lunedì 6 maggio 2024

La riduzione della giornata lavorativa

 

Correva l’anno 1866. Al congresso di Ginevra della Prima Internazionale, Marx propose la limitazione legale della giornata lavorativa a otto ore.

Vent’anni dopo, le manifestazioni di Haymarket, in ricordo delle quali deriva il 1° maggio, avevano ad oggetto la riduzione dell’orario di lavoro.

Perché tanta resistenza da parte del padronato verso la riduzione della giornata lavorativa? Per rispondere a questa domanda si deve mettere in rilievo quello che è il punto critico del modo di produzione capitalistico.

Le merci sono prodotti del lavoro umano. Il valore di una merce è determinato dal tempo di lavoro necessario per produrla (cui si somma il costo di materie prime, ausiliarie, ecc.). Ovvio che il capitalista non acquisti la forza-lavoro per ottenere dall’impiego produttivo di essa lo stesso valore del prezzo pagato (salario) per acquistare quella stessa forza-lavoro.

Pertanto il capitalista deve sfruttare il lavoro dell’operaio per un tempo maggiore di quanto serve per produrre l’equivalente del suo salario. Ecco il perché della reazione rabbiosa del padronato (e dei suoi scrivani) alla richiesta di riduzione dell’orario di lavoro.

Lo sfruttamento non è prerogativa del solo modo di produzione capitalistico; tuttavia solamente nel capitalismo lo sfruttamento assume la forma storica e determinata di appropriazione di lavoro non pagato (*).

Se la giornata lavorativa corrispondesse soltanto alla creazione di un valore pari al salario, se cioè fosse composta tutta da lavoro pagato, la diminuzione di orario in corrispondenza di un aumento della produttività sarebbe un fatto naturale e praticamente automatico; nelle condizioni date, invece, l’aumento della produttività causa soltanto una riduzione delle ore in cui l’operaio lavora per sé (per il proprio salario), a tutto vantaggio delle ore in cui l’operaio lavora gratis per il padrone (plusprodotto).

Analogo discorso si potrebbe fare per il cottimo o lavori comunque incentivati, sistemi con i quali si riesce ad accorciare il tempo di riproduzione del salario e l’incentivo è sempre molto al di sotto del vantaggio che il padrone stesso trae dal prolungamento del tempo di lavoro (**).

Il motivo per cui il padronato cerca di mantenere, da contratto a contratto, gli stessi orari è evidente: l’incremento della forza produttiva del lavoro non ha per nulla lo scopo di abbreviare la giornata lavorativa, di liberare tempo “libero”. Ha solo lo scopo di abbreviare il tempo di lavoro necessario per la produzione di una determinata quantità di merci (dunque anche abbreviare il tempo di lavoro necessario per produrre l’equivalente del salario). La creazione di plusvalore è lo scopo animatore, dominante ed ossessivo del capitalista, il pungolo e il contenuto assoluto del suo operare (***).

Date queste premesse, è chiaro il motivo per il quale i padroni si oppongono in tutti i modi alla riduzione della giornata lavorativa e ad altre misure accennate. Maggiore è la durata della giornata lavorativa, e maggiore sarà, a parità di condizioni, il grado di sfruttamento della forza-lavoro.

I soliti bischeri parlano di “capitale umano” perché essi considerano la vita umana del salariato sotto il punto di vista del capitale, per cui il proletario è solo una macchina per consumare e produrre; gli uomini non sono niente, la valorizzazione del capitale è tutto (il capitale privato sussumerà anche lo Stato? svuoterà progressivamente il potere politico fino a lasciarne solo un vuoto involucro utile a rappresentazioni di proscenio? Sta avvenendo! Ma il capitale non può sopravvivere alle sue crisi ontologiche senza iniezione di denaro pubblico e architettura legislativa su misura).

Le lotte per la riduzione della giornata lavorativa hanno ottenuto la riduzione dell’orario di lavoro a otto ore giornaliere, ma non ci si schioda da questo orario da un secolo. Di vera e propria lotta a tale scopo nemmeno l’ombra, e ciò nonostante l’enorme incremento della produttività del lavoro in forza dello sviluppo tecnologico.

Si può ben dire che i salariati siano stati abituati a ritenere ovvie le esigenze dei padroni e dunque normale la loro servitù volontaria. Evidentemente poco importa ai salariati di produrre tempo libero per delle classi sociali di mantenuti mediante la trasformazione in tempo di lavoro del proprio tempo di vita. Tutto sommato, mediamente, la vita del salariato è una bella vita. Che avesse ragione Marchionne a dire che la lotta di classe è un anacronismo?

Anche il cosiddetto comunismo, nella sua prima forma storica moderna, intendeva annullare tutto ciò che non è suscettibile di essere posseduto da tutti, ma ciò era soltanto la generalizzazione fittizia della proprietà comune. In tal modo la prestazione del salariato non veniva soppressa, bensì estesa a tutta la società, né veniva ridotta la giornata lavorativa.

Come aveva ben spiegato Marx, il ricambio organico uomo/natura rimane sempre un regno della necessità. Il vero regno della libertà incomincia “con lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a sé stesso, e tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità. Condizione fondamentale di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa” (III, cap. 48).

Marx, scoprendo le leggi del “lavoro determinato dalla necessità”, trasforma la libertà da sogno utopico in coscienza della realtà. In altri termini Marx ci indica la strada per il regno della libertà, fermo restando la necessità di provvedere ai nostri bisogni attraverso il lavoro di produttori associati che regolano razionalmente il ricambio organico con la natura. Anzi, tali bisogni si espandono, ma si espandono proprio perché le capacità umane sono in grado di soddisfarli.

Con lo sviluppo delle forze produttive, è possibile ridurre il tempo di lavoro socialmente necessario ad un minimo. Se non viene ridotta progressivamente la giornata lavorativa in rapporto alla produttività del lavoro, si potrà fare qualunque rivoluzione, chiamare un sistema sociale col nome di socialismo, comunismo e, se piace di più, col nome di liberalismo democratico, ma si tratterà pur sempre di forme di una reale servitù dei produttori a degli scopi ed interessi a loro estranei.

Il fatto che possano essere concesse alcune libertà di dire e di fare non assolve il sistema sociale dallo stigma di essere sostanzialmente la dittatura di una minoranza che sfrutta a proprio vantaggio il lavoro della maggioranza. Perciò è necessaria la lotta di classe, ponendosi come obiettivo prioritario la riduzione della giornata lavorativa.

Di quanto ridurre la giornata lavorativa al minimo necessario è un compito tecnico basato sull’analisi scientifica. Tuttavia ciò può avvenire solo a condizione di trasformare gli attuali rapporti sociali in nuovi rapporti tra produttori associati, che portano sotto il loro comune controllo l’economia e la regolano razionalmente, di modo da non essere da essa dominati come da una forza cieca. Una simile trasformazione epocale dipende dal processo storico di sviluppo oggettivo, ma essa non può avvenire senza l’intervento dell’insieme degli artefici e dei produttori della futura comunità reale (la tecnologia da sola non cambia la società).

(*) Una precisazione mi pare necessaria perché c’è confusione interessata nel dire che il lavoro non deve essere trattato alla stregua di merce. La forza-lavoro è la capacità lavorativa umana: essendo una forza produttiva, essa è comune a tutte le epoche storiche. È soltanto nel modo di produzione capitalistico che la capacità lavorativa umana assume la forma di merce (ciò avviene anche in epoche e modi di produzione diversi dal capitalismo, ma non in modo generale e prevalente). Nel capitalismo, dunque, la forza-lavoro è merce (il salariato che incarna la forza-lavoro è perciò esso stesso merce) e si distingue da tutte le altre merci per il fatto che il suo valore d’uso (il suo impiego) produce un valore maggiore di quello che possiede (cioè maggiore di quanto viene pagata la forza-lavoro).

(**) Contestualmente alla riduzione d’orario a parità di salario, devono essere aboliti gli straordinari, turni notturni, cottimi e altri incentivi e posto l’assoluto divieto di aumento dei ritmi (va anche tenuto conto che orari più brevi consentono ai lavoratori di mantenere una maggiore intensità di lavoro poiché questa maggiore intensità deve essere mantenuta per un periodo di tempo più breve). Si tratta in realtà di aumentare l’occupazione, ma ciò è in palese contrasto sia con la natura stessa dell’appropriazione privata del plusvalore e sia con la questione della “competitività” su scala sia locale che globale.

(***) Nei periodi di crisi, o perché un certo settore produttivo ha raggiunto la saturazione rispetto alla domanda, si presenta la necessità di ridurre l’attività globale di una azienda, per cui si ricorre alla cassa integrazione guadagni o a licenziamenti (e ciò appare chiaramente un controsenso in un mondo in cui aumenta la produttività del lavoro ma si mantiene la giornata lavorativa di 8 ore). Si ricorre, di fatto, anche alla riduzione dei salari, non adeguandoli all’inflazione, non rinnovando i contratti, oppure introducendo forme contrattuali peggiorative. E ciò di solito avviene in accordo con i sindacati (tutti o alcuni) e dei partiti politici (tutti).

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