama Gallino). Oppure ci
si richiama al caos generato inevitabilmente
dal “nuovo paradigma economico”, come lo chiama l’ex iscritto al Pci Federico
Rampini. Inutile cercare nelle 327
pagine del suo libro la parola capitalismo.
Scrive
Rampini a pagina 325:
«Incapaci i greci di vedere le proprie
responsabilità prevalenti nella crisi del paese; di ammettere che si può essere
poveri e disonesti; poveri e parassiti; che la povertà non è un alibi per
tenersi politici corrotti, statali improduttivi e l’evasione più alta d’Europa.»
Sono
in molti, in troppi, a pensarla così. Le cause della crisi greca sono dunque imputabili
a dei poveri cristi che cercano si guadagnarsi in qualche modo la giornata, alla
grande e piccola burocrazia statale che vota per dei politici corrotti pur di
mantenere i propri privilegi parassitari.
Enrico
VIII, nel 1530, ai mendicanti vecchi e incapaci di lavorare dava una licenza di
mendicità, ma per i vagabondi sani e robusti, per coloro che la nuova
legislazione aveva privato della terra sulla quale vivevano, c’era invece la frusta
e la prigione se non si assoggettavano al padrone “e mettersi al lavoro”. La
mirabile manifattura inglese nacque con il furto e la violenza.
Anche
negli anni Trenta, i contadini poveri americani che cercavano a bordo delle
loro carrette di sfuggire alla miseria e alla disperazione erano dei poveri e
disonesti che non sapevano adeguarsi al nuovo paradigma economico. In ogni
epoca e situazione troviamo masse di disperati che non sanno adeguarsi al
“nuovo paradigma” che li travolge.
Eppure
basterebbe così poco, votare i politici giusti, dare spazio e rilievo alle
poche “voci scomode”, alla Rampini, “che accettano la contraddizione,
abbracciano la complessità, cercano d’indagare onestamente i propri errori”,
ovvero distribuire meglio la ricchezza alla Gallino o alla Krugman, e il “nuovo
paradigma economico” darebbe sicuro i suoi frutti felici.
E
dunque non abbiamo a che fare con i rapporti sociali tra le due grandi classi
della società, con il rapporto tra capitale e lavoro. Soprattutto non abbiamo a che fare con il rapporto
capitalistico il cui presupposto è la separazione fra
lavoratori e proprietà delle condizioni di realizzazione del lavoro. Non solo
il modo di produzione capitalistico ha la necessità imprescindibile di mantenere tale separazione, ma di riprodurla su
scala sempre crescente, come dimostrato dal fatto che 700 multinazionali controllano praticamente quasi tutta la produzione e il commercio.
E
dunque ciò che appare e ciò che costituisce l’essenza del capitale non può dunque
essere null’altro che il processo di separazione dalla proprietà delle proprie
condizioni di lavoro, non è altro che il processo storico di separazione del
produttore dai mezzi di produzione. Non può essere altro che il monopolio, la
concentrazione della ricchezza e del potere in pochissime mani.
Che
cosa scriveva quel vecchio ubriacone foruncoloso un secolo e mezzo or sono?
Non basta che le condizioni di lavoro
si presentino come capitale a un polo e che all’altro polo si presentino uomini
che non hanno altro da vendere che la propria forza-lavoro. E non basta neppure
costringere questi uomini a vendersi volontariamente. Man mano che la
produzione capitalistica procede, si sviluppa una classe operaia che per
educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le
esigenze di quel modo di produzione. L’organizzazione del processo di
produzione capitalistico sviluppato spezza ogni resistenza; la costante
produzione di una sovrappopolazione relativa tiene la legge dell’offerta e
della domanda di lavoro, e quindi il salario lavorativo, entro un binario che
corrisponde ai bisogni di valorizzazione del capitale; la silenziosa coazione
dei rapporti economici appone il suggello al dominio del capitalista
sull’operaio.
Vi
pare che in un secolo e mezzo la situazione sia cambiata in meglio per il
semplice fatto che l’operaio oggi vive meglio di decenni e secoli addietro?
Vogliamo misurare ancora la condizione dell’operaio attuale con quella di un
tempo, senza dir nulla dello straordinario aumento della produttività del
lavoro e delle inedite possibilità che ci sarebbero offerte oggi dallo sviluppo
tecnologico e sociale?
Eppure
l’operaio vede sequestrata la sua vita almeno per otto ore il giorno – come un
secolo fa – per arricchire sempre di più, tra gli altri, quegli 80 individui
che detengono la metà della ricchezza mondiale. Oppure è disoccupato, mantenuto
con l’elemosina statale, e ciò per mantenere la legge dell’offerta e della domanda
di lavoro entro un binario che corrisponde ai bisogni di valorizzazione del
capitale.
Le
“voci scomode”, alla Rampini, “che accettano la contraddizione, abbracciano la
complessità, cercano d’indagare onestamente i propri errori”, in realtà agli
schiavi del capitale di che cosa parlano?
Di cazzabubbole atte a consolare i pochi piccoli borghesi che li leggono la domenica mattina. I Rampini sono misere sciacquette del capitale. Misere in senso figurato, s'intende, dati i loro lauti stipendi.
RispondiElimina"Sciacquette del capitale" mi piace; discrive perfettamente un "lavoro" per cui " c'è la fila " in quanto ben "remunerato" e pure "moralmente" gratificante se, come tutti quelli di "repubblica" , si riesce a svolgerlo " da sinistra" :-)
EliminaI suoi post della domenica, sono decisamente più interessanti e incisivi.
RispondiEliminaSaluti
meno male. grazie e ciao
Eliminagiustamente il concetto marxiano non è di "miseria" e basta ma quello di "miseria sociale", collocato storicamente in relazione alla ricchezza sociale prodotta. inoltre, vorrei aggiungere, anche nel senso di ricchezza e miseria esistenziale visto che il concetto a monte è quello di "intero"
RispondiEliminaconcordo
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