lunedì 8 maggio 2017

Ci pensano i cinesi



Questo post è destinato in particolare agli amanti del genere. Se dopo i primi capoversi vi stimola lo sbadiglio vuol dire che non siete tra quelli. Tranquilli però, il web è zeppo di altri trastulli.

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Con un richiamo in prima pagina il quotidiano di Confindustria pubblicava ieri a pagina 29 un lungo articolo del professor Carlo Ossola dal titolo scoppiettante: “Marx e il padre Dante nella Roma del Nord”. L’articolo, è bene che lo dica subito, delude le attese più esigenti.

La Roma del Nord, cui allude anche il titolo, è Treviri, già capitale della Gallia belgica e poi della Tetrarchia, città della Renania-Palatinato che diede i natali, tra gli altri, ad Ambrogio e a Marx:

«Arieggia un profumo tutto italiano: anche il severo Karl Marx si concede spesso, nelle Lettere, formule che vengono dalla memoria mozartiana: il più volte ripetuto, in italiano, «tutti quanti» è distico del Don Giovanni, ch’egli volgerà al serioso: «È aperto a tutti quanti / Viva la libertà» (atto I, scena 22).

Ossola parla delle lettere che Marx scrisse a Jenny von Westphalen, “la colta e coraggiosa moglie”, e poi aggiunge:

«Da un caffè dell’Hauptmarkt, piazza frastagliata e gioiosa di tetti e colori, ripenso al Marx di Treviri, a quanto di italiano ci sia anche nel Capitale, alla splendida citazione di Dante che chiude, nella nostra lingua, la Prefazione alla I edizione: “Segui il tuo corso e lascia dir le genti”, all’altra Prefazione di Engels che apre il III libro del Capitale: “L’Italia è il paese della classicità. Dalla grande epoca in cui apparve sul suo orizzonte l’alba della civiltà moderna, essa ha prodotto grandiosi caratteri, di classica ineguagliata perfezione, da Dante a Garibaldi”».

Il professor Ossola scrive per lo zoccolo colto del Sole 24ore, persone in grado di maneggiare l’argomento e far bella figura nelle riunioni al Lions Club o al Rotary. Marx resta pur sempre un nome che incute un certo riguardo per chi ne cita anche mezza frase tra virgolette.

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Ossola con il termine “letteratura” si riferisce al genere specifico in senso stretto, anche se concede che nelle Lettere scritte da Marx vi sono formule che vengono dalla memoria mozartiana. Per Marx, soggiungo, il termine “letteratura” abbracciava tutto il fenomeno della cultura: dalla “memoria mozartiana” alla filosofia, dalla storia all’economia, dalla politica al giornalismo, dall’etnografia alla biologia, eccetera.

Ad ogni modo, per limitarci alla letteratura in senso stretto, Marx aveva una predilezione per i classici di ogni epoca. A scuola fu introdotto alla conoscenza di Ovidio, Cicerone, Tacito, oltre che di Omero, Platone, Sofocle e Tucidide. Un suo insegnante, Vitus Loers, autore di un’edizione commentata di Ovidio, riuscì a destare tale entusiasmo per questo poeta nel suo allievo da indurlo a cimentarsi in una traduzione in tedesco delle Tristezze.

Karl Liebknecht testimonia esplicitamente l’interesse di Marx per le questioni stilistiche e il rapporto di questo interesse con il suo amore per la letteratura:

«Marx attribuiva un’importanza straordinaria alla purezza e alla correttezza dell’espressione. Egli aveva eletto a suoi sommi maestri Goethe, Lessing, Shakespeare, Dante, Cervantes, che leggeva quasi ogni giorno» (Colloqui con Marx ed Engels, Einaudi, p. 175).

Liebknecht ricordava come Marx amasse il suono delle grandi opere letterarie, oltre che il loro significato, e soleva declamare nelle scampagnate domenicali della famiglia lunghi brani della Divina Commedia, delle opere di Shakespeare e del Faust di Goethe.

Marx era convinto che la grande letteratura costituisse, tra l’altro, il mezzo più sicuro per arrivare alla conoscenza di una lingua straniera. In una famosa lettera a suo padre, del 10 novembre 1837, gli aveva parlato dei suoi vani sforzi per apprendere l’inglese e l’italiano senza l’aiuto della grammatica. Negli anni successivi, quando fece uso dei suoi interessi letterari per imparare le lingue, i suoi progressi furono sbalorditivi. Imparò l’inglese leggendo Shakespeare e Cobbett, l’italiano sui testi di Dante e Macchiavelli, lo spagnolo da Cervantes e Calderón, e infine, nei suoi ultimi anni (morì a 64), quando si destò in lui il desiderio di conoscere meglio la situazione economico-sociale della Russia, decise di accedere a questa lingua attraverso l’Eugenio Onegin e un libro di Memorie di Aleksandr Herzen, ma anche Saltykov-Ščedrin, e insomma una biblioteca in russo che era arrivata a più di 120 titoli.

Troppo vaste sono le notizie biografiche del rapporto tra Marx e la letteratura per pensare di offrirne in poche righe anche solo un’idea. Sembra che Marx fosse incapace di considerare qualsiasi fenomeno politico e sociale senza associarlo a qualche riferimento alla letteratura mondiale. Però Ossola, per quanto riguarda Dante, si sofferma solo sulle più scontate e dozzinali citazioni. A tale riguardo si potrebbero invece citare decine di articoli scritti per il New York Daily Tribune, la Neue Oder-Zeitung, la Die Presse, eccetera, dove Marx cita a piene mani dalla Divina Commedia.

Dante per esempio compare in prima persona per esprimere le sofferenze e le umiliazioni dell’esilio dopo un insultante articolo di fondo del Times, e in centinaia di altre occasioni, come nel riferire una sonnacchiosa seduta della Camera dei Comuni, dove Marx paragona la noia che dovevano provare i parlamentari con il fango che Dante aveva fatto diventare dimora perenne degli indolenti (vedi mio commento qui sotto in risposta ad un lettore). Basterebbe poi citare quante volte i versi dell’Inferno compaiono in Herr Vogt, uno scritto polemico giovanile di Marx, per dare l’idea di quanto a fondo Marx conoscesse il poeta fiorentino.

E considerando Garibaldi, Marx dice che riconosceva in lui un tipo di penetrazione intellettuale che aveva imparato ad ammirare, come tipica qualità italiana, leggendo Dante e Macchiavelli. Se proprio Ossola voleva posizionare Marx in rapporto a Dante poteva pescare a piene mani ovunque negli scritti del trevirese, e dunque non limitarsi a un paio di frasette poste in esergo al Capitale, magari desunte, ipotizzo, da Il codice Dante. Cruces della “Commedia” e intertestualità novecentesche di Daniele Maria Pegorari, in cui si ritrovano esattamente le medesime citazioni.

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Il professor Ossola c’informa che l’amministrazione comunale di Treviri è d’accordo con il governo cinese, in occasione del bicentenario della nascita di Marx (2018), di dedicargli un monumento da collocare nella sua città natale. Molto meno d’accordo con l’iniziativa, ci dice l’articolista, sarebbe la cittadinanza. Ossola traccia un parallelismo tra quest’iniziativa e la fine miserevole di una statua di Lenin così come compare nella scena iniziale di un film di Theo Angelopoulos.

Nell’articolo di Ossola non c’è, cosa insolita in simili contesti mediatici, alcuna pugnalata vigliacca all’indirizzo di Marx, eppure non può non cogliersi tra le righe un senso d’idiosincrasia per un personaggio la cui gigantesca figura la borghesia non è mai riuscita a ridurre a innocuo santino.

Ciò in gran parte accade perché il Marx che conosciamo è quello della vulgata, quello tirato di qua e di là per la giacca dalla contrapposizione ideologica di apologeti e avversari; non il Marx scienziato ed erudito che ai più rimane pressoché sconosciuto o noto per singole opere o per spunti decotestualizzati da brandire nelle più variegate interpretazioni di comodo (*). Vale a titolo esemplificativo ricordare che Marx non ha mai usato il termine “teoria del valore-lavoro”, inventato invece da Eugen Ritter von Böhm-Bawerk (che è tutto dire) e mutuato poi da marxisti, da diversamente “marxisti” e da cialtroni vari.


Che cosa c’entri il governo di Pechino con Marx non l’ho mai capito, ma ammetto essere questo un mio limite. E tuttavia, se non altro, i cinesi mostrano, con l’iniziativa di innalzargli un monumento a Treviri, una sensibilità, un ossequio e un rispetto per questo gigante del pensiero che in Europa proprio non s’avverte.

(*) Senza addentrarmi in disquisizioni propriamente “teoriche” e filologiche, dunque per esempio sul valore dei celebri Manoscritti economico-filosofici del 1844 (titolo editoriale), rilevo che Il manifesto del partito comunista (1848), molto citato nella pubblicistica di ogni tipo, possiede un’importanza filosofica e scientifica assai modesta poiché si tratta, cosa di cui ci si scorda, di un manifesto politico. Un discorso critico sul Marx scienziato, sulla sua produzione teorica denotata di uno sviluppo organico delle argomentazioni, può iniziare dalla stesura del Manoscritto 1857/58, i cosiddetti Grundrisse, pubblicati negli anni 1930. È da questo manoscritto che Marx inizia effettivamente la redazione della propria analisi critica del “capitale”. Anche per quanto riguarda i precedenti 24 quaderni scritti tra il 1850 e il 1853 si tratta prevalentemente di appunti ed annotazioni che hanno lo scopo di attaccare soprattutto la teoria quantitativa del denaro. Per chi volesse approfondire il tema suggerisco l’Introduzione di Roberto Fineschi a Il Capitale. Critica dell’economia politica. Libro primo. Il processo di produzione del capitale (IV ed. tedesca, 1890), Tomo primo, Volume XXXI delle Opere di Marx ed Engels, La città del Sole, Napoli, 2011.

4 commenti:

  1. Odio correggere un post erudito come questo ma la belletta negra che punisce gli accidiosi compare nel VII canto. Gli ignavi erano condannati a inseguire una 'nsegna...
    Machiavelli poi...:)
    Saluti

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    1. vorrei precisare, non per permalosità (che non mi manca) quanto segue:
      Nell'articolo del 21 luglio 1855 per la Neue Order-Zeitung, Marx scrive:
      " ... il compito di sommergere l'onorevole Camera in quel noioso fango di cui Dante nel suo Inferno fa la residenza perpetua degli indolenti".
      Nel XIV volume delle Opere, in edizione italiana, c'è un richiamo alla nota 207, la quale recita:
      "Cfr: Dante Alighieri, La Divina Commedia. Inferno, canto terzo".

      Ho controllato anche nella vecchia MEW, XI, p. 365, c'è scritto la stessa cosa in nota. Gli ignavi stanno nel III canto ma il fango nel VII. Perciò Marx confondeva e la nota non lo corregge.

      E io sbaglio a mia volta. Pertanto Lei ha ragione, caro amico, a trarmi in inganno è Marx e la "nota" che non lo coreegge. Ho provveduto a correggere il post, grazie

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    2. Si tratta certissimamente di errori voluti, come quelli di Leopold Bloom nei monologhi interiori. Voluti dall'autore, non da Bloom, çvsd.

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    3. mettere gli ignavi del III canto con il fango del VII, una cosa voluta per ottenere un certo effetto letterario. può essere, certo.

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