domenica 2 giugno 2013

Le favole come le racconta Scalfari


Questa mattina, mentre facevo colazione con pesche aliene, ascoltavo la lettura del vangelo. Non so dire da dove la trasmettessero la santa messa perché guardavo le Alpi tristi avvolte da nuvolaglia grigia e immobile. A me piacciono le favole, quella di stamane raccontava di un uomo che per magia sfama migliaia di persone al suo seguito partendo da due pesci e qualche panino.

Con la medesima curiosità con la quale mi pongo all’ascolto di questo genere di letteratura fantastica, mi accosto anche agli editoriali di Eugenio Scalfari. In quello odierno egli scrive che la narrazione serve a guardare il passato e a raccontarlo con gli occhi di oggi ricavandone un’esperienza da utilizzare per agire sul presente e costruire il futuro”.

Nelle vesti di filosofo ci dona sempre delle inedite perle di sapienza e saggezza, come quando mio nonno mi diceva che l’esperienza non serve solo ad allacciarsi le scarpe. Dice Scalfari che “Narrare il passato è dunque un elemento indispensabile per dare un senso alla vita. Chi rinuncia a raccontare vive schiacciato sul presente e il senso, cioè il significato e la nobiltà della propria esistenza, fugge via”.

Ed è perciò che Scalfari ogni domenica non manca di raccontarci le sue favole sul mondo, dandosi troppa cura di ciò che egli stesso crede degli uomini e però non dandosene nessuna per ciò che di essi ignora. Perciò gli viene tanto facile essere sincero con le proprie illusioni fino al punto di ritenere che il presente sia paragonabile al passato secondo le idee che egli si è fatto di se stesso e della nostra epoca (*).



Poi Scalfari pontifica: “Nei tempi oscuri che stiamo attraversando sono molti quelli che hanno rinunciato alla narrazione oppure che l’hanno trasformata in una favola senza alcun riscontro con la realtà. Le narrazioni sono ovviamente soggettive poiché ciascuno di noi guarda il passato con i propri occhi, ma il riscontro con i fatti avvenuti è doveroso; poi ci sarà il confronto sulle differenze. Le favole, invece, sono lo strumento preferito dei demagoghi e servono solo per accalappiare gli allocchi”.

Appunto. Quella di Scalfari, fin dalla premessa, è una posizione idealistica: nella sua ricostruzione abituale dei fatti economici e sociali, la base reale della società non è minimamente disturbata, nessuna delle reali contraddizioni che stanno a fondamento della crisi storica del modo di produzione capitalistico viene toccata.

Nel descrivere le contraddizioni nelle quali si dibatte il capitalismo e la società che gli corrisponde, Scalfari si limita a prendere atto degli effetti e degli influssi più manifesti delle dinamiche di quella che egli assieme a tanti altri chiama globalizzazione. Nemmeno lo sfiora – o almeno non può darlo a vedere – il sospetto che l’erompere in tutti gli ambiti dell’articolazione sociale del conflitto esistente fra le forze produttive della società e i rapporti di produzione costituisca una contraddizione di carattere oggettivo – sia pure e per ovvie ragioni in contrasto con la narrazione borghese – alla base della crisi generale del modo di produzione capitalistico.

La quale crisi generale, occorre precisarlo, non significa semplicemente crisi del processo di accumulazione, caduta del saggio medio del profitto, sovrapproduzione di capitale e di capacità produttiva. Il capitale è un rapporto sociale e non semplicemente una cosa. La crisi mostra, al livello di sviluppo attuale delle forze produttive, ossia a fronte di una capacità sociale inedita e traboccante di produrre ricchezza, quanto le condizioni sociali della sua distribuzione siano soggette a dei rapporti sociali ristretti e miserabili. Quanti siano, a fronte delle possibilità e delle potenzialità, gli esclusi, e come ciò ormai venga a toccare inevitabilmente le sorti di quelle classi che credevano superate le contraddizioni del passato e vivevano il presente come un tempo assoluto dove sarebbe stato possibile solo migliorare le proprie condizioni di vita, di lavoro e di consumo. Secondo, appunto, la narrazione degli ideologi borghesi.

Scalfari anche sull’evoluzione degli uomini e dalle idee che essi si fanno del processo storico in atto, non ha da dire molto, se non appunto che è il racconto e il confronto con il passato che deve conformare e confermare il nostro agire sul presente, con ciò suscitando una coscienza sul fatto storico nella sua interpretazione narrativa, al punto che la storia successiva diventa lo scopo di quella precedente.

E le voci della narrazione alle quali dovremmo dare ascolto sono quelle del governatore della banca d’Italia e del presidente della repubblica (e daglielo ‘sto cazzo di laticlavio a Scalfari). E poi c’è un “terzo protagonista”, nientemeno che l’attuale presidente del consiglio, al quale spetterà, allo scadere dei primi cento giorni del suo governo, di trarre indicazioni politiche dalla duplice narrazione”. Altro che pippe, qui si va sul solido, sulle narrazioni economiche e sociali irresistibili.

Scalfari scrive a proposito dell’intervento di Visco:

“La forza lavoro ha quasi interamente disertato dall'agricoltura e si è riversata nei servizi che però sono quasi tutti di manovalanza o di professionalità strettamente corporative. Il capitalismo ha una dimensione d’incroci azionari incestuosi che designano un sistema di tipo oligopolistico. Le innovazioni difettano, la finanza prende il posto della manifattura, langue la ricerca aumentano le rendite e le diseguaglianze, il tasso di evasione e il mercato sommerso galoppano, la classe operaia si frantuma in centinaia di contratti”.

E queste sarebbero le dinamiche del capitalismo “dalla seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso”? Sono rimasti un po’ indietro con le letture. L’urbanesimo e la proletarizzazione datano da almeno alcuni secoli e l’accelerazione di tale fenomeno in Italia è avvenuta tra gli anni 1950 e 1960, con le deportazioni di massa verso il triangolo industriale. Quanto alla “dimensione d’incroci azionari incestuosi che designano un sistema di tipo oligopolistico” bastava leggere non dico Lenin, frutto proibito e destabilizzante, ma almeno Hobson, non solo quello di Imperialism (1902), ma già quello di The evolution of modern capitalism (dove esamina le “economie di potere produttivo” e le “economie di potere competitivo”), e dunque senza chiamare in causa quel birichino di Marx, il quale aveva già ben descritto tutto e anche di più.

Da notare quanto scrive Scalfari riferendo le parole di Visco: “la forza lavoro ha quasi interamente disertato dall'agricoltura, la classe operaia si frantuma in centinaia di contratti”, come se il soggetto dell’azione, forza lavoro e classe operaia, agisse in proprio, per autonoma determinazione e non secondo le circostanze create dallo sviluppo capitalistico e dalle sue contraddizioni.

Ma questo post è già diventato troppo lungo e per oggi non voglio dedicare altro tempo alle solite sciocchezze scalfariane.


(*) “Come non si può giudicare un uomo dall'idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente fra le forze produttive della società e i rapporti di produzione(Karl Marx, Prefazione a Per la critica dell’economia politica).

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