venerdì 12 maggio 2017

Alla solita vecchia maniera


Si può credere che l’Apple o la Samsung, la Coca Cola o la Bayer, vendano i loro prodotti semplicemente al loro valore? Sono domande semplici, se si vuole anche banali, e che però possono servire, tra l'altro, per una riflessione su questo nostro disastrato paese, sul perché l’Italia debba necessariamente puntare ancora e sempre sulla riduzione del costo del lavoro e fatichi tanto per essere accarezzata dalla cosiddetta “crescita”. Ciò non esclude, ovviamente, che su tale tema si possano svolgere molte altre possibili considerazioni.

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Interpretare la crisi come “crisi di sottoconsumo” (di dritto o di rovescio di questo in definitiva si tratta), ed individuare così la contraddizione principale non nella produzione, ma nella sfera della circolazione, è un errore gravissimo, poiché si ritiene eliminabile la crisi intervenendo sul movimento del denaro, e pertanto sarebbe sufficiente aumentare la massa monetaria in circolazione e il problema sostanzialmente sarebbe risolto lasciando inalterato il modo di produzione capitalistico.

La realtà non si mostra troppo d'accordo con questa illusione che sta dietro alle varie teorie “anticicliche”, anche se non a tutti piace il richiamo esplicito al keynesismo. Si cade così nella palude riformista. I riformisti, di ogni colore, pensano che questa contraddizione sia risolvibile, di volta in volta o addirittura definitivamente, all’interno del capitalismo stesso. Credono che il capitalismo bene o male sia per sempre, o che (vedi alla voce “sinistrati” & c.) scomparirà naturalmente, in modo graduale e indolore.

In entrambi i casi subentra un rigido determinismo fatalista, irregimentato ed eterodiretto con arte verso derive reazionarie, del quale la borghesia si serve, dividendo e contrapponendo, come un babau in chiave elettorale.

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Nella fase del dominio generale-assoluto del capitale (di questo si tratta, vano girarci intorno) l’accumulazione avviene su una base produttiva estesa all’intero globo e tra contraddizioni, come constatiamo quotidianamente, crescenti.

Proprio dal concentrarsi di queste contraddizioni e dal fatto che esse non possono più essere contenute all’interno dei rapporti economici esistenti, non solo nascono le crisi, ma la crisi ha assunto un carattere permanente.

Bisogna distinguere, concettualmente e concretamente, le crisi di ciclo, che esprimono periodicamente le difficoltà dell’accumulazione, dalla crisi storica-generale del modo di produzione capitalistico, la quale dev’essere concepita come il concentramento reale e la perequazione di tutte le contraddizioni dell’economia borghese.

Nella realtà concreta, storica, s’inaspriscono la concorrenza e la pressione contro le classi subalterne per la riduzione dei salari e il peggioramento delle loro condizioni di lavoro e di vita. La forbice tra ricchezza e povertà, nelle aree di più antica industrializzazione, assume, in forme mutate, l’antica e netta divaricazione.

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L’attuale fase si presenta come una lunga crisi di stagnazione interrotta da spasmi di ripresa, laddove prevale la difficoltà di procurare una “domanda adeguata”. Si palesa come crisi classica di sovrapproduzione, anzitutto di capitale (quantunque la sovrapproduzione di capitale determini sempre sovrapproduzione di merci). Va però tenuto conto del fatto che il processo di accumulazione capitalistico si attua con un aumento continuo della composizione organica del capitale sociale, quindi con una diminuzione tendenziale del saggio generale del profitto (vedi qui).

In altri termini, il dramma, se così vogliamo chiamarlo dal punto di vista borghese, del modo di produzione capitalistico consiste nel fatto che i capitalisti hanno la necessità vitale di ridurre sempre più la quantità di lavoro vivo impiegata (gli operai) rispetto al lavoro passato (impianti, macchine, materie prime, ecc.). In tal modo il capitale si sviluppa con un movimento decrescente della parte variabile rispetto a quella costante. Da un lato ciò produce un effetto positivo, poiché per ridurre la forza-lavoro impiegata è necessario sviluppare incessantemente l’aspetto tecnico e tecnologico del processo produttivo; dall’altro lato il mutamento della composizione tecnica del capitale determina una progressiva caduta del saggio del profitto, e perciò il capitale incontra una crescente difficoltà a valorizzarsi.

Siccome il processo di produzione capitalistico, considerato nel suo nesso complessivo, non produce solo merce, non produce solo plusvalore, ma produce e riproduce il rapporto capitalistico stesso, la crescente difficoltà a valorizzarsi del capitale inficia la riproduzione stessa di tale rapporto. E ciò non può restare senza decisive conseguenze.

Pertanto, lasciando da parte le infinite e insulse chiacchiere sui diversi fenomeni della crisi, l’unica domanda decente e realistica da porsi è questa: se il plusvalore cresce sempre meno del capitale anticipato, qual è il significato storico di tale tendenza?

Il capitale tenta in tutti i modi di contrastare la tendenza. Quello monopolistico multinazionale, per esempio, si caratterizza per la sua possibilità di controllare ampie quote del mercato, per cui è relativamente meno dipendente dalla legge della domanda e dell’offerta. In tal modo i capitali più forti, adattano “soggettivamente” l’offerta alla domanda, e però così facendo non solo non risolvono la contraddizione ma anzi l’aggravano scaricandola sui capitali dei settori più deboli. Gli extraprofitti che si pappano non sono altro che un prelievo forzato dai già scarsi profitti degli altri capitalisti.

In tale quadro le unioni monetarie ed economiche, i trattati di libero scambio, hanno sicuramente una valenza positiva e antagonistica rispetto ai problemi della realizzazione, e però bisogna tener conto che la lotta di concorrenza tra i vari capitali va per la sua strada (ripeto: capitali a composizione organica più elevata realizzano, a danno dei capitali a più bassa composizione organica, il valore contenuto nelle loro merci ed anche un sovrapprofitto), ed è perciò puerile stracciarsi le vesti accusando vuoi la moneta comune vuoi l’egemonia economica e poi politica di un dato paese.

Ciò detto, allargando l’analisi all’interscambio tra paesi, vediamo però che la stessa politica del capitale multinazionale sta avendo degli effetti boomerang clamorosi, quanto inevitabili, che modificano gli stessi equilibri strategici capitalistici e sconquassa i tradizionali assetti politici e sociali delle nazioni.

Anche la finanziarizzazione dell’economia è spinta in alto dallo stesso fenomeno della caduta del saggio del profitto, che trova la sua ragione proprio nel fatto che, a fronte di enormi investimenti, la remunerazione del capitale tende a decrescere progressivamente e inesorabilmente. Il tal modo il capitale è forzato a lasciare la sfera della produzione per trovare allocazione in quella della circolazione, cioè della speculazione finanziaria. Con gli esiti che ben conosciamo.

La prossima crisi finanziaria non sarà un semplice campanello d’allarme, com’è avvenuto nel 2008, ma deflagrerà e porterà in primo piano le criticità del sistema nel loro complesso, così come renderà ancor più aspra la dicotomia sociale e la conseguente protesta che finora si è riusciti a frenare e mediare. Le élite borghesi, non potendo conciliare ancora a lungo le spinte disintegrative che gli interessi antagonistici contrapposti portano con sési stanno predisponendo a farvi fronte, sia sul piano politico e sociale interno e sia nel quadro del confronto strategico internazionale, alla solita vecchia maniera

5 commenti:

  1. "Alla solita vecchia maniera": UNA GRANDE GUERRA!

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    1. Fascismo, poi guerra, distruzione di vite (inutili per il capitalismo) e una massa enorme di merci e beni, e si riparte con il ciclo di accumulazione.

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