Le infrastrutture americane erano le migliori al mondo, ha detto Joseph Biden in un discorso pronunciato il 5 ottobre nel Michigan (qui il resoconto testuale), ma ora il World Economic Forum classifica gli Stati Uniti al 13° posto. La situazione è ancora peggiore nell’educazione della prima infanzia con l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico che classifica al 35° posto gli Stati Uniti su 37 paesi.
«Abbiamo investito per vincere la corsa allo spazio. Abbiamo guidato il mondo nella ricerca e sviluppo, che ha portato alla creazione di Internet, ma poi è successo qualcosa. Abbiamo rallentato, abbiamo smesso di investire su noi stessi». E poi è arrivata un’osservazione apparentemente sorprendente da parte del presidente: « I don’t know what’s happened» [Non so cosa sia successo].
Biden ha lasciato senza risposta la questione del declino storico e della capacità industriale del capitalismo statunitense. La risposta si trova nella fine del boom economico del dopoguerra e nella trasformazione della struttura economia statunitense dall’inizio degli anni 1980.
Il calo del saggio del profitto ha posto fine al boom e ha confutato il mito della cosiddetta ricetta keynesiana secondo cui un’abile gestione della domanda aggregata da parte dei governi potrebbe regolare le contraddizioni del capitalismo.
L’aumento dei profitti e del tenore di vita che aveva segnato gli anni 1950 e 1960 è stato sostituito negli anni 1970 dal fenomeno della stagflazione, vale a dire la combinazione di bassa crescita, disoccupazione e aumento sostenuto dei prezzi, qualcosa che non si era mai verificato prima.
La crisi della redditività ha spinto la classe dirigente americana a una radicale ristrutturazione dell’economia e dei rapporti di classe, una ricetta che è stata seguito, con varianti nazionali, in tutto il mondo.
La punta dell’offensiva statunitense e globale è stato il regime di alti tassi d’interesse avviato dalla Federal Reserve sotto la presidenza di Paul Volcker, nominato da Carter. Interi settori dell’industria statunitense furono annientati, le grandi società hanno esternalizzato le attività manifatturiere, molto spesso in altri paesi, tra cui la Cina, per estorcere plusvalore laddove la forza-lavoro era più economica e meno tutelata.
I profitti sono stati impiegati sui mercati finanziari con il risultato che la forma dominante di accumulazione della ricchezza non è stata più l’investimento nella sfera della produzione, nella crescita della capacità industriale, ma la speculazione finanziaria, ossia il parassitismo economico è diventato centrale nell’economia statunitense e mondiale.
Questo processo, favorito e incoraggiato dalle politiche della Federal Reserve, ha avuto grande impulso sotto Reagan e poi ha raggiunto dimensioni gigantesche sotto l’amministrazione Clinton che ha smantellato le ultime vestigia dei regolamenti imposti alle banche e alla finanza come risultato della Depressione.
Wall Street è tenuta in piedi dagli interventi della Fed e dalla politica monetaria di quantitative easing attraverso la quale sono immessi migliaia di miliardi di dollari nei mercati finanziari, non solo per far continuare la speculazione che ha portato alla crisi del 2008 e posto rimedio al tonfo borsistico del 2020, ma per consentirle di raggiungere nuove vette. In aggiunta il riacquisto sistematico di azioni proprie da parte delle multinazionali per aumentarne il valore va a scapito degli investimenti produttivi.
Pochi esempi possono dare l’idea del fenomeno: Intel, IBM, Texas Instruments, Qualcomm e Broadcom hanno riacquistato un totale di 249 miliardi di azioni proprie nel decennio 2011-2020, pari al 71% dei loro profitti. La Semiconductors in America Coalition (SIAC) costituita nel maggio di quest’anno e che include Apple, Microsoft, Cisco e Google, aziende che hanno investito un totale di 633 miliardi in riacquisti di azioni nel periodo 2011-2020. Nel periodo da ottobre 2012 a giugno 2021, Apple ha investito 444 miliardi di dollari in riacquisti, pari all’87% del suo utile netto.
Biden sulle ragioni del declino americano finge di fare lo gnorri, ma è ben consapevole del ruolo, per esempio, del riacquisto di azioni. Come vicepresidente, nel 2016 in un articolo sul Wall Street Journal, scriveva che «il governo dovrebbe dare un’occhiata ai regolamenti che promuovono il riacquisto di azioni proprie e le leggi fiscali che scoraggiano gli investimenti a lungo termine», sostenendo che «il futuro dell’economia dipende da questo».
La risposta degli Stati Uniti al loro declino manifatturiero non sarà un ritorno al passato, bensì, come dimostra la paralisi del gigante cinese delle telecomunicazioni Huawei, un attacco intensificato ai suoi rivali.
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