Siamo quindi giunti ad un nuovo round per la “pace” in Palestina. È un po’ come se gli israeliani, che abitano in un attico con giardino, dicessero ai palestinesi, costretti ad abitare in uno stanzino al pianoterra, facciamo un accordo che soddisfi le nostre esigenze però senza tener conto della sostanza della situazione patrimoniale, ovvero la questione delle risorse.
Naturalmente questa è materia molto complessa e non può essere dettagliata in un post. Ne accenno solo per dire che le questioni non sono solo come appaiono e vengono descritte dai media. Il problema fondamentale della regione, come molti sanno, è lo sfruttamento delle risorse, soprattutto naturali e tra queste, in primis, di quelle idriche. I problemi idrici della regione hanno origine principalmente dal suo clima e non dalla politica. Pertanto le politiche idriche, condizionando in maniera notevole i settori produttivi e acquisiscono un ruolo preponderante nel delinearsi dei gruppi di pressione e dei fronti di consenso.
Così come va posto in rilievo che l’obiettivo di aumentare la dotazione di risorse idriche rinnovabili ha connotato tutta la strategia territoriale israeliana, in quanto la scarsità d’acqua ha rappresentato, da sempre, un grave vincolo allo sviluppo economico. La stessa guerra dei sei giorni si è presentata sin dai suoi esordi, al di là di quelli che sono i suoi indubbi risvolti strategico-militari, come una guerra per l’acqua, così come ha risposto agli stessi obiettivi l’occupazione israeliana del Libano del 1980. Entrambe queste guerre hanno permesso infatti ad Israele di estendere il suo controllo su importanti risorse idriche della regione.
Se non si ha chiaro questo punto, rischia di essere confuso e indeterminato tutto il resto.
Durante i negoziati di pace iniziati a Madrid nel 1991 per risolvere tale problema della ripartizione delle risorse idriche dei territori della Cisgiordania e della striscia di Gaza, gli israeliani e i palestinesi si avvalsero dei principi generali che regolano l’utilizzazione dei corsi d’acqua internazionali, in particolare delle norme dell’equa utilizzazione e del divieto di causare danni, ecc. ecc..
Una parte preponderante delle risorse idriche della Cisgiordania e di Israele si trova nelle due falde sotterranee isolate dai corsi d’acqua di superficie che delineano il confine tra Israele e la Cisgiordania: la falda denominata dello Yarkon-Tanninim (o Turonian-Cenomanian), detta anche della falda montana, e quella di Eocene, le quali in media forniscono l’82% del rifornimento totale della Cisgiordania. Queste due falde vengono sfruttate attraverso l’estrazione da pozzi naturali o artificiali. È pacifico il carattere di internazionalità di tali falde e quindi la loro sottoposizione alle norme di diritto internazionale. Il problema di tali falde è stato oggetto anche della Dichiarazione di Principi firmata a Washington nel 1993 tra israeliani e palestinesi. La Dichiarazione stabiliva di focalizzare la futura cooperazione nella gestione delle risorse idriche della Cisgiordania e Gaza su “ proposal for studies and plans on water rights each part, as well as equitable utilization of joint water resources”.
Ad ogni buon conto, da una valutazione complessiva delle risorse emerge che circa due terzi dell’acqua consumata da Israele ogni anno provengono da territori su cui il paese ha imposto il suo controllo; la tecnologia adottata, però, ha consentito ad Israele di collocare le stazioni di captazione dell’acqua all’interno dei confini “originari” e, dunque, al sicuro da eventuali rivendicazioni palestinesi. In questi termini, dunque, l’occupazione militare non appare tanto rilevante per attingere alla falda, quanto per controllarne lo sfruttamento da parte della comunità palestinese, che in effetti è sottoposta a una serie di vincoli normativi oltre a quelli dettati dal ridotto bagaglio tecnologico di cui essa dispone.
Pertanto, partendo da premesse come questa, la “pace” è una chimera. Ciò che interessa alla borghesia israelo-palestinese è sfruttare la situazione e anzittutto la manodopera dei due popoli.
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