Faccio
seguire a quelle di ieri ancora delle considerazioni sul libro di Luciano
Gallino. Scrive il sociologo:
[…] senza l’apporto di una dose massiccia di stupidità da parte dei
governanti, dei politici, e ahimè di una porzione non piccola di tutti noi, le
teorie economiche neoliberali non avrebbero mai potuto affermarsi nella misura
sconsiderata che abbiamo sott’occhio.
[…] sul finire degli anni Settanta, la ristretta quota di
popolazione che per generazioni aveva subito l’attacco dell’idea e delle
politiche di uguaglianza decise che ne aveva abbastanza. Si tratta della classe
dei personaggi super-potenti e super-ricchi che controllano la finanza, la
politica, i media […].
Essa iniziò quindi una feroce quanto sistematico attacco a qualsiasi cosa
avesse attinenza con l’uguaglianza […].
I governi Reagan e Thatcher provvidero a smantellare i sindacati; in Francia un
presidente socialista, Mitterrand, si impegnò a fondo per liberalizzare
senza limiti i movimenti di capitale e le attività speculative delle banche […].
Secondo
le parole di Gallino, non si trattò di un cambio di ciclo del capitalismo dopo
la crisi iniziata negli anni Sessanta e divampata nel decennio successivo,
bensì di una scelta da parte delle élite, quella di dire basta alle politiche improntate
all’uguaglianza. Credo che in questa analisi – se di
analisi si tratta – vi sia una incomprensione di fondo di come funzioni non
solo segnatamente il capitalismo ma più in generale una formazione sociale. E
anche e soprattutto una sottovalutazione delle ragioni strettamente economiche
che hanno spinto i governi e la politica a farsi promotori del neoliberismo e a
dire basta al welfare che fino ad allora aveva sostenuto il ciclo economico.
Il
tratto caratteristico che contraddistingue specificamente il modo di produzione
capitalistico è la produzione del plusvalore come scopo diretto e motivo determinante della produzione. I principali
agenti di questo modo di produzione, il capitalista e il lavoratore salariato,
sono, in quanto tali, semplicemente incarnazioni, personificazioni del capitale
e del lavoro salariato; sono caratteri sociali determinati che il processo di
produzione sociale imprime agli individui; sono prodotti di questi determinati
rapporti sociali di produzione.
Alla
stessa stregua, anche gli agenti politici e governativi sono espressione – per
quanto i singoli individui possano mostrarsi cinici e legati a propri interessi
particolari – dello stesso carattere sociale determinato dal processo di
produzione. Non sono, come può apparire, le scelte politiche
neoliberiste dei leader e delle élite a regolare a piacimento la produzione stessa e il movimento del
capitale, ma è bensì, in ultima istanza, la legge del valore che agisce come
legge interna, come cieca legge di natura nei confronti dei singoli, siano essi
agenti diretti della produzione oppure mediatori sociali, vuoi della politica,
dei governi, delle banche o vuoi del sindacato, eccetera.
Non
sono dunque la Thatcher, Reagan, Mitterrand ecc., se non come agenti di tale movimento e quali che siano le loro "stupide" idee a riguardo, a imporre la svolta che
chiamiamo neoliberista. Tale mutamento è già nella dinamica delle forze autonomizzate del
capitale, nell'imperativo insopprimibile che esso ha di espandersi e di trovare
nuovi sbocchi e più favorevoli condizioni di profitto, e nella necessità di recuperare quote di plusvalore
fino ad allora destinate al “sociale” (*).
E
a tale riguardo deve essere ben chiaro che il
profitto non è una semplice categoria di distribuzione del prodotto per il
consumo individuale, come va di moda far credere non solo ai “decrescisti”
felici. Il profitto, questa forma determinata del plusvalore, quale presupposto
stesso della produzione capitalistica, è il motivo che domina in assoluto e
più di ogni altro la riproduzione sociale in àmbito capitalistico. Le concezioni che considerano
storicamente solo i rapporti di distribuzione, ma non i rapporti di produzione,
fanno parte delle critiche laterali, d’impronta politica e morale,
dell’economia borghese.
(*)
Come del resto mostrava Marx già a partire dal Manifesto del 1848:
La grande industria ha creato quel mercato mondiale, ch'era
stato preparato dalla scoperta dell'America. Il mercato mondiale ha dato uno
sviluppo immenso al commercio, alla navigazione, alle comunicazioni per via di
terra. Questo sviluppo ha reagito a sua volta sull'espansione dell'industria, e
nella stessa misura in cui si estendevano industria, commercio, navigazione,
ferrovie, si è sviluppata la borghesia, ha accresciuto i suoi capitali e ha
respinto nel retroscena tutte le classi tramandate dal medioevo.
[…] Dove ha raggiunto il dominio, la borghesia ha distrutto
tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliche. Ha lacerato
spietatamente tutti i variopinti vincoli feudali che legavano l'uomo al suo
superiore naturale, e non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo
interesse, il freddo "pagamento in contanti". Ha affogato nell'acqua
gelida del calcolo egoistico i sacri brividi dell'esaltazione devota,
dell'entusiasmo cavalleresco, della malinconia filistea. Ha disciolto la
dignità personale nel valore di scambio e al posto delle innumerevoli libertà
patentate e onestamente conquistate, ha messo, unica, la libertà di commercio
priva di scrupoli. In una parola: ha messo lo sfruttamento aperto, spudorato,
diretto e arido al posto dello sfruttamento mascherato d'illusioni religiose e
politiche.
La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte le attività
che fino allora erano venerate e considerate con pio timore. Ha tramutato il
medico, il giurista, il prete, il poeta, l'uomo della scienza, in salariati ai
suoi stipendi.
[…] La borghesia non può esistere senza rivoluzionare
continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque
tutti i rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi
industriali precedenti era invece l'immutato mantenimento del vecchio sistema
di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l'ininterrotto
scuotimento di tutte le situazioni sociali, l'incertezza e il movimento eterni
contraddistinguono l'epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti. Si
dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e
di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano
prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e
di stabile, è profanata ogni cosa sacra, e gli uomini sono finalmente costretti
a guardare con occhio disincantato la propria posizione e i propri reciproci
rapporti.
Il bisogno di uno smercio sempre più esteso per i suoi prodotti
sospinge la borghesia a percorrere tutto il globo terrestre. Dappertutto deve
annidarsi, dappertutto deve costruire le sue basi, dappertutto deve creare
relazioni.
Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato
un'impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Ha
tolto di sotto i piedi dell'industria il suo terreno nazionale, con gran
rammarico dei reazionari. Le antichissime industrie nazionali sono state
distrutte, e ancora adesso vengono distrutte ogni giorno. Vengono soppiantate
da industrie nuove, la cui introduzione diventa questione di vita o di morte
per tutte le nazioni civili, da industrie che non lavorano più soltanto le
materie prime del luogo, ma delle zone più remote, e i cui prodotti non vengono
consumati solo dal paese stesso, ma anche in tutte le parti del mondo […].
Direi un profeta,che ci azzecca in tutto,se non fosse babbo Carlo.
RispondiEliminaCaino
non daniele, spero
Elimina