Prendiamo questa notizia: nel 2013
al Sud i decessi hanno superato le nascite. Un fenomeno così grave si era
verificato solo nel 1867 e nel 1918 cioè alla fine di due guerre, la terza
guerra d’Indipendenza e la prima guerra mondiale. Il numero dei nati al Sud ha
toccato il minimo storico: 177mila, il più basso dal 1861.
Ci sono molti modi per commentare
una notizia simile. Per esempio, quale stimolo può avere una coppia a fare
figli se vive non solo in una situazione socialmente degradata, ma se inoltre
viene minacciata apertis verbis dal
presidente del consiglio pro tempore? Per esempio,
il Magnifico in camicia bianca ha dichiarato alla Camera che “al termine dei
mille giorni il diritto al lavoro non potrà essere quello di oggi”. L’altro
giorno ha ribadito che il posto fisso (avercelo!) deve essere un ricordo
d’altri tempi, posto che ora le coglionate viaggiano via smartphone e non più per telefono a gettoni.
Vediamo in quale contesto sociale questo cabarettista spara le sue battute: nei primi cinque anni di recessione, delle 985mila persone che in Italia hanno perso il posto di lavoro, ben 583mila erano residenti nel Mezzogiorno. Nel Sud si è concentrato il 60% delle perdite. Se in Italia nel 2013 sono scomparsi 478mila posti di lavoro, 282mila sono stati al Sud. È stata superata una “soglia psicologica”: per la prima volta nel Sud il numero degli occupati è sotto i sei milioni. È il livello più basso dal 1977, da quando l’Istat compone le serie storiche.
Vorrei vedere gli Hurensöhne che condividono la linea neoliberista
farsi dare da una banca un fido per la casa senza un posto di lavoro più che stabile.
Oppure vorrei sentire gli stronzi che sui giornali decantano le “riforme” dire
ai propri figli: ho perso il lavoro e finché non arriva il sussidio
dello Stato, se arriverà, non se magna. È dunque in tali condizioni che le
coppie dovrebbero fare figli, contando sulla promessa di 80 euro?
Tuttavia di queste cose, sicuramente
anche meglio argomentate, leggerete in lungo e in largo su internet. Vorrei
perciò proporre un tipo diverso di riflessione, avvertendo doverosamente coloro
che si stancano presto alla lettura, semmai sono arrivati sin qui, che si tratta
di una riflessione un po’ più teorica che pratica, con pericolo di esantema.
*
Qual è lo scopo essenziale ed
esclusivo del capitale? La sua valorizzazione. Non serve leggere Schumpeter per
scoprire che il processo di valorizzazione del capitale è soggetto a crisi (*).
La stessa travolgente finanziarizzazione dell’economia è dimostrazione palese
di questo fatto, così come per altri versi n’è conferma l’andamento dei prezzi
e la caduta della domanda, l’alto tasso di disoccupazione e il sottoutilizzo
dei mezzi di produzione e la chiusura di attività, in altre parole la
“depressione” e la deflazione. E tuttavia si tratta per così dire degli aspetti
fenomenici della crisi, le cui cause vanno invece cercate nelle leggi stesse
della produzione capitalistica.
Un ruolo fondamentale nella crisi
è giocato dalla caduta tendenziale e progressiva del saggio del profitto. Non è di Marx la scoperta di tale
fenomeno, essendosi adoperati a sciogliere il mistero tutti gli economisti
(quelli di oggi non sono economisti ma fanno altro antico mestiere) da Adam
Smith in poi. Merito di Marx è invece quello di aver scoperto la legge per cui si produce tale fenomeno. Si tratta di una legge che viene ignorata perché essa
rinvia necessariamente alle contraddizioni fondamentali del modo di produzione
capitalistico, e pertanto sarebbe come parlare di corda in casa dell’impiccato.
Si tratta di una tendenza espressione
della crescente produttività sociale del lavoro, dunque conseguenza della
stessa natura della produzione capitalistica e come necessità logica del suo
sviluppo (**). Chi volesse dettagli numerici QUI. Di poi, come conseguenza, l’accumulazione accelera la caduta del saggio del profitto, e
per contro la diminuzione del saggio del profitto accelera a sua volta la
concentrazione di capitale e la sua centralizzazione. Non è una teoria, ma un'evidenza fattuale.
Tale tendenza progressiva della
caduta del saggio del profitto ha raggiunto in questa fase storica del modo di
produzione capitalistico il limite oltre il quale il processo di
valorizzazione, benché non arrestandosi,
entra in una fase di crisi assoluta e irreversibile, in cui le normali controtendenze alla legge stessa,
analizzate pur esse da Marx, si scoprono sempre meno efficaci ad arrestarne la
progressione (***).
Questo limite non ha nulla a che vedere con la produzione della ricchezza in
quanto tale; e questo particolare limite testimonia del carattere
ristretto, semplicemente storico, transitorio, del modo di produzione
capitalistico; prova che esso non
costituisce affatto l’unico modo di produzione in grado di generare ricchezza,
ma, al contrario, arrivato ad un certo
punto entra in conflitto con il suo stesso ulteriore sviluppo.
Da ciò deriva anche un altro
importante aspetto, e cioè che la crisi generale dell'accumulazione reale, genera sul piano sociale complessivo una non meno acuta crisi generale
nella quale sempre più persone sono respinte ai margini e nella precarietà,
private dei mezzi necessari alla propria sopravvivenza. E peraltro si
riscontra oggettivamente la difficoltà sempre maggiore di riprodurre su una
base sufficientemente ampia il rapporto tra capitale e lavoro, fatto anche
questo non privo di ulteriori conseguenze.
Del resto i nostri benefattori
della politica sanno benissimo che nel cercare una compensazione alla
stagnazione mediante l’aumento surrettizio dei consumi, non possono non trovarsi
in contrasto con la base ristretta su cui poggiano i rapporti di consumo
fondati su una distribuzione
antagonistica, la quale riduce il consumo della grande massa della società
ad un limite che può variare solo entro confini più o meno ristretti e dettati
dalla necessità intrinseca al modo di produzione capitalistico di ridurre i
salari. Il loro mestiere è appunto quello di gettare fumo negli occhi.
(*) Il prodotto del processo di
produzione capitalistico non è semplice prodotto (valore d’uso) né semplice
merce, cioè prodotto dotato di valore di scambio; il suo prodotto specifico è
il plusvalore, ossia merci che possiedono
un valore di scambio maggiore di
quello anticipato per la loro produzione. Ecco perché il processo lavorativo appare solo come un mezzo laddove la produzione
di plusvalore, ossia la valorizzazione del capitale, è il fine.
Essendo la produzione
capitalistica eminentemente processo di valorizzazione del capitale attraverso
lo sfruttamento della forza-lavoro, la cosiddetta “crescita” attraverso
l’aumento dei consumi ha dunque un unico scopo, non già l’aumentato benessere
dei lavoratori e dei consumatori, della società nel suo insieme, bensì quello
di favorire il processo di valorizzazione del capitale. Se poi tale “crescita”
la si vuole implementare con i fichi secchi, cioè con elemosine tratte dalla
fiscalità generale e l’anticipo di una parte del Tfr, si capisce bene con che
razza di stronzi s’ha a che fare.
(**) Inoltre e paradossalmente,
nella stessa misura nella quale si sviluppa la forza produttiva sociale del
lavoro, aumenta di fronte all’operaio la ricchezza accumulata come ricchezza
che lo domina, come capitale: il mondo della ricchezza gli si erge davanti
estraneo e come un mondo al quale è asservito, in cui cresce per contrappeso la
sua miseria soggettiva, il suo stato di spogliazione e di dipendenza. Spoliazione
e abbondanza si corrispondono!
(***) Marx ha dimostrato che la
legge della progressiva diminuzione del saggio del profitto o della relativa
diminuzione del pluslavoro acquisito in confronto alla massa di lavoro
oggettivato messo in movimento dal lavoro vivo non esclude che aumenti la massa assoluta del lavoro messo in
movimento e sfruttata dal capitale sociale e, quindi, anche la massa assoluta
del pluslavoro che esso si appropria; tanto meno esclude che i capitali a
disposizione dei singoli capitalisti comandino una massa crescente di lavoro e,
quindi, di pluslavoro, anche se non cresce il numero degli operai che da essi
dipendono.
Ogni tanto devo ripetertelo: bravo! ciao .g
RispondiEliminaNon brava! Bravissima, eccellente, superlativa.
RispondiEliminaLunga vita a questo blog e ai suoi attenti lettori.
Michele.
Letto senza manifestazioni cutanee per i contenuti, che cerco di capire senza riuscirci come vorrei per mancanza di informazione e formazione specifica. Qualche prurito invece lo ho avuto nel leggere espressioni che mi sono sembrate formalmente inesatte, e poiché sono inesattezze che ho avvertito contrastanti con analisi di questo livello, te le segnalo sperando di non provocare a te manifestazioni esantematiche.
RispondiEliminaA parte la solita espressione "contraddizioni fondamentali del modo di produzione capitalistico", per la quale dovrebbe valere la considerazione che il modo di produzione è quello che è, una realtà che presenta aspetti che vengono giudicati in contrasto tra di loro dall'osservatore - tu, Marx o chiunque con sguardo allenato a osservare queste realtà, perché chi non ha lo sgurado allenato potrebbe vedere un contrasto che invece non c'è. Ma la realtà non si contraddice mai: a noi sembra che si contraddica, nell'attribuire alla realtà un discorso che è solo nostro - e questa mi sembra una correttezza epistemologica dovuta anzitutto a Feuerbach, poi allo stesso Marx, che pure (se la traduzione "contraddizione" corrisponde al significato o ai significati del termine tedesco da lui usato) si contraddice dicendo contraddizione anche se proprio lui ha insegnato a riconoscere la dialettica che confonde se stessa con la realtà (ma penso che sia uno di quei termini che, come quello che viene tradotto con "superamento", nella lingua usata da Marx ha significati diversi, complementari, che non sono esauriti dalla parola tradotta).
Sulla stessa linea l'affermazione: "la legge che produce tale fenomeno". Quale è il soggetto? La legge? In questo caso è un errore nel dire. Le leggi scientifiche non producono fenomeni, ne registrano i rapporti e l'andamento costanti per cui diventa prevedibile ciò che accadrà date certe premesse. La legge di gravitazione universale non fa cadere i corpi a terra né tiene i pianeti nelle loro orbite, ma prende atto di ciò che regolarmente, costantemente avviene e il modo in cui avviene. - Semmai, allora, mi sembra corretto dire: la legge che permette di capire tale fenomeno. E ad ogni legge ci sarebbe da aggiungere un "finora", visto che vale fino a quando non ne viene formulata una di maggiore comprensività ed esattezza generale.
"conseguenza della stessa natura della produzione capitalistica e come necessità logica del suo sviluppo" - la necessità logica è quella di un ragionamento, non dello sviluppo di una realtà: di questo sviluppo è, come hai detto prima, conseguenza, conseguenza di fatto - non di pensiero - e questa conseguenza può essere prevista da una legge - che è pensiero.
Poniamo che ti cada una tegola in testa: ciò avviene, prescindendo dalla circostanza casuale dell’evento, in forza della legge di gravità oppure questa legge permette solo di comprendere perché la tegola è caduta? In altri termini, le cose di questo mondo, nel loro insieme e dunque nella loro necessità oggettiva, avvengono seguendo delle leggi, e dunque sono il prodotto di queste leggi, o queste leggi ci servono solo per comprendere i fenomeni?
EliminaTi servo un altro esempio: lo sviluppo degli antagonismi sociali deriva dalle leggi naturali della produzione capitalistica; e ovvio che tali antagonismi, presi singolarmente, appaiono come prodotti del caso e delle singole volontà, ma considerati nel loro insieme sono il prodotto delle contraddizioni della produzione capitalistica, ossia delle sue leggi. In tal senso le leggi “producono” il fenomeno.
Scrivevo in un post del 2013:
La legge non descrive il movimento della realtà immediata, ma piuttosto cerca di coglierne, di là delle forme, la sua “bronzea” necessità. Così come i “concetti” e le “categorie”, anche la legge è reale in senso mediato, e cioè riflette mediamente la realtà oggettiva. Un modello teorico riflette anch’esso solo in senso mediato il suo oggetto reale. Si chiedeva ironicamente Engels: “Forse la feudalità è stata mai corrispondente al suo concetto?”.
Scoprire le leggi generali che determinano il reale significa anzitutto conoscere ciò che è possibile. E per legge generale di un fenomeno s’intende la sua contraddizione principale espressa in categorie (ad esempio economiche: valore d’uso e valore di scambio; o fisiche: attrazione e repulsione) o simboli (ad esempio matematici) tra loro connessi secondo procedure logiche (o matematiche) materialistiche e dialettiche che ne spieghino il processo reale. Per analisi della tendenza – espressione peculiare della legge – s’intende lo studio simulato della contraddizione principale come processo, e cioè la sua dialettica quantitativa e qualitativa, nei suoi diversi stadi: dall’inizio alla fine.
l'ultima espressione: "conseguenza della stessa natura della produzione capitalistica e come necessità logica del suo sviluppo", è presa pari pari da marx. devi rivolgerti a lui.
Perdoni ma non e' altresi vero che quando, apparentemente, il processo di valorizzazione entra in una fase di crisi assoluta e irreversibile e' sempre possibile una grande guerra che distrugge capitale e mezzi di produzione per poi ripartire con un rinnovato processo di accumulazione? Socialismo o barbarie? E quindi se non siamo attrezzati per il socialismo, detto in modo banale, cosa ci resta? Speriamo che la legge sulla caduta tendenziale del saggio di profitto possa essere inficiata. Buona giornata
RispondiEliminavince
giusta osservazione. tuttavia scrivo di "normali controtendenze alla legge stessa", scrivendo "normali" in corsivo. se lei legge i miei post pregressi troverà molti spunti a proposito della sua osservazione. buona giornata a lei e grazie per il commento.
EliminaLa tegola spero che sia di pensiero! :-)
RispondiEliminaGrazie della risposta.
La tegola cade in forza, appunto, di una forza, detta gravità, non in forza di una formula, cioè della legge che ne descrive il modo costante, ripetuto e ripetibile di caduta, la quale legge è pensiero, non cosa. La legge sta nella testa degli uomini, non nelle cose.
Comunque, anche ciò dicendo, uso il pensiero, che non è identico alla realtà, non è la realtà la fuori che il soggetto pensante, noi, l'uomo, vede, osserva, legge, descrive, interpreta, comunica. Attribuire il fenomeno ad una forza che si presume presente nella realtà piuttosto che ad una legge che si ritiene invece presente soltanto nella mente dell'uomo è correttezza epistemologica dell'impostazione di pensiero materialista, mentre l'idealismo identifica pensiero e realtà.
E' la differenza tra Hegel e Marx: è un altro modo di vedere la realtà, e tu lo sai meglio di me - ma, mi pare, in questi aspetti secondari non ne prendi atto pratico di formulazione linguistica. E' il materialismo che si accorge del soggetto e scopre che la sua relazione con la realtà è all'origine del suo pensiero e del suo essere tutto sulla base di sue iniziali predisposizioni biologiche, mentre l'idealismo resta nel soggetto e fa discendere da esso la realtà, come la tegola dalla legge.
la tegola era figurata ovviamente
Eliminal'esempio trae spunto dal noto esempio del signor Maier e della tegola che dal cornicione gli cade sul capo mentre va al lavoro. Chiaro che si tratta di un evento casuale, e nell’ambito delle possibilità poteva capitargli oppure no. In genere si parla di sfiga, la quale, come già la fortuna, è cieca per definizione. Ma ciò appartiene al senso comune e ai suoi modi di dire.
Quell’evento è casuale, ma dal lato della caduta della tegola essa segue la necessità (ossia la legge di gravità), così come, dall’altro, l’uscita di casa del poveretto segue la necessità di recarsi al lavoro. La connessione (causa-effetto) tra le due diverse necessità, è solo temporanea. Però, fatto importante, non sono le necessità a provocare l’evento, il quale è accaduto casualmente. In altri termini, non la legge di gravità ha provocato quel particolare evento, sebbene in generale la caduta delle tegole segua la legge di gravità. Non tutti quelli che vanno di necessità al lavoro, incorrono in simili incidenti con le tegole. Non tutte le tegole che cadono dai cornicioni rompono la testa della gente che vi passa sotto.
In altri termini, la necessità non determina il reale ma solo il possibile. Ciò che è possibile (la caduta della tegola dal cornicione, da un lato, e, dall’altro, il passaggio in quel momento del signor Maier che si reca al lavoro) è determinato secondo necessità, ossia segue le leggi del mondo e dei fenomeni che stanno nel possibile. Se una cosa è determinata soltanto secondo legge e per necessità come una cosa possibile, allora essa nella realtà può accadere, manifestarsi, solo casualmente.
Se viceversa il possibile accadesse per necessità e non casualmente, se fosse retto dal principio che una cosa o un fatto accade per necessità, allora tutto sarebbe determinato non come un semplice possibile, ma già come una necessità.
no, non è semplicemente così: il soggetto scopre la relazione del suo pensiero con la realtà non solo sulla base di sue iniziali predisposizioni biologiche, cosa di per se ovvia, ma scopre che la sua coscienza è il suo essere sociale. la tegola qui non c'entra nulla.
ho provveduto a correggere, invece di legge che produce tale fenomeno, ho scritto: la legge per cui si produce tale fenomeno.
Elimina