Ieri, sul quotidiano di Confindustria, Sergio Fabbrini scriveva: “Tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945 è stato sconfitto il regime fascista, espressione di una visione autoritaria (degenerata in totalitarismo attraverso l’alleanza con il nazismo tedesco) che pure aveva conquistato i cuori elementi di buona parte sia della classe dirigente che del popolo italiani”.
Dunque, secondo Fabbrini e molti altri che la pensano come lui, le leggi fascistissime del 1926, il Tribunale speciale (1927-1943), con 4.596 condannati (dei quali 697 minori), con 27.752 anni comminati agli oppositori, 31 condanne a morte eseguite (spesso condanne irragionevoli e sproporzionate, come ebbe a rilevare nelle sue memorie Guido Letto, ex capo dell’OVRA) e altre quisquilie del genere, denotavano essere il fascismo un regime autoritario, ma non totalitario, come divenne solo dopo, attraverso l’alleanza con il nazismo tedesco, e cioè dalla seconda metà degli anni 30 e poi durante la guerra.
La soppressione della libertà di stampa, di riunione, di manifestazione del pensiero e, per converso, la martellante propaganda del regime, in un paese arretratissimo, con il 70% della forza lavoro addetta all’agricoltura, in condizioni spesso di schiavitù colonica, e avendo contro una sparuta opposizione politica, in gran parte riparata all’estero e divisa su ogni questione, spiega anche alcune delle principali ragioni del consenso di cui godette il regime.
Il fascismo si era infiltrato profondamente nella vita nazionale, avvolgendola e seducendola, ricoprendola di una rete fitta di interventi e controlli ai quali non si poteva sfuggire. Per quanto riguarda il consenso delle giovani generazioni, si deve tener conto che esse erano cresciute sotto il regime fascista, non avevano conosciuto altra esperienza politica che quella del fascismo ed erano maturate nel clima totalitario del regime, e solo in seguito quei giovani scoprirono quanto fosse divorante, compromettente e intollerante quel clima che instillava l’odio per la democrazia, il disprezzo per la libertà, la bellezza della violenza, il culto della guerra, l’obbedienza cieca e assoluta, la devozione fideista al capo e così via.
No, il fascismo non fu solo un regime autoritario e burlesco dalla tragica fine. O almeno non fu solo questo. Questa tesi fu sostenuta nel dopoguerra da giornalisti e nella storiografia italiana di vario orientamento, per comodo da Indro Montanelli, fervente ex fascista, apologeta di Mussolini, ma venne proposta nel 1925 anche da Piero Gobetti, che legava il fascismo al “carattere degli italiani”, richiamando il fascismo come “autobiografia della nazione”.
Una lettura fuorviante di ciò che fu in realtà il fascismo nel suo sviluppo. Nel considerarlo come una “nullità storica”, anche il problema del suo retaggio perde d’importanza, perché ridotto a questioni marginali, ossia al problema del “temperamento degli italiani”, termine generico che indica soprattutto i vizi, le deficienze, le debolezze delle mentalità e dei costumi italiani. In tal modo il fascismo sarebbe stato il frutto del carattere degli italiani, aggravandone i difetti, lasciando come eredità più pesante e persistente una vocazione al trasformismo e al conformismo.
La macchina dello stato totalitario, si basava su tre elementi: l’attribuzione di pubblici poteri a un partito politico, creando una prima distinzione tra cittadini di diritto e cittadini non iscritti al partito, privati di parte dei loro diritti; l’identificazione dei fini e dei mezzi dello Stato con quelli del partito dominante (ad esempio, parte delle entrate statali veniva spesa per la propaganda del partito al potere; la polizia utilizzata per combattere gli oppositori politici del partito e persino i membri del partito che si opponevano alla direzione; gli organi dello Stato frammisti agli organi del partito e con essi confusi, ecc.); le funzioni del capo del partito divennero tutt’uno con quelle del capo del governo.
Il rifiuto del problema del totalitarismo nell’analisi del fascismo ha impedito di comprendere le radici sociali profonde del totalitarismo fascista, la sua persistente eredità nello Stato, nella politica e nella società repubblicana italiana, e oggi permette di presentare il suo percorso storico, fino all’infausta alleanza hitleriana, in chiave autoritaria ma non totalitaria. Si tratta in buona sostanza di banalizzare e defascistizzare il fascismo.
Questa versione addolcita e falsa del fascismo, impedisce di analizzare l’effetto perdurante che questa esperienza totalitaria ha avuto su milioni di italiani, il retaggio lasciato nella mentalità, nei costumi, nei comportamenti di un buon numero di essi da vent’anni di sottomissione del pensiero critico a un pensiero irrazionale, di un regime totalitario prevaricatore e invasore che aveva riunito, per la prima volta nella storia italiana, milioni di uomini e donne nelle sue organizzazioni di massa.
Quando si dice che in Italia c’è una pericolosa ripresa della tendenza al totalitarismo, non si tratta di usare una figura retorica, bensì di osservare oggettivamente la realtà in un contesto di grave crisi degli istituti democratici. Dunque è necessario comprendere che la lotta a questa tendenza non può essere utilizzata solo a fini d’espediente polemico e di strumentalizzazione politica.
(*) La nozione di “Stato totale” è in sintonia con i tempi della Grande Guerra, definita essa stessa “guerra totale”. Viene utilizzata in particolare da Carl Schmitt nel suo Politische Theologie. L’aggettivo “totalitario”, non a caso, nasce in Italia nel 1923, tra gli intellettuali antifascisti che designano così una versione moderna dell’assolutismo. Il fascismo stesso se ne appropria in un momento in cui sta passando da movimento politico a regime. Due anni dopo, Mussolini rivendicò la “feroce volontà totalitaria” del fascismo prima di riassumerla con questa formula: “tutto nello Stato, nulla fuori dello Stato, nulla contro lo Stato”.
Penso che si debba allargare l’orizzonte. In principio fu la BUGIA, col Potere(inciucio tra sciamani e guerrieri), che con la Paura(violenza terrena e trascendente) e la carota(panem et circenses), ha controllato la società fino alla caduta degli assolutismi.
RispondiEliminaCol passaggio alla “democrazia” capitalista il controllo della società(decervellizzazione) è ottenuto, più subdolamente, col panem, companatic..um et circenses e, quando necessario, con la violenza fascista.
E pensare che era un socialista... o forse non a caso?
RispondiEliminaPietro
Sono anch'io convinto che, di fronte ad una svolta reazionaria di queste dimensioni, le risposte moralistiche o antropologiche, retaggio di una subcultura tardo-azionista, prima salveminiana e poi bobbiana, lasciano ormai del tutto insoddisfatti. La debolezza politica e ideologica di analisi come queste si coglie pienamente sol che si tenga conto dell’assenza di una categoria analitica che è fondamentale per comprendere quale sia la sostanza del fenomeno neofascista. Questa categoria è quella di imperialismo. In questo senso, merita di essere rammentata la fondamentale lezione di metodo che Palmiro Togliatti, all’epoca un marxista-leninista con tutte le carte in regola, svolge nelle sue fondamentali “Lezioni sul fascismo” (1935): «Al IV congresso [dell’Internazionale Comunista] Clara Zetkin fece un discorso sul fascismo il quale fu quasi tutto dedicato a rilevare il carattere piccolo-borghese del fascismo. Bordiga invece insistette sul non vedere alcuna differenza tra la democrazia borghese e la dittatura fascista, facendole apparire quasi come la stessa cosa, dicendo che vi era, fra queste due forme di governo borghese, una specie di rotazione, di avvicendamento. In questi discorsi manca lo sforzo di unire, per collegare, due elementi: la dittatura della borghesia e il movimento delle masse piccolo-borghesi. Dal punto di vista teorico, comprendere bene il legame tra questi due elementi è ciò che è difficile. Eppure bisogna comprenderlo, questo legame. Se ci si ferma al primo elemento non si vede, si perde di vista, la grande linea dello sviluppo storico del fascismo e il suo contenuto di classe. Se ci si ferma al secondo elemento, si perdono di vista le prospettive. Questo errore è quello che è stato commesso dalla socialdemocrazia la quale, fino a poco tempo fa, negava tutto ciò che noi dicevamo sul fascismo e lo considerava come un ritorno a delle forme medioevali, come una degenerazione della società borghese. (…) Perché il fascismo, perché la dittatura aperta della borghesia si instaura oggi, proprio in questo periodo? La risposta voi la dovete trovare in Lenin stesso; dovete cercarla nei suoi lavori sull’imperialismo. Non si può sapere ciò che è il fascismo se non si conosce l’imperialismo».
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