La plastica, come potremmo farne a meno? Più di ogni altro prodotto industriale la plastica racconta la verità del nostro mondo contemporaneo, anche l’assuefazione all’avvelenamento.
Gli umani hanno vissuto decine di migliaia di anni senza plastica e altri materiali della sintesi chimica, e malgrado ciò hanno prodotto cose meravigliose, ma poi in un paio di generazioni la plastica è diventata dominatrice incontrastata: contenitori di ogni tipo, vestiario, pellicola trasparente, spazzolini da denti, colle e vernici, dischi, mobili molto comuni, preservativi, giocattoli affascinanti, mute, coltelli, borse e sacchetti, tubi, tetti e finestre, carte di credito, e migliaia di altri impieghi (*).
Si calcola che siano prodotte annualmente oltre 400 milioni di tonnellate di plastica derivata principalmente dal petrolio. In una società avanzata come la nostra, le plastiche non possono essere sostituite totalmente con altri materiali, che peraltro difettano per un uso altrettanto largo ed economicamente conveniente; vi sono però migliaia di oggetti di plastica che non avrebbero ragione di essere prodotti, e molti altri potrebbero essere realizzati con materiali alternativi.
Che cosa succede ai relativi rifiuti? La plastica invecchiando emette, anche in piccole quantità, dei veleni come la diossina. Quando la plastica finisce in mare o nei fiumi è un altro disastro. Nell’interrarla in discarica, fenomeni di degradazione, interazione e migrazione portano molecole tossiche nelle falde idriche sotterranee. La permanenza di un accendino di plastica è di cento anni, una borsa quattrocentocinquanta. Un bancomat? Dieci secoli, anche se con conto in rosso.
Fino al 2018 la Cina era la discarica compiacente del mondo. Riceveva 7-9 milioni di tonnellate riciclandole in oggetti di plastica multicolori a bassissimo costo, ma da quell’anno ha chiuso i suoi confini costringendo l’Occidente verso altri paesi asiatici e l’Africa, ma solo per la plastica di bassa qualità mista ad altri rifiuti. Per esempio la plastica statunitense può vantare un circuito che la porta in undici dei paesi più poveri del mondo, tra cui Etiopia, Ghana, Kenya e Senegal. Il Senegal “importa” tonnellate di rifiuti non riciclabili dai paesi del nord. Delle 200.000 tonnellate di plastica prodotte dal riciclo ogni anno in Senegal, 191.000 tonnellate finiscono in acqua dolce o salata. Producono sul posto, buttano sul posto.
Gli Stati, le organizzazioni internazionali, sotto la spinta dei movimenti d’opinione, possono raggiungere, attraverso la regolamentazione e gli accordi multilaterali, alcuni risultati in materia di inquinamento ambientale, in una certa misura anche per quanto riguarda lo sfruttamento e la dissipazione delle risorse naturali. Si tratta di problemi che andrebbero affrontati per la loro gigantesca dimensione e interdipendenza sul piano globale, senza semplicismi come quello di scaricare la colpa su paesi asiatici dai quali importiamo di tutto: guardiamo i nostri bidoni traboccanti di articoli di plastica e quant’altro.
Però i dati sono impietosi: dagli anni Cinquanta sono stati prodotti 9,2 miliardi di tonnellate di plastica e non più del 10% è stato riciclato. Del resto il riciclaggio non è la soluzione quando le quantità prodotte aumentano sempre di più. Stiamo passando da 438 milioni di tonnellate nel 2017 a probabilmente 600 milioni di tonnellate nel 2025. La nostra società, piacevolmente ridipinta di verde, si distingue dalle precedenti per la produzione di molti oggetti inutili e consumi eccessivi.
La brutale realtà è che non ci sono soluzioni a portata di mano. Come per gli altri temi dell’inquinamento e del cambiamento climatico le soluzioni sono precluse dal carattere stesso del modo di produzione capitalistico (qual è lo scopo precipuo di un tale sistema economico?) e dalle contrapposizioni geopolitiche. Non basta “ridurre” le emissioni e la quantità dei rifiuti. Bisogna prendere coscienza delle cause reali che stanno a monte dei problemi e agire di conseguenza. Già questo fatto è ostacolato dalle nostre resistenze al cambiamento e dalla continua attività degli intossicatori professionali della tv e dei giornali, degli “ambientalisti” e di tutto il circo dei “riformatori”.
Quando l’acqua salirà di livello, quando dal culo arriverà alla gola, allora forse di necessità faremo virtù. Sarà troppo tardi.
(*) Il suo grande antenato è la bachelite, dal nome del suo inventore, il belga Leo Baekeland. Nel 1905, cercando altro, riesce a sintetizzare il primo materiale completamente sintetico, una resina fenolica che presto si ritroverà in telefoni, macinacaffè, penne, gioielli, giocattoli, ecc.. Molti di questi oggetti sono diventati di culto e valgono un po’ di soldi. Anche nei fucili d’assalto AKM e AK47 c’è bakelite (impugnature, caricatori, ecc.). Quei fucili sono tenuti in gran pregio in ambienti vintage del Vicino e Medio Oriente.
Poi vennero i polimeri termoplastici, catene lineari di macromolecole. Il tedesco Otto Röhm riesce nell’impresa di sintetizzare nel 1927 il polimetilmetacrilato (Acrylglas), che sarà conosciuto con il nome di Plexiglas. Arriva nel 1954, grazie a Giulio Natta e al catalizzatore di Karl Ziegler, l’utilizzo del polipropilene isotattico, destinato a cambiare la vita di tutti noi per le sue molteplici applicazioni.
Seguono a valanga i brevetti nella guerra tra Imperial Chemical Industries, DuPont, Dow Chemical e BASF. In pochi anni il mondo si ritrova afflitto da polistirene, polivinilcloruro (il killer degli operai di Marghera), polietilene (miliardi di sacchetti di plastica), poliammidi, poliuretani, politetrafluoroetilene (il teflon, che fu impiegato per la sua completa inerzia chimica anche nella costruzione della prima bomba atomica), polietilene tereftalato (pellicole cinematografiche), policarbonato. Altri ne seguirono, e l’industria si premurò d’inviare i suoi eserciti di “comunicatori” per convincere le folle scettiche che ne avevano un grande bisogno. Non c’è voluto molto per convincerle.
Può darsi che la causa sia unica, ma la confusione fra inquinamento e "cambiamento climatico" è da evitare, anche perché strumentale a ulteriori rapacità.
RispondiEliminaNo, hai ragione non è unica ma ci mettiamo molto del nostro
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