L’economia non piace a molti, ma muove e comanda il mondo. Non piace anche perché è trattata spesso in modo specialistico, con un linguaggio che altera la realtà in favore dell’interesse particolare.
Prendiamo un esempio. Mario Seminerio, uno bravo, scrive sul Il Fatto Quotidiano:
«Periodicamente, nell’asfittico dibattito politico italiano riemerge il tema della tassazione di quelle che vengono definite “rendite” finanziarie, e che più correttamente dovrebbero essere chiamati redditi da capitale. Anche questa definizione, a voler essere sinceri, appare fortemente caratterizzata da valenze simboliche. E’ l’immagine del “capitalista” che vive sulla pelle del lavoro e dei lavoratori, che in un paese come il nostro, assai poco avvezzo all’economia ed ai suoi temi, suscita ancora immagini ottocentesche di sfruttamento. Poco importa che i redditi di capitale siano anche il frutto di risparmi delle famiglie: per i nostri semplificatori sono “rendite”».
E fin qui potrebbe anche andare, laddove si ricordasse che la liquidazione incassata dall’operaio al momento del pensionamento, ovvero “il frutto di risparmi delle famiglie”, costituisce solo una percentuale assai modesta del capitale finanziario. Una quota molto rilevante di tale capitale è costituita da un altro tipo di “risparmio delle famiglie”, vale a dire da redditi non dichiarati, evasione fiscale pura.
Ma, dicevo, fin qui possiamo sorvolare. Il punto cruciale della tesi di Seminerio è il seguente:
«Ancora più incoerenti appaiono le motivazioni addotte: non è equo tassare il lavoro al 23 per cento (l’attuale minore aliquota Irpef) e le “rendite” al 12,5 per cento. Eppure basterebbe capire che l’investimento dei risparmi produce proventi per comprendere che si stanno paragonando pere e mele».
Ora chi legge Il Fatto sa che “l’investimento dei risparmi produce proventi”. La domanda più ovvia da porsi è: proventi per chi? Ma soprattutto: il lavoro dipendente tassato minimo al 23 per cento non produce forse proventi, anzi ricchezza, quella vera?
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Grande sciopero generale in Francia contro l’aumento dell’età pensionabile (da 60 a 62 anni nel 2018) e degli anni di contributi: 41,5. Inoltre il calcolo della pensione, anche se passasse la nuova riforma, è più favorevole che non in Italia: la base di calcolo assume il semestre dell'ultimo stipendio, poi seleziona i migliori 25 anni per i lavoratori dipendenti del settore privato; per il settore pubblico il calcolo contributivo è ancora più favorevole. In Italia i contributi necessari per la pensione completa, di fatto, richiedono 40 di lavoro, un anno di attesa per la “finestra”, ma dal 2015 ci vorrà anche una determinata età anagrafica. Sempre all’avanguardia.
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