Shlomo Sand, già professore ordinario e ora emerito all’Università di Tel Aviv, è uno dei più reputati storici israeliani. Nel 2008 pubblicò L’invenzione del popolo ebraico. Osserva: «Vedendo sulla carta geografica dove vivono gli arabi tra il fiume e il mare e dove vivono gli ebrei israeliani tra il fiume e il mare, si capisce che i due popoli sono oggi inseparabili. Ci sono più di due milioni di arabi cittadini israeliani, ce ne sono altri cinque milioni a Gaza e in Cisgiordania, più o meno c’è uno stesso numero di ebrei che vivono su questa terra. Non ho nulla contro l’idea di uno Stato palestinese, però è irrealizzabile. Lo è da tempo, lo è ancora di più dopo il 7 ottobre. Ma il 7 ottobre ha mostrato che anche uno Stato ebraico non ha futuro: serve uno Stato israeliano, in cui i palestinesi siano cittadini a pieno titolo [...]».
Roberto Della Seta, lo intervista per il manifesto e gli chiede: «Lei si considera sionista?
No, non sono sionista perché non credo che Israele debba appartenere agli ebrei del mondo. Ho desiderato per tutta la vita che Israele fosse lo Stato dei suoi cittadini e non lo Stato degli ebrei nel mondo. Uno Stato come l’attuale Israele che dichiara di appartenere non ai suoi cittadini ma agli ebrei di tutto il mondo, per esempio anche agli ebrei italiani, non è uno Stato democratico.
«[...] In parte ha già risposto ma glielo chiedo di nuovo: Israele è uno Stato democratico?
No, non lo è. Non lo è nei territori occupati e non lo è neanche dentro le sue frontiere legittime. È uno Stato liberale. Il fatto che io possa insegnare liberamente dimostra che siamo uno Stato liberale. Ma uno Stato democratico è un’altra cosa: è uno Stato che appartiene a tutti i suoi cittadini.
«[...] Ecco: uno Stato così non è democratico. Io mi batto per l’uguaglianza tra tutti i cittadini israeliani. E so che gli ebrei israeliani potranno continuare a vivere in Medio Oriente solo insieme ai palestinesi.
«Lo racconto nel mio ultimo libro [Deux peuples pour un État, da poco uscito in Francia]: grandi intellettuali ebrei del passato avevano già chiaro che uno Stato esclusivamente ebraico in Palestina sarebbe stato condannato a una guerra perpetua. Tra questi Hannah Arendt, contraria ai due Stati e favorevole a una federazione arabo-ebraica: per lei la nascita di uno Stato esclusivamente ebraico era la premessa inevitabile di guerre continue.»
In un suo libro, Come ho smesso di essere ebreo, Sand scriveva:
«Ottenere che l’Olocausto fosse riconosciuto come uno snodo chiave del rapporto memoriale tra l’Europa e la seconda guerra mondiale diventava un’esigenza morale. La nuova politica sionista e pseudo-ebraica, però non poteva accontentarsi di così poco: marchiare a fuoco il ricordo delle vittime nella coscienza occidentale era solo il primo passo. Si trattava in primo luogo di rivendicare il monopolio della sofferenza proprietà specifica ed esclusiva della nazione ebraica. È in quegli anni che muove i primi passi quella che oggi, non a torto, alcuni chiamano “industria della Shoah”.
«Tutte le altre vittime del nazismo furono relegate ai margini, e il genocidio si trasformò in un’esclusiva ebraica. Da quel momento risulto inammissibile paragonare la tragedia degli ebrei allo sterminio di qualunque altro popolo. Quando gli armeni americani di seconda e terza generazione chiesero che fosse introdotta una ricorrenza ufficiale per commemorare il genocidio dei loro antenati per mano dei turchi ottomani, la lobby filosionista prese le parti della Turchia e cercò di bloccare a tutti i costi il progetto.
«A partire dagli anni 70 il numero dei discendenti di sopravvissuti non ha fatto che aumentare: di punto in bianco si è iniziato a sgomitare per fare parte dei superstiti. Moltissimi americani di origine ebraica, gente che non aveva mai messo piede in Europa negli anni della seconda guerra mondiale né offerto alcun aiuto materiale alle vittime all’epoca del massacro, si sono dichiarati eredi diretti dei sopravvissuti dei campi di sterminio. I figli di ebrei iracheni e nordafricani hanno finito per considerarsi a tutti gli effetti vittime del nazismo, e non sono stati gli unici. Negli stessi anni in Israele si è iniziato a parlare di una “seconda generazione della Shoah”, poi di una “terza generazione”. Il capitale simbolico rappresentato dalla sofferenza di un tempo, come tutti i capitali, doveva passare ai discendenti in quanto legittima eredità.
«A poco a poco la vecchia identità religiosa, quella del popolo eletto, ha lasciato il posto al duplice culto della vittima eletta da un lato e della vittima esclusiva dall’altro [...].»
*
È in nome di quel monopolio della sofferenza e di quella eredità che Israele si sente autorizzata a far vivere in un regime di apartheid milioni di arabi palestinesi (e non solo). Ad occuparne le terre, demolirne abitazioni, confiscarne i beni, a non riconoscere il loro diritto sulle risorse naturali (acqua e giacimenti di idrocarburi). Soprattutto il diritto, in nome della eredità capitalizzata con la Shoah, di poter impunemente massacrare una popolazione inerme. E tutto ciò avviene con il consenso della maggioranza degli israeliani, dell’autoidentificazione di essere “un popolo” (si pretende per discendenza di un’antica tribù!), un club etnico d’élite, ed eredi di una memoria dolorosa spesso sfruttata in malafede, pronti a rinfacciare di antisemitismo chiunque si opponga alle loro pretese e ai loro crimini.
Metodologicamente, mi viene di essere d’accordo. La sociologia, dopo tutto, è generalizzazione. Occhio, però: finché il metodo è applicato al popolo ebraico, tutto va bene. Anche per i tedeschi non c’è problema (ricordiamo il bel libro “I volonterosi Carnefici di Hitler”). Per i russi, che i tifosi simpaticamente chiamano ruzzi, di recente si è verificato un plebiscito di generalizzazioni negative, fino a coinvolgere quel brutto ceffo di Dostoevskij. Ma occhio, dicevo, perché andando allo stadio, anch’esso luogo deputato al tifo, potrebbe capitare di indirizzare anatemi ai tifosi partenopei, presi frettolosamente a rappresentanza di un popolo: e la Lega Calcio non vuole. C’è poi chi applica il metodo agli immigrati di vari paesi, sempre insistendo sull’etnia, specie in occasione di reati più o meno gravi. Ciò è vietatissimo, ma non vedo la differenza metodologica: oltre a tutto, si basa su statistiche più attendibili di quelle di Hamas. E siamo arrivati lì: possiamo applicare il metodo ai palestinesi, intesi come popolo? Naturalmente possiamo dire sì, generalizziamo, e ne viene fuori un quadro idilliaco: un popolo laborioso, mite, rispettoso delle diversità, specie dei ricchioni. Un popolo buono. Oppure possiamo dire che è un popolo fiero, di resistenti. Qualcuno lo definirà un popolo di criminali, ma sta desolatamente a cavallo di una coda della gaussiana. Per dirimere la controversia, possiamo esaminare il gradimento dei palestinesi da parte degli altri arabi, nell’arco di tempo che va dal 1948 a oggi, avvertendo i provocatori che non si può tollerare un riferimento troppo esplicito al Settembre Nero: oggi, le braccia sono fraternamente aperte. Tutti li vogliono.
RispondiEliminaO no?
ti aspettavo. la tua critica parte dall'assunto che si tratti di "generalizzazioni sociologiche". che di solito è un modo generico per screditare la posizione altrui. nello specifico mi potresti fare uno o più esempi di generalizzazione sociologica riguardo a ciò che è scritto nel post?
EliminaPreciso che nel post non ho preso in esame se i palestinesi sono buoni o cattivi (ho scritto in proposito del fanatismo islamico già in passato), rilevo che in Palestina vivono in un regime di apartheid, che non è una generalizzazione sociologica, ma un dato di fatto documentato. Se non ti piace il termine apartheid ne possiamo trovare un altro.
Sono un po' sorpreso. Mi pare indubitabile che l'ultima frase del post sia una generalizzazione sociologica. Riguarda il popolo ebraico, non quello palestinese.
EliminaMa altro motivo di sorpresa è che io sono d'accordo con te, dal punto di vista metodologico. Forse hai pensato che io fossi ironico. Prendiamo il popolo tedesco: è stato veramente corresponsabile di quello che è successo fra il 1933 e il 1945. Noi abbiamo il diritto di generalizzare, e non è significativo che ci sia stato qualcuno che borbottava qualcosa contro Hitler. Per andare su cluster sociologici più ristretti, esistono, per esempio, aree del territorio italiano nelle quali la popolazione vive un rapporto omertoso, cioè di complicità, con le organizzazioni mafiose. Mi sento in diritto di generalizzare, anche se lì in mezzo forse c'è qualcuno di specchiata onestà (che però si tiene ben lontano dalla caserma dei carabinieri). Quello che ho detto è che sarebbe equo applicare lo stesso metodo anche ai palestinesi. A questo proposito, c'è in giro un certo doppiopesismo.
No, Erasmo, nessuno li vuole, ma esistono. Accettarne l'esistenza non significa iscriverli nel registro dei buoni, è irrilevante quanto siano buoni o cattivi. E' rilevante che non si possono massacrare in quanto non appartenenti al popolo eletto e che danno fastidio. Sappiamo bene che i buoni non esistono a livello collettivo, ma soltanto a livello individuale. Israele faccia la sua scelta. Se vuole continuare a esistere prescindendo da un impero traballante, deve buttare ai pesci tutto l'armamentario etnico - religioso. In caso contrario si autocondanna nel medio periodo. Non è più il 1967, i tempi stanno cambiando. Cari saluti, apprezzo spesso i suoi post. Morvan.
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