martedì 20 ottobre 2015

Governati dalla stupidità

(Il post è stato "riveduto" alle ore 11.40).

Faccio seguire a quelle di ieri ancora delle considerazioni sul libro di Luciano Gallino. Scrive il sociologo:

[…] senza l’apporto di una dose massiccia di stupidità da parte dei governanti, dei politici, e ahimè di una porzione non piccola di tutti noi, le teorie economiche neoliberali non avrebbero mai potuto affermarsi nella misura sconsiderata che abbiamo sott’occhio.

[…] sul finire degli anni Settanta, la ristretta quota di popolazione che per generazioni aveva subito l’attacco dell’idea e delle politiche di uguaglianza decise che ne aveva abbastanza. Si tratta della classe dei personaggi super-potenti e super-ricchi che controllano la finanza, la politica, i media […]. Essa iniziò quindi una feroce quanto sistematico attacco a qualsiasi cosa avesse attinenza con l’uguaglianza […]. I governi Reagan e Thatcher provvidero a smantellare i sindacati; in Francia un presidente socialista, Mitterrand, si impegnò a fondo per liberalizzare senza limiti i movimenti di capitale e le attività speculative delle banche […].

Secondo le parole di Gallino, non si trattò di un cambio di ciclo del capitalismo dopo la crisi iniziata negli anni Sessanta e divampata nel decennio successivo, bensì di una scelta da parte delle élite, quella di dire basta alle politiche improntate all’uguaglianza. Credo che in questa analisi – se di analisi si tratta – vi sia una incomprensione di fondo di come funzioni non solo segnatamente il capitalismo ma più in generale una formazione sociale. E anche e soprattutto una sottovalutazione delle ragioni strettamente economiche che hanno spinto i governi e la politica a farsi promotori del neoliberismo e a dire basta al welfare che fino ad allora aveva sostenuto il ciclo economico.



Il tratto caratteristico che contraddistingue specificamente il modo di produzione capitalistico è la produzione del plusvalore come scopo diretto e motivo determinante della produzione. I principali agenti di questo modo di produzione, il capitalista e il lavoratore salariato, sono, in quanto tali, semplicemente incarnazioni, personificazioni del capitale e del lavoro salariato; sono caratteri sociali determinati che il processo di produzione sociale imprime agli individui; sono prodotti di questi determinati rapporti sociali di produzione.

Alla stessa stregua, anche gli agenti politici e governativi sono espressione – per quanto i singoli individui possano mostrarsi cinici e legati a propri interessi particolari – dello stesso carattere sociale determinato dal processo di produzione. Non sono, come può apparire, le scelte politiche neoliberiste dei leader e delle élite a regolare a piacimento la produzione stessa e il movimento del capitale, ma è bensì, in ultima istanza, la legge del valore che agisce come legge interna, come cieca legge di natura nei confronti dei singoli, siano essi agenti diretti della produzione oppure mediatori sociali, vuoi della politica, dei governi, delle banche o vuoi del sindacato, eccetera.

Non sono dunque la Thatcher, Reagan, Mitterrand ecc., se non come agenti di tale movimento e quali che siano le loro "stupide" idee a riguardo, a imporre la svolta che chiamiamo neoliberista. Tale mutamento è già nella dinamica delle forze autonomizzate del capitale, nell'imperativo insopprimibile che esso ha di espandersi e di trovare nuovi sbocchi e più favorevoli condizioni di profitto, e nella necessità di recuperare quote di plusvalore fino ad allora destinate al “sociale” (*).

E a tale riguardo deve essere ben chiaro che il profitto non è una semplice categoria di distribuzione del prodotto per il consumo individuale, come va di moda far credere non solo ai “decrescisti” felici. Il profitto, questa forma determinata del plusvalore, quale presupposto stesso della produzione capitalistica, è il motivo che domina in assoluto e più di ogni altro la riproduzione sociale in àmbito capitalistico. Le concezioni che considerano storicamente solo i rapporti di distribuzione, ma non i rapporti di produzione, fanno parte delle critiche laterali, d’impronta politica e morale, dell’economia borghese.

(*) Come del resto mostrava Marx già a partire dal Manifesto del 1848:

La grande industria ha creato quel mercato mondiale, ch'era stato preparato dalla scoperta dell'America. Il mercato mondiale ha dato uno sviluppo immenso al commercio, alla navigazione, alle comunicazioni per via di terra. Questo sviluppo ha reagito a sua volta sull'espansione dell'industria, e nella stessa misura in cui si estendevano industria, commercio, navigazione, ferrovie, si è sviluppata la borghesia, ha accresciuto i suoi capitali e ha respinto nel retroscena tutte le classi tramandate dal medioevo.

[…] Dove ha raggiunto il dominio, la borghesia ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliche. Ha lacerato spietatamente tutti i variopinti vincoli feudali che legavano l'uomo al suo superiore naturale, e non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo "pagamento in contanti". Ha affogato nell'acqua gelida del calcolo egoistico i sacri brividi dell'esaltazione devota, dell'entusiasmo cavalleresco, della malinconia filistea. Ha disciolto la dignità personale nel valore di scambio e al posto delle innumerevoli libertà patentate e onestamente conquistate, ha messo, unica, la libertà di commercio priva di scrupoli. In una parola: ha messo lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido al posto dello sfruttamento mascherato d'illusioni religiose e politiche.

La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte le attività che fino allora erano venerate e considerate con pio timore. Ha tramutato il medico, il giurista, il prete, il poeta, l'uomo della scienza, in salariati ai suoi stipendi.

[…] La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l'immutato mantenimento del vecchio sistema di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l'ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l'incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l'epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti. Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra, e gli uomini sono finalmente costretti a guardare con occhio disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti.

Il bisogno di uno smercio sempre più esteso per i suoi prodotti sospinge la borghesia a percorrere tutto il globo terrestre. Dappertutto deve annidarsi, dappertutto deve costruire le sue basi, dappertutto deve creare relazioni.


Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un'impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Ha tolto di sotto i piedi dell'industria il suo terreno nazionale, con gran rammarico dei reazionari. Le antichissime industrie nazionali sono state distrutte, e ancora adesso vengono distrutte ogni giorno. Vengono soppiantate da industrie nuove, la cui introduzione diventa questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili, da industrie che non lavorano più soltanto le materie prime del luogo, ma delle zone più remote, e i cui prodotti non vengono consumati solo dal paese stesso, ma anche in tutte le parti del mondo […].

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