Si dice che Lenin abbia dichiarato che il modo migliore per distruggere il sistema capitalista sia di svalutare la moneta. Attraverso un processo continuo di inflazione i governi possono confiscare, con mano segreta e senza dare nell’occhio, una parte cospicua della ricchezza dei cittadini. Anzi, con questo sistema non solo confiscano, ma confiscano arbitrariamente ed il processo, mentre impoverisce molti, arricchisce alcuni. La vista di questo arbitrario movimento di ricchezze mina non solo la sicurezza ma anche la fiducia nell’equità dell’attuale distribuzione delle stesse. [...] Con il procedere dell’inflazione e con il fluttuare violento del valore reale della moneta da un mese all’altro, tutti i rapporti permanenti fra debitori e creditori, che costituiscono il fondamento sostanziale del capitalismo, ne sono a tal punto scompaginati da perdere quasi significato. Ed il processo di acquisizione della ricchezza degenera in un gioco d’azzardo.
Senza dubbio Lenin aveva ragione. Non esiste mezzo più sottile e sicuro per rovesciare le basi della società esistente che svalutare la moneta. Il processo impegna tutte le forze segrete dell’ordinamento economico sul fronte della distruzione e ciò in modo tale che neppure un individuo su un milione è in grado di farne la diagnosi (John Maynerd Keynes, Esortazioni e profezie (Inflazione, 1919), il Saggiatore, p.71).
Nel mentre dubito che Lenin abbia fatto una simile dichiarazione, ossia ponendo la contraddizione principale suscettibile di distruggere il sistema capitalista nell’ambito della sfera monetaria, non si può non prendere atto che Keynes a riguardo dell’inflazione descrive il fenomeno con lucida analisi.
Per quanto riguarda il resto, non c’è economista volgare, compreso Keynes, che non tratti l’economia politica in modo del tutto mistificatorio (*).
Si pensi solo alla categoria economica del cosiddetto “valore aggiunto”. Con esso s’intende: “la misura dell’incremento di valore che si verifica nell’ambito della produzione e distribuzione di beni e servizi finali grazie ai fattori produttivi adoperati a partire da beni e risorse primarie iniziali” (la definizione che si può leggere nella Treccani è sostanzialmente questa, e così nei manuali di economia politica in uso ovunque).
L’attenzione va posta sulla locuzione “fattori produttivi” (idem “input produttivi”). Dunque, il famigerato valore aggiunto sarebbe il frutto dell’azione combinata del capitale complessivo, vale a dire i mezzi di produzione e il lavoro umano. La base essenziale di tutto il grande inganno dell’economia politica volgare sta proprio in questa formulazione onnicomprensiva, che punta a nascondere la realtà dello sfruttamento della forza-lavoro produttiva.
Eppure basterebbe far caso, per smentire tale semplicistico assunto, che se entriamo in una fabbrica si presentano davanti ai nostri occhi una varietà di “fattori produttivi” (impianti fissi, macchinari, materie prime e ausiliarie), ma se non ci sono gli operai che mettono in opera tali fattori, essi non producono un solo atomo di nuovo valore, alias “valore aggiunto”, alias plusvalore.
Questo perché solo il lavoro umano può creare nuovo valore. Tutti gli altri cosiddetti fattori o input, in realtà nel processo produttivo non fanno che cedere passivamente e pro quota, cioè di volta in volta, il proprio valore originario alle merci prodotte.
Tutti gli economisti volgari, nessuno escluso, calcolano il saggio di quel valore aggiunto, ossia del plusvalore, in rapporto a tutto il capitale, cioè in rapporto a tutti i cosiddetti fattori produttivi. Questo approccio, che è un approccio anzitutto ideologico per mascherare la realtà dell’estorsione del plusvalore, porta a diversi equivoci (**).
Il plusvalore, o valore aggiunto, o surplus, per dirla con gli economisti volgari, è frutto di lavoro non pagato all’operaio di cui si appropria il capitalista. Calcolando il saggio del plusvalore in rapporto al capitale variabile (capitale speso in salari), tale saggio mostra in quale proporzione il nuovo valore creato dalla forza lavoro nel processo produttivo è distribuito tra l’operaio e il capitalista, ossia qual è la quantità di lavoro (e di valore) non pagato all’operaio di cui si appropria il capitalista. Per questa ragione, il saggio di plusvalore indica anche il grado di sfruttamento della forza lavoro da parte del capitalista.
Se invece, come pretendono i capitalisti e gli economisti volgari, il saggio di plusvalore viene identificato col saggio del profitto, esso viene calcolato in rapporto al capitale complessivo anticipato, e ciò porta a far credere che sia il “capitale” nel suo complesso la fonte della ricchezza prodotta e che il saggio di sfruttamento della forza lavoro sia notevolmente minore di quanto non sia in realtà.
In base a questa tesi scorretta, i padroni sbraitano che l’introduzione di impianti e macchinari automatici nel processo produttivo riduce progressivamente la funzione dell’operaio nella produzione, il che dimostrerebbe che il capitalismo moderno limita sempre più lo sfruttamento della forza lavoro.
Non è senza fondato motivo, dato il grado di sviluppo raggiunto dalla società e dai mezzi di produzione, chiedersi se non sia possibile pianificare la produzione e distribuire la ricchezza socialmente prodotta secondo criteri diversi dagli attuali. Dunque se non sia giunto il momento di farla finita con la pletora di sanguisughe e di parassiti che vampirizza l’società intera. È ovvio che questi non vogliano mollare bottino, potere e privilegi, è proprio ciò che consiste la lotta di classe.
Al momento questa lotta la stanno vincendo alla grande i padroni della società, e per un motivo già posto in evidenza da Marx: il proletariato ormai è portato a riconoscere, per educazione, tradizione, abitudine, come leggi naturali ovvie le esigenze del modo di produzione capitalistico. E questo avviene anche, se non soprattutto, in forza del fatto che le forze politiche che in passato ne difendevano bene o male gli interessi, dapprima sostenevano dei regimi che con il socialismo non avevano nulla a che fare, e poi, falliti quei regimi sedicenti socialisti, sono passate armi e bagagli dalla parte della borghesia.
(*) Si possono distinguere due grandi fasi storiche del percorso dell’economia politica borghese, di là degli indirizzi delle scuole che sono molteplici: la prima fase va dalla fine del 1600 al primo ventennio del 1800, chiamata economia classica; la seconda fase, successiva e che arriva fino ad oggi, chiamata economia volgare. Keynes fa parte del quinto periodo dell’economia volgare.
(**) Se pensiamo che l’economia politica volgare non sa formulare con precisione la differenza fra capitale costante e capitale variabile, ossia che non ha mai fatto un’analisi esauriente delle differenze nella composizione organica del capitale e ancor meno nella
formazione del saggio generale del profitto, che dunque non ha mai fatto distinzione fra plusvalore e profitto, allora non ci si deve meravigliare del fatto che, fatte selve le loro elucubrazioni e malversazioni in materia commerciale e finanziaria, gli economisti siano senza esclusione alcuna dei cialtroni di prima grandezza. Infatti, l’economista volgare in effetti non fa altro che esprimere in una lingua apparentemente più teorica e più generica le strane idee dei capitalisti, arrabattandosi per dimostrare la fondatezza di tali opinioni.
La cosa che fa più rabbia è che siamo decervellizzati. Non reagiamo neanche quando, con sfrontatezza, ci dicono la VERITÀ : “Lo Stato NON è la soluzione. Lo Stato È il Problema” R. Reagan
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