Questo post
è destinato in particolare agli amanti del genere. Se dopo i primi capoversi vi
stimola lo sbadiglio vuol dire che non siete tra quelli. Tranquilli però, il
web è zeppo di altri trastulli.
* * *
Con un richiamo in prima pagina il quotidiano di
Confindustria pubblicava ieri a pagina 29 un lungo articolo del professor Carlo
Ossola dal titolo scoppiettante: “Marx e il padre Dante nella Roma del Nord”.
L’articolo, è bene che lo dica subito, delude le attese più esigenti.
La Roma del Nord, cui allude anche il titolo, è
Treviri, già capitale della Gallia belgica e poi della Tetrarchia, città della
Renania-Palatinato che diede i natali, tra gli altri, ad Ambrogio e a Marx:
«Arieggia un
profumo tutto italiano: anche il severo Karl Marx si concede spesso, nelle
Lettere, formule che vengono dalla memoria mozartiana: il più volte ripetuto,
in italiano, «tutti quanti» è distico del Don Giovanni, ch’egli volgerà al
serioso: «È aperto a tutti quanti / Viva la libertà» (atto I, scena 22).
Ossola parla delle lettere che Marx scrisse a Jenny
von Westphalen, “la colta e coraggiosa moglie”, e poi aggiunge:
«Da un caffè
dell’Hauptmarkt, piazza frastagliata e gioiosa di tetti e colori, ripenso al
Marx di Treviri, a quanto di italiano ci sia anche nel Capitale, alla splendida
citazione di Dante che chiude, nella nostra lingua, la Prefazione alla I
edizione: “Segui il tuo corso e lascia dir le genti”, all’altra Prefazione di
Engels che apre il III libro del Capitale: “L’Italia è il paese della
classicità. Dalla grande epoca in cui apparve sul suo orizzonte l’alba della
civiltà moderna, essa ha prodotto grandiosi caratteri, di classica ineguagliata
perfezione, da Dante a Garibaldi”».
Il professor Ossola scrive per lo zoccolo colto del Sole 24ore, persone in grado di
maneggiare l’argomento e far bella figura nelle riunioni al Lions Club o al
Rotary. Marx resta pur sempre un nome che incute un certo riguardo per chi ne
cita anche mezza frase tra virgolette.
*
Ossola con il termine “letteratura” si riferisce al
genere specifico in senso stretto, anche se concede che nelle Lettere scritte da Marx vi sono formule
che vengono dalla memoria mozartiana. Per Marx, soggiungo, il termine “letteratura”
abbracciava tutto il fenomeno della cultura: dalla “memoria mozartiana” alla
filosofia, dalla storia all’economia, dalla politica al giornalismo,
dall’etnografia alla biologia, eccetera.
Ad ogni modo, per limitarci alla letteratura in senso
stretto, Marx aveva una predilezione per i classici di ogni epoca. A scuola fu
introdotto alla conoscenza di Ovidio, Cicerone, Tacito, oltre che di Omero,
Platone, Sofocle e Tucidide. Un suo insegnante, Vitus Loers, autore di
un’edizione commentata di Ovidio, riuscì a destare tale entusiasmo per questo
poeta nel suo allievo da indurlo a cimentarsi in una traduzione in tedesco
delle Tristezze.
Karl Liebknecht testimonia esplicitamente l’interesse
di Marx per le questioni stilistiche e il rapporto di questo interesse con il
suo amore per la letteratura:
«Marx
attribuiva un’importanza straordinaria alla purezza e alla correttezza
dell’espressione. Egli aveva eletto a suoi sommi maestri Goethe, Lessing,
Shakespeare, Dante, Cervantes, che leggeva quasi ogni giorno» (Colloqui con
Marx ed Engels, Einaudi, p. 175).
Liebknecht ricordava come Marx amasse il suono delle
grandi opere letterarie, oltre che il loro significato, e soleva declamare
nelle scampagnate domenicali della famiglia lunghi brani della Divina Commedia, delle opere di
Shakespeare e del Faust di Goethe.
Marx era convinto che la grande letteratura
costituisse, tra l’altro, il mezzo più sicuro per arrivare alla conoscenza di
una lingua straniera. In una famosa lettera a suo padre, del 10 novembre 1837,
gli aveva parlato dei suoi vani sforzi per apprendere l’inglese e l’italiano
senza l’aiuto della grammatica. Negli anni successivi, quando fece uso dei suoi
interessi letterari per imparare le lingue, i suoi progressi furono
sbalorditivi. Imparò l’inglese leggendo Shakespeare e Cobbett, l’italiano sui
testi di Dante e Macchiavelli, lo spagnolo da Cervantes e Calderón, e infine,
nei suoi ultimi anni (morì a 64), quando si destò in lui il desiderio di
conoscere meglio la situazione economico-sociale della Russia, decise di
accedere a questa lingua attraverso l’Eugenio
Onegin e un libro di Memorie di Aleksandr Herzen, ma anche Saltykov-Ščedrin,
e insomma una biblioteca in russo che era arrivata a più di 120 titoli.
Troppo vaste sono le notizie biografiche del rapporto
tra Marx e la letteratura per pensare di offrirne in poche righe anche solo
un’idea. Sembra che Marx fosse incapace di considerare qualsiasi fenomeno
politico e sociale senza associarlo a qualche riferimento alla letteratura
mondiale. Però Ossola, per quanto riguarda Dante, si sofferma solo sulle più
scontate e dozzinali citazioni. A tale riguardo si potrebbero invece citare
decine di articoli scritti per il New
York Daily Tribune, la Neue Oder-Zeitung, la Die Presse, eccetera,
dove Marx cita a piene mani dalla Divina
Commedia.
Dante per esempio compare in prima persona per
esprimere le sofferenze e le umiliazioni dell’esilio dopo un insultante
articolo di fondo del Times, e in centinaia di altre occasioni, come nel
riferire una sonnacchiosa seduta della Camera dei Comuni, dove Marx paragona la
noia che dovevano provare i parlamentari con il fango che Dante aveva fatto diventare dimora perenne degli indolenti (vedi mio commento qui sotto in risposta ad un lettore). Basterebbe poi citare quante volte i versi
dell’Inferno compaiono in Herr Vogt, uno scritto polemico
giovanile di Marx, per dare l’idea di quanto a fondo Marx conoscesse il poeta
fiorentino.
E considerando Garibaldi, Marx dice che riconosceva
in lui un tipo di penetrazione intellettuale che aveva imparato ad ammirare,
come tipica qualità italiana, leggendo Dante e Macchiavelli. Se proprio Ossola
voleva posizionare Marx in rapporto a Dante poteva pescare a piene mani ovunque
negli scritti del trevirese, e dunque non limitarsi a un paio di frasette poste
in esergo al Capitale, magari
desunte, ipotizzo, da Il codice Dante.
Cruces della “Commedia” e intertestualità novecentesche di Daniele Maria
Pegorari, in cui si ritrovano esattamente le medesime citazioni.
*
Il professor Ossola c’informa che l’amministrazione
comunale di Treviri è d’accordo con il governo cinese, in occasione del
bicentenario della nascita di Marx (2018), di dedicargli un monumento da
collocare nella sua città natale. Molto meno d’accordo con l’iniziativa, ci
dice l’articolista, sarebbe la cittadinanza. Ossola traccia un parallelismo tra
quest’iniziativa e la fine miserevole di una statua di Lenin così come compare
nella scena iniziale di un film di Theo Angelopoulos.
Nell’articolo di Ossola non c’è, cosa insolita in
simili contesti mediatici, alcuna pugnalata vigliacca all’indirizzo di Marx,
eppure non può non cogliersi tra le righe un senso d’idiosincrasia per un
personaggio la cui gigantesca figura la borghesia non è mai riuscita a ridurre
a innocuo santino.
Ciò in gran parte accade perché il Marx che
conosciamo è quello della vulgata, quello tirato di qua e di là per la giacca
dalla contrapposizione ideologica di apologeti e avversari; non il Marx
scienziato ed erudito che ai più rimane pressoché sconosciuto o noto per
singole opere o per spunti decotestualizzati da brandire nelle più variegate
interpretazioni di comodo (*). Vale a titolo esemplificativo ricordare che Marx
non ha mai usato il termine “teoria del valore-lavoro”, inventato invece da Eugen
Ritter von Böhm-Bawerk (che è tutto dire) e mutuato poi da marxisti, da diversamente
“marxisti” e da cialtroni vari.
Che cosa c’entri il governo di Pechino con Marx non l’ho
mai capito, ma ammetto essere questo un mio limite. E tuttavia, se non altro, i
cinesi mostrano, con l’iniziativa di innalzargli un monumento a Treviri, una sensibilità,
un ossequio e un rispetto per questo gigante del pensiero che in Europa proprio
non s’avverte.
(*) Senza addentrarmi in disquisizioni propriamente
“teoriche” e filologiche, dunque per esempio sul valore dei celebri Manoscritti economico-filosofici del 1844
(titolo editoriale), rilevo che Il
manifesto del partito comunista (1848),
molto citato nella pubblicistica di ogni tipo, possiede un’importanza
filosofica e scientifica assai modesta poiché si tratta, cosa di cui ci si
scorda, di un manifesto politico. Un discorso critico sul
Marx scienziato, sulla sua produzione teorica denotata di uno sviluppo organico
delle argomentazioni, può iniziare dalla stesura del Manoscritto 1857/58, i
cosiddetti Grundrisse, pubblicati
negli anni 1930. È da questo manoscritto che Marx inizia effettivamente la
redazione della propria analisi critica del “capitale”. Anche per quanto
riguarda i precedenti 24 quaderni scritti tra il 1850 e il 1853 si tratta
prevalentemente di appunti ed annotazioni che hanno lo scopo di attaccare
soprattutto la teoria quantitativa del denaro. Per chi volesse approfondire il
tema suggerisco l’Introduzione di
Roberto Fineschi a Il Capitale. Critica
dell’economia politica. Libro primo. Il processo di produzione del capitale (IV
ed. tedesca, 1890), Tomo primo, Volume XXXI delle Opere di Marx ed Engels, La
città del Sole, Napoli, 2011.
Odio correggere un post erudito come questo ma la belletta negra che punisce gli accidiosi compare nel VII canto. Gli ignavi erano condannati a inseguire una 'nsegna...
RispondiEliminaMachiavelli poi...:)
Saluti
vorrei precisare, non per permalosità (che non mi manca) quanto segue:
EliminaNell'articolo del 21 luglio 1855 per la Neue Order-Zeitung, Marx scrive:
" ... il compito di sommergere l'onorevole Camera in quel noioso fango di cui Dante nel suo Inferno fa la residenza perpetua degli indolenti".
Nel XIV volume delle Opere, in edizione italiana, c'è un richiamo alla nota 207, la quale recita:
"Cfr: Dante Alighieri, La Divina Commedia. Inferno, canto terzo".
Ho controllato anche nella vecchia MEW, XI, p. 365, c'è scritto la stessa cosa in nota. Gli ignavi stanno nel III canto ma il fango nel VII. Perciò Marx confondeva e la nota non lo corregge.
E io sbaglio a mia volta. Pertanto Lei ha ragione, caro amico, a trarmi in inganno è Marx e la "nota" che non lo coreegge. Ho provveduto a correggere il post, grazie
Si tratta certissimamente di errori voluti, come quelli di Leopold Bloom nei monologhi interiori. Voluti dall'autore, non da Bloom, çvsd.
Eliminamettere gli ignavi del III canto con il fango del VII, una cosa voluta per ottenere un certo effetto letterario. può essere, certo.
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