Ogni scoperta di fatti nuovi conduce inevitabilmente alla formulazione di una più o meno nuova teoria da adattare a tali fatti. Ciò accade anche per quanto riguarda le nuove tecnologie.
Ciò si riflette inevitabilmente nell’incongruenza tra queste formulazioni teoretiche, con i loro ipertoni idealistici e metafisici, e le basi empiriche sulle quali sono erette. Ho già citato in precedenti post, per esempio, le teorie di Federico Faggin.
Fintantoché noi non comprenderemo il reale rapporto esistente tra uomo e macchina, per esempio la differenza qualitativa tra intelligenza umana e capacità elaborativa e computazionale delle macchine, non potremmo porre esattamente nessuna delle domande più specifiche che sorgono in questo campo, né tantomeno rispondere ad esse.
Sembrerà strano, ma finora i rapporti interfunzionali tra noi e le nuove macchine non sono stati indagati in modo adeguato (oppure appartengono alla sfera dei segreti industriali o di Stato), arrivando perfino ad attribuire la possibilità, da parte delle macchine, di avere una loro propria struttura della coscienza.
Sia chiaro che non intendo sottovalutare l’importanza straordinaria delle macchine quale fattore decisivo di ogni attività umana: non è questo il punto qui in discussione. Né qui m’interessa porre in luce che gran parte dei frutti (anche negli elementi immateriali) dello straordinario sviluppo tecnologico degli ultimi decenni va ad appannaggio di smodate gratificazioni private.
Mi illudo sia implicito nella coscienza di ognuno di noi che la tendenza all’accumulazione fine a sé stessa, favorita potentemente dalle nuove tecnologie e dalla forzata espansione di consumi superflui quando non demenziali, è indice di un modo di produzione dove sono assenti o scarseggiano criteri sociali, peraltro in presenza di una crisi di governance politica che sta assumendo aspetti inediti.
Ciò che invece intendo sottolineare a riguardo dell’avvento delle cosiddette macchine “intelligenti”, è il fatto che senza un effettivo controllo sociale, si tende ad una pericolosa tensione nella struttura della società e nelle relazioni umane. Del resto, la natura del tecnicismo (non solo perché legato agli interessi del capitale) è tale che non può fornirci risposte adeguate in tal senso.
Ciò premesso, e alla luce del mito che circonda le macchine dotate della cosiddetta intelligenza artificiale, reputo che tali macchine mai potranno sviluppare una coscienza già solo a livello di quella di un cane. Al massimo, potranno essere dotate di singole funzioni simil-psichiche, ma mai sviluppare una coscienza unitaria quale quella umana.
Pongo la questione su un piano a mio avviso decisivo: per l’essere umano il lavoro è il soddisfacimento di un bisogno; l’attività umana ha degli scopi ultimi e unici. Viceversa, il lavoro di una macchina non è mai lavoro volontario, e il suo prodotto le sarà sempre estraneo, qualunque possa essere il suo grado di interazione con la propria attività.
La macchina, per quanto sofisticata e “intelligente”, è immediatamente una cosa sola con la sua attività. Non si distingue da essa. L’uomo fa della sua attività l’oggetto (e il luogo di realizzazione) stesso della sua volontà e della sua coscienza. La sua propria vita è un suo oggetto, proprio soltanto perché egli è un essere appartenente a una specie (la coscienza di appartenere alla sua specie!). Soltanto per questo motivo la sua attività è un’attività libera.
Una macchina è in grado di scrivere un libro come Storia e coscienza di classe, anzi di aggiornarne i contenuti e di migliorarlo. Tuttavia essa non sarà mai in grado di sviluppare una propria coscienza, tantomeno una coscienza di classe. Le macchine sono anch’esse delle schiave, con la differenza che lo schiavo, antico o moderno, come essere umano vive la propria condizione nella realtà di determinati rapporti storico-sociali.
Dati gli attuali rapporti di produzione, anche il lavoro salariato vive una condizione di estraneazione in rapporto al proprio prodotto. Ma se in tal caso il prodotto del lavoro dell’operaio è la sua alienazione, per una macchina la questione nemmeno si pone. Questo rappresenta un altro dei motivi per i quali il padronato accarezza l’idea di sostituire completamente la forza-lavoro con macchine (e con esse dominare il processo storico).
Infatti, come scriveva Marx, “Il lavoro estraniato rovescia il rapporto in quanto l’uomo, proprio perché è un essere cosciente, fa della sua attività vitale, della sua essenza soltanto un mezzo per la sua esistenza”. E ancora: “Una conseguenza immediata dell’uomo reso estraneo al prodotto del suo lavoro, è l’estraneazione dell’uomo dall’uomo”. Esattamente come avviene per una macchina, estranea al prodotto del proprio lavoro e al godimento di esso.
Le macchine, in forza del loro autonomo funzionamento, fanno pensare ad una loro realtà indipendente dagli uomini. Inoltre, proiettando delle facoltà umane sulle concrete forme di attività delle macchine, si è creata l’illusione che esse siano di livello superiore all’uomo, fino a farci credere che esse siano il simbolo finale del progresso e della civiltà.
Sembra quasi che le macchine, cui abbiamo attribuito un super-ego, si differenzino da noi umani solo in ciò che è accidentale. E siamo arrivati al punto che esse servono soprattutto per produrre più vasti schemi di sottomissione, di rapina e di ricatto. Siamo come i personaggi di Thomas Mann ne La montagna incantata: infermi e parte di un mondo decadente e malato.
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