venerdì 24 ottobre 2014

L'alito cattivo di Luciano Canfora


Il mio amico Luca, poeta sensibile e blogger gentile, mi segnala una recente intervista di Luciano Canfora che mi ha fatto capire come quarant’anni di letture marxiane siano state tempo alienato o quasi. Meglio tardi che mai, ma quale rimpianto. Il filologo e storico barese rivela quanto segue:

Una storia dell’umanità in sintesi l’ha già raccontata Lucrezio, il poeta latino del tempo di Cicerone e di Cesare, a metà del primo anno Avanti Cristo. Nel quinto libro del De Rerum Natura, una pagina formidabile, una specie di storia dell’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, dice che il conflitto e quindi la storia conflittuale dell’umanità, comincia quando fu scoperta la proprietà. “Res reperta”, appunto la proprietà, e “aurunque”, cioè l’oro. Riferimento del valore convenzionale. E forse, anche se non possiamo saperlo con certezza, probabilmente già Epicuro si soffermava molto su questo punto se lo stesso Lucrezio appunto lo ha molto tradotto parafrasandolo e rievocandolo. Io sono convinto che Lucrezio sia stato un pensatore originale e molto importante. Comunque l’intuizione che l’intera vicenda umana sia legata a questo fenomeno e alla dinamica della proprietà e al conflitto che essa determina, diventa lì, nel suo pensiero, molto chiara. Ed è altrettanto chiara e ben presente nella consapevolezza e nella coscienza di tutti gli storici e i pensatori del mondo antico, che sono millenni di storia non certamente un quarto d’ora. Insomma il materialismo storico non ha inventato nulla a riguardo, ha solo preso coscienza di un convincimento radicato nella realtà.



Secondo Canfora, tra il materialismo degli antichi e il materialismo storico non vi sarebbe alcuna differenza, quest’ultimo non avrebbe innovato nulla al riguardo, si sarebbe limitato a convincersi di una realtà già intuita in lungo e in largo da tutti gli storici e pensatori del mondo antico. Marx non avrebbe fatto altro che prendere atto del fenomeno così come esso si palesa da millenni, ripetitore pedissequo di ciò che già molti in passato avevano adombrato e anche sancito per iscritto: la proprietà e la ricchezza privata sono all’origine di ogni nequizia dell’umano consorzio. E se Lucrezio è arrivato a tale determinazione prima di Marx di ben duemila anni, egli è un pensatore originale e molto importante, mentre Marx, ripetiamocelo, ha addentato quel che poteva.

Lucrezio, nel suo La natura delle cose (*), afferma, per dirla con le parole del professore barese, che la storia conflittuale dell’umanità comincia quando fu “scoperta” la proprietà. L’idea si rifarebbe, con ogni probabilità – dice sempre Canfora – ad Epicuro, anche se “non possiamo saperlo con certezza”.

Personalmente m’importa nulla di tale incertezza filologica, non ho problema a riconoscere pacificamente che in tutti gli storici e i pensatori del mondo antico viveva la consapevolezza e la coscienza che l’intera vicenda umana è legata a questa iattura della proprietà e alle sue divaricanti dinamiche, al conflitto che essa determina. È questo un mistero strappato dal seno degli Dei e svelato alle anime mortali, anche a quelle più ostinate ed eretiche.

Partiamo dunque da Lucrezio, che cosa scrive esattamente in tema di proprietà nel V Libro?

Poi fu inventata la proprietà, fu scoperto l’oro, che facilmente sottrasse il rispetto a forza e onore; per lo più infatti gli uomini s’accodano al ricco, benché forti e dotati di corpo ben fatto. Ma se qualcuno si regga la vita con vera dottrina, ricchezza grande è per l’uomo vivere con sobrietà con cuore tranquillo; né mai c’è infatti mancanza nel poco. Ma gli uomini si vollero famosi e potenti, perché su base ben ferma restesse il loro destino, e potessero, ricchi, condurre una liscia esistenza: ma inutilmente, poiché lottando per raggiungere alla vetta del potere, pericoloso si resero il percorrere quella via: anche, tuttavia, dalla vetta, come fulmine, li getta, percossi, Invidia, a volte, spregiati, nel Tartaro tetro; Invidia infatti, come fulmine, fa avvampare le cime di solito, e tutto ciò che si trova più in alto degli altri; così ch’è molto meglio obbedire tranquillo che voler guidare con il comando le cose, e reggere il regno. Lascia dunque che, a vuoto sfiniti, sudino sangue, lottando nella strada stretta della carriera; essi che pensano secondo ciò che dicono altri, e inseguono le cose secondo la moda più che secondo la vera sensazione: né mai ciò avviene oggi di più, né sarà, poi, di quanto fu prima (**).

Con la proprietà venne il tempo della corruzione generale, delle venalità universali, il tempo in cui ogni realtà, morale e fisica, viene valutata in vil denaro (“aurunque”, come lo chiama il poeta latino) e apprezzata al suo giusto valore. Non gridiamo troppo al cinismo, questo è nei fatti, esposto nei rapporti economici in tutta la loro crudezza. Potremmo, nel caso, tentare di eliminare, ed è ciò che sta sempre nei buoni propositi di ogni animuccia filistea, il lato cattivo di tali rapporti e tenerci quelli vantaggiosi per l’umanità intera. E però qui non c’è più un grammo di materialismo e nemmeno un atomo di dialettica, ma solo, come scrivo sempre vanamente in questo blog sommerso, molta morale allo stato purissimo.

*

Del resto i motivi per i quali, per esempio, Romolo uccide il fratello Remo sono ben noti a tutti e ben prima di Lucrezio. Appena un po’ più in ombra rimane la questione che senza lo sviluppo della proprietà nelle sue diverse forme storiche, per esempio l’antica schiavitù, non sarebbero esistiti né lo Stato, né l'arte, né la scienza della Grecia; senza la schiavitù non ci sarebbe stato l'impero romano. E senza le basi della civiltà greca e dell'impero romano non ci sarebbe l'Europa moderna. Senza la schiavitù moderna non ci sarebbe lo sviluppo dell’industria e della scienza ad essa collegata, non ci sarebbe il mondo d’oggi. Quisquilie, direbbe il Principe.

E però non si può non rilevare, per paradossale che possa sembrare (e lo è), l’approccio appena idealistico del professor Canfora sul tema del materialismo, e dunque va precisato che il “materialismo”, così come ogni altra concezione, ha una propria storia e un suo sviluppo. Per dirla come si può in un blog, c’è un materialismo antico, con gli atomisti Leucippo e Democrito e poi con Epicuro, Lucrezio e altri, e un materialismo moderno, che va da Hobbes a Gassendi, ai materialisti illuministi. C’è dunque un bel po’ di strada prima di arrivare al materialismo naturalistico di Feuerbach e, con la sua critica, al materialismo storico-dialettico di Marx ed Engels. Sorvoliamo sul "dialettico" che ci impegnerebbe per intere stagioni, ma non si può trascurare l’aggettivo “storico” che vorrà pur dire qualcosa aggregato al sostantivo.

Nel merito, quelle parole riferite alla proprietà e all’oro da Lucrezio, sarebbero, nella convinzione sia intima che pubblica di Canfora, proprio il fondamento in radice del materialismo storico, prolegomeni essenziali di esso. E però mi concederà lo stimato Professore di eccepire che certamente in quella antica consapevolezza si può rintracciare una concezione dell’uomo come essere naturale e sensibile, ma che essa non lo vede in processo, ossia nelle sue determinazioni storicamente determinate e condizionate.

Per dirla in modo più chiaro: non basta dire che la proprietà sta all’origine di ogni male sociale così come il peccato originale sta all’origine della “caduta dell’uomo”. Questo non è materialismo, è teologia. Ancora: è dunque la proprietà a fare la storia o è questa a fare la proprietà? Dare una definizione della proprietà come d’un rapporto indipendente, di una categoria a parte, non può essere che un’illusione della metafisica o del diritto.

In Marx, viceversa, il punto di partenza non è rappresentato dall’uomo in quanto oggetto sensibile, ma dal suo lavoro, dalla attività umana sensibile. Attività generatrice e trasformatrice dell’intera vita sociale, tesa, qualunque siano le sue forme specifiche, alla produzione e riproduzione di rapporti sociali (***). Tra questi rapporti sociali, un posto di assoluto rilievo è dato dall’insieme dei rapporti di produzione che costituiscono la struttura economica della società. Tra questi rapporti di produzione, quello di proprietà gioca un ruolo fondamentale poiché, come ognuno sa di suo e da sempre, da tale rapporto dipende la posizione sociale di ciascuno; ma è proprio qui che si rivela la grande differenza in Marx. Muovendo dalla produzione materiale della vita immediata, egli assume come fondamento di tutta la storia non già il concetto astratto di “uomo”, “attività” e “proprietà”, bensì la forma di attività, di proprietà e di relazioni che è connessa con un determinato modo di produzione.

Senza il materialismo storico-dialettico non avremmo la critica dell’economia politica marxiana, dunque anzitutto non avremmo Il Capitale; saremmo ancora impigliati in Proudhon e simili, nella Filosofia della miseria, cioè nella miseria della filosofia (e dello storicismo à la Canfora).

Sostenere che Marx, il quale conosceva benissimo Lucrezio, non avrebbe fatto altro che prendere coscienza della realtà già espressa nel convincimento del poeta latino e di ogni storico e pensatore antico è semplicemente ridicolo. Engels declina il materialismo marxiano con l’aggettivo “storico” proprio per differenziarlo dal materialismo precedente, così come non è casuale che Gramsci nei suoi scritti carcerari citasse il materialismo storico chiamandolo filosofia della prassi per dissimularlo alla censura. Chi poi volesse considerare il materialismo storico come un’interpretazione economica (o peggio ancora sociologica) della storia, come usa tra moltissimi, vuol dire che non ha letto Marx oppure che se l’è fatto raccontare da altri, per esempio da Canfora. Ma di questo un’altra volta.


(*) Nel 1417, l’umanista Poggio Bracciolini scoprì in un monastero tedesco l’unica copia sopravvissuta del poema filosofico di Lucrezio, composto intorno alla metà del I sec. e.c..

(**) La natura delle cose, trad. G. Milanese, Classici Greci e latini Mondadori, 1992, Libro V, 2-6, p. 403.


(***) Come scrivevo in un post recente, che si tratti di produzione materiale o intellettuale, di produzione di figli, il primo risultato dell’attività produttiva resta sempre un rapporto sociale. Rapporto che, naturalmente, può essere compreso solo nel quadro della totalità delle sue reali connessioni.

6 commenti:

  1. la proprietà non è la causa ma è l'effetto. La causa è la paura della morte o, per dirla al contrario, l'istinto di sopravvivenza. La paura di morire spinge l'umanoide a procacciarsi il necessario (e anche molto più del necessario) per vivere (cibo) e per vivere a lungo (condizioni ambientali minime quali un riparo, una casa, un rifugio).
    Proprietà ovviamente da non condividere con nessuno per non disperdere potenza. Un pollo sfama più di un pollo diviso in due, in tre o più parti ed una buona grotta vale più di una capanna su un albero. È l'ancestrale paura della morte che spinge al possesso e quindi alla proprietà e quindi all'accaparramento. Poiché proprietà non è statico possesso di un bene ma continuo accaparramento dello stesso. Ed è poi dall'accaparramento del cibo (sottraendolo ad altri) che nasce la violenza e la sopraffazione. Sottrarre (-) (ad altri) per aggiungere (+) (a se stessi). La paura che il cibo finisca è il più grosso handicap esistenziale dell'umanoide dal momento che, con una buona organizzazione sociale, si potrebbe assicurare cibo a tutti, a lungo ed in abbondanza. Ma l'istinto, si sa, quando prevale sulla ragione, produce cattivi risultati. Gli umanoidi sono ancora, quindi, bestioline dominate da istinti animaleschi che non riescono a dominare e da cui invece sono dominati. Un creatore che crea tali esseri imperfetti è un creatore a sua volta imperfetto. O, come penso, è un grande manipolatore che si serve degli umanoidi per i propri scopi (rapporto padrone-servo) rendendoli oltre che replicanti, tra l'altro, anche "autoestinguenti" ovvero in grado di ammazzarsi da soli al raggiungimento di talune soglie prefissate (popolazione mondiale, guerre, competizione, fame, etc). Ciao.

    RispondiElimina
  2. Grazie per il tuo lavoro in forma di questo blog. Averlo scoperto passando per quello di Luca è stato per un piacere, uno stimolo - come hai visto dagli ingombranti commenti in alcuni dei tuoi ultimi post. Non so se ricordi che cominciai a scriverti prendendomela con le "formule marxiste". E' una mia idiosincrasia, me ne scuso, e anche se non mi sfugge il senso di quello che scrivi...

    "... in quella antica consapevolezza si può rintracciare una concezione dell’uomo come essere naturale e sensibile, ma ... essa non lo vede in processo, ossia nelle sue determinazioni storicamente determinate e condizionate."
    Che l'uomo sia un "essere naturale sensibile", mi sembra incontestabile. Altrettanto incontestabile mi sembra che sia da vedere "in processo, ossia nelle sue determinazioni storicamente determinate e condizionate". Una visione bioculare, per così dire, se l'una non esclude l'altra.

    "In Marx, viceversa, punto di partenza non è rappresentato dall’uomo in quanto oggetto sensibile, ma dal suo lavoro, dalla attività umana sensibile."
    Volevi dire "soggetto sensibile", credo. Anche pensando che con il lavoro l'uomo produce se stesso - oggetto sensibile - il punto di partenza è comunque un soggetto: l'attività, una qualsiasi attività, può essere punto di partenza per una visione che si attivasse solo con il movimento - ma noi che siamo animali evoluti, anche se arrivassimo a vedere solo l'attività, cioè il movimento, penseremmo che quel movimento lo sta compiendo qualcosa o qualcuno: un soggetto.

    "Muovendo dalla produzione materiale della vita immediata, egli assume come fondamento di tutta la storia non già il concetto astratto di “uomo”, “attività” e “proprietà”, bensì la forma di attività, di proprietà e di relazioni che è connessa con un determinato modo di produzione."
    Penseremmo, noi animali evoluti, che quel movimento, quella attività, che hanno una forma, sono prodotti da qualche soggetto: la forma dell'attività è altrettanto astratta dell'attività, senza soggetto. E anche quella forma di proprietà e quella forma di relazioni "connesse con un determinato modo di produzione" hanno tanti soggetti in carne ed ossa.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. ti ringrazio per le tue parole di cortesia. Ultimamente ho in testa questo post: Diciottobrumaio finisce qui. Ringrazio i lettori e soprattutto coloro che si sono presi la briga di inviarmi i loro commenti.

      Ci sto pensando.

      volevo scrivere come ho scritto, "oggetto sensibile" e non "soggetto" come a prima vista – ragionevolmente si potrebbe pensare. "oggetto sensibile è espressione feuerbachiana.
      spero il commento sia scritto correttamente perché sono senza occhiali.

      sul resto forse in un prossimo post

      Elimina
    2. Capisco che alcuni commenti facciano passare la voglia - dato che dimostrano una granitica impermeabilità alla comprensione e una smisurata voglia di sbrodolare astrusità come fossero ambrosia - ma, come ben sai, "Segui il tuo corso e lascia dir le genti", è una massima che Marx riporta e segue come condotta di vita, tuttora valida e rilassante.

      Del resto, ogni tanto, un po' di stanchezza è comprensibile, perchè ogni tuo post dimostra che certo l'ispirazione e la rara somma delle tue capacità non sono mai venute meno.

      O forse la forma blog inizia a starti stretta e cerchi una metamorfosi?

      Un abbraccio e tutta la mia stima. gianni

      Elimina
    3. ah, come fosse ... antani? pensa, prima se ne sono andati i grilli, ma ci sono voluti diversi post. recentemente se ne sono andati altri con un solo post dove dicevo: se vi fate ancora questo tipo di domande allora non avete capito un cazzo. mica gliela puoi dire in faccia la verità a questi qui, sono permalosi.
      matamorfosi? figurati, ormai non mi telefonano nemmeno più quelli delle promozioni
      ciao caro, grazie per la stima

      Elimina
  3. che non ti venga in mente di attuare quel terribile proposito : non posso fare a meno del tuo blog e non sto scherzando . ciao mia cara .

    RispondiElimina