Il lavoro, roba d’antiquariato (*).
Esisteva ben prima delle piramidi egizie. Dire che il lavoro è nato con l’uomo
non è un’esagerazione, poiché è lo specifico dell’uomo, ciò che fa la
differenza tra lui e il resto. Solo la mano dell’uomo è altamente perfezionata
dal lavoro di centinaia di migliaia d’anni. La mano umana è al contempo
l’organo del lavoro e il suo prodotto. La mano dell’uomo più imbranato può
compiere centinaia di operazioni che nessuna scimmia può imitare. Nessuna mano
di scimmia, per quanto abile, ha mai prodotto il più rozzo manufatto umano (**).
E allora per quale motivo il
lavoro è così bistrattato, considerato “una
condizione che è raramente di soddisfazione e molto più spesso di
sottomissione, ricattabilità, umiliazione, insomma di tempo umano pieno
d’infelicità”? È dunque il lavoro solo un “mezzo”, come sostiene Gilioli, o
è anche il primo bisogno della vita?
C’è qui una prima contraddizione che Gilioli non sa superare, dato il suo
ristretto punto di vista.
Il lavoro è attività generatrice e
trasformatrice della intera vita sociale, attività finalizzata e mediata da
molteplici strumenti ma tesa, qualunque siano le sue forme specifiche, alla produzione e alla riproduzione di
rapporti sociali. Contrariamente a quanto potrebbe pensare un presidente di
confindustria, che si tratti di produzione materiale o intellettuale, di
produzione di figli, il primo risultato dell’attività produttiva resta sempre
un rapporto sociale. Rapporto che, naturalmente, può essere compreso solo nel
quadro della totalità delle sue reali connessioni.
E, dunque, così come non si può
parlare di lavoro semplicemente come un “mezzo”, allo stesso modo non si può
parlare di lavoro senza tener conto dei rapporti sociali di volta in volta
storicamente determinati. Per esempio, tanto per farmi capire da gente di
“sinistra” come Gilioli, oppure da liberali come Squinzi, per esaminare la
connessione tra produzione intellettuale e produzione materiale, è anzitutto
necessario concepire anche quest’ultima non come una categoria generale, ma in
forma storica determinata.
Se non tengo conto del lavoro nel
suo stretto rapporto con una forma storica di riferimento, se non tengo conto
dei rapporti sociali di volta in volta storicamente determinati, parlo del
lavoro in astratto, così come esiste solo nello spazio logico. Nella situazione
concreta, si tratta invece di un concetto storico complesso, come del resto
quello di “produzione”, che nella vita reale assume come fondamento tutta la
storia di relazioni che è connessa con quel
modo di produzione.
Per fare un esempio banale, quando
Squinzi distingue, riferendosi al modo di produzione attuale, il lavoro “di
testa” da quello manuale, senza alcuna altra specificazione, dicendo che ciò
che distingue la classe dei padroni da quella degli operai è il tipo di lavoro svolto, cade nel
ridicolo, anche se nessun lacchè dei media glielo fa notare. Vi sono dei
padroncini, per esempio, che fanno lo stesso tipo di lavoro dei propri operai,
e, per contro, come rilevavo in un post dei giorni scorsi, anche l'antico
proprietario di schiavi faceva un lavoro di testa e di punta, come gli attuali
padroni, mentre lo schiavo antico e quello moderno lavorano di mano e lo
prendono in quel posto (***).
Oltretutto il sapere è la
coscienza di classe e la consapevolezza degli scopi. Si vede bene in
televisione, laddove i padroni sanno ben animare e finalizzare i propri scopi
facendoli apparire come gli stessi scopi dei loro schiavi, anzitutto facendo
adottare agli schiavi il proprio linguaggio e il loro modo di definire le cose
(perciò Squinzi s’incazza se uno lo chiama padrone), quindi facendo passare
l’idea che “stiamo tutti sulla stessa barca”. Controllando il discorso pubblico
essi determinano le coscienze e i comportamenti. Lo sapeva bene Goebbels (****).
Il lavoro salariato è stato sempre
concepito come una “condizione infelice”, e dunque tale sentimento non è una
scoperta di Gilioli, posto che egli possa avere una qualunque intuizione felice.
Se dunque il lavoro resta pur sempre una necessità per produrre la vita, per
quale motivo la coscienza comune percepisce il lavoro salariato sempre più come
una forma desueta del produrre? Detto in breve, per il fatto che è palese come
sia sproporzionata, oggi, la giornata lavorativa a fronte delle capacità e
potenzialità delle forze produttive.
Ma ciò si scontra con la natura
stessa del processo di valorizzazione del capitale, con le sue leggi. Lo scopo
fondamentale del capitale non è la
produzione in quanto tale (l’agognata “crescita” di cui straparla l’idiozia
comune), ma la produzione di plusvalore.
Ecco dunque manifesta la grande contraddizione sul piano economico, politico e sociale,
tra il grande aumento delle capacità produttive da un lato, laddove serve
sempre minore lavoro vivo per mettere in movimento quello passato, e la
necessità del capitale di non ridurre la giornata lavorativa per non vedere
declinare il saggio del profitto.
Il tentativo politico di risolvere
pacificamente questa contraddizione, quella tra sviluppo delle forze produttive
e stagnazione dei rapporti di produzione, è semplicemente ridicolo e fuori
dalla storia.
Pertanto, condizione preliminare a
ogni libertà è di essere liberi dal lavoro salariato. Ciò comporta la
rimodellazione delle forze produttive, della tecnica e della scienza entro un
nuovo quadro di razionalità fondato sulla liberazione del lavoro. Naturalmente
sarà necessario, tra l’altro, ridefinire il concetto di ricchezza fondandolo
non più sul tempo di lavoro ma sul tempo disponibile (ecco cosa vuol dire Gilioli, mettendo però il carro davanti ai buoi).
Ed infatti il lavoro necessario per la riproduzione della società nelle attuali
condizioni può essere effettivamente ridotto a misure estremamente piccole
creando una massiccia liberazione del tempo disponibile per ogni individuo e
per l’intera società. Ciò non può prescindere a sua volta dall’eliminazione
della proprietà privata, quindi dalla appropriazione/gestione sociale dei mezzi
di produzione sulla base di rapporti di collaborazione e di mutua assistenza
affinché il libero sviluppo di ciascuno sia effettivamente la condizione del
libero sviluppo di tutti. E a tutto ciò è indispensabile un effettivo
internazionalismo proletario.
(*)
Per ottenere il latte vaccino è necessario mungere le vacche, e anche se oggi
impieghiamo strumenti ausiliari per la mungitura molto sofisticati che ci
consentono di risparmiare lavoro, tuttavia è sempre necessaria la presenza e il
lavoro dell’uomo nelle stalle. E per chi disdegna il latte e preferisce il
vino, va ricordato che la vendemmia avviene pressappoco come all’epoca di Noè.
E gran fatica costa ancora raccogliere l’oro rosso nei campi ed estrarre quello
giallo nelle viscere della terra. Eccetera.
Dopo la prima grande rivoluzione, quella neolitica,
nel V millennio ne avvenne un’altra che pose le premesse per la progressiva
urbanizzazione, un fenomeno che si affermerà in un lungo tempo (le città del
Nilo, Tigri-Eufrate, Indo, quindi Ebla, Arslantepe, Byblos, Shortugai, fino a
Tepe Yahya, ecc.), e per lo sviluppo di un vasto commercio internazionale che
vedrà, tra gli altri, i primi contatti delle civiltà euroasiatiche anche con
quello che millenni dopo si chiamerà Nuovo Mondo, ossia con la Mesoamerica
(cfr. Lucio Russo, L'America dimenticata. I rapporti tra le civiltà e un errore
di Tolomeo, libro uscito nel maggio 2013 per Mondadori.
Ai naturali prodotti primari, carne, pesce, latte e
specie vegetali esistenti in natura, si affiancheranno nuovi prodotti creati
dall’uomo con complessi procedimenti di trasformazione. Furono ibridate nuove
specie di piante e fabbricate bevande prodotte con l’uso di lieviti e la
fermentazione alcolica, lavorato il latte ottenendo una varietà di prodotti
caseari. L’introduzione della metallurgia, l’impiego della fusione e
dell’estrazione dei metalli dai minerali, fu un passo decisivo verso ciò che
noi chiamiamo impropriamente storia (distinguendola dalla preistoria). Fatto
non secondario, nacquero allora i primi dottori commercialisti, e probabilmente
anche le prime forme di evasione d’imposta. Insomma, s’imposero forme molto
sviluppate di divisione sociale del lavoro, di separazione tra lavoro agricolo,
lavoro industriale e attività commerciale.
Con questa rivoluzione comincia a scomparire l’antica
comunità intesa come collettivo proprietario della terra lavorata in comune,
laddove lo scopo del lavoro non è la creazione di valore di scambio – anche se
il prodotto eccedente viene scambiato con altri prodotti. Il suo scopo è invece
il mantenimento del singolo lavoratore, proprietario al pari degli altri
lavoratori della terra comune, della sua famiglia e dell’intera comunità.
Negli antichi ordinamenti economici lo scopo
principale, come detto, è la produzione di valori d’uso, la riproduzione
dell’individuo, della sua comunità e dei relativi rapporti sociali. La
condizione obiettiva dell’individuo non si presenta come risultato della
divisione del lavoro e della proprietà. E tuttavia, la stessa produzione
allargata, l’incremento della popolazione, annullano a poco a poco queste
condizioni, le distruggono invece di riprodurle.
Inoltre, i conflitti con le altre comunità per
l’occupazione della terra portano la comunità ad organizzarsi militarmente.
L’organizzazione bellica della comunità è una delle condizioni di esistenza
della comunità come proprietaria e del contadino che nell’agricoltura trova
l’occupazione propria dell’uomo libero, “come scuola del soldato”. Con la
guerra siamo già al presupposto della schiavitù, ossia di una nuova forma di
proprietà e della più importante forma sociale di sfruttamento del lavoro altrui.
Non si produce più per la mera sussistenza e il
baratto delle poche eccedenze. Il surplus non serviva solo come scorta sociale
in caso di carestie ma si stabiliva come fonte di ricchezza e di potere individuale
sulla società, proprietà privata dei mezzi di lavoro e della natura, fonte con
il lavoro della ricchezza. Nascono così rapporti nei quali il pluslavoro dello
schiavo diventa condizione di ozio del padrone.
(**) Ovvio che l’uomo non è solo la sua mano, ma un
organismo molto complesso, e ciò che è acquisito per la mano lo è anche per il
resto del corpo, secondo la legge darwiniana della correlazione dello sviluppo.
Il lavoro, la necessità di entrare in rapporti socievoli e collaborativi con
gli altri, ha portato allo sviluppo della modulazione degli organi vocali e
alla nascita del linguaggio umano. Il lavoro e il linguaggio sono stati gli
stimoli più essenziali per lo sviluppo del cervello, dei sensi al suo servizio,
e di una coscienza sempre più chiara.
L’uomo
non produce solo oggetti e figli, ma anche segni che mediano l’attività verbale
di pensiero e dunque i processi di comunicazione e di conoscenza. Perciò a
buona ragione Marx ed Engels affermano che il linguaggio è antico quanto la
coscienza, “il linguaggio è la coscienza
reale, pratica, che esiste anche per gli altri uomini e che dunque è la sola
esistente anche per me stesso”.
Il
sistema dei segni, che rende possibile la cooperazione tra gli uomini, non
reperibile immediatamente in natura, è un prodotto esclusivo dell’uomo, della
sua attività sociale. Chi obietta che anche altri animali comunicano e
cooperano tra loro, non ha capito proprio un bel nulla sulla differenza tra ciò
che è genetico, ripetitivo e sempre uguale, e ciò che invece è informazione
extragenetica e che distingue essenzialmente l’attività umana.
Scrive Marx:
Il
nostro presupposto è il lavoro in una forma nella quale esso appartiene
esclusivamente all'uomo. Il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle
del tessitore, l'ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle
sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggior
architetto dall'ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella
sua testa prima di costruirla in cera. Alla fine del processo lavorativo
emerge un risultato che era già
presente al suo inizio nell'idea del lavoratore, che quindi era già
presente idealmente. Non che egli effettui soltanto un cambiamento di forma
dell'elemento naturale; egli realizza nell'elemento naturale, allo stesso
tempo, il proprio scopo, che egli conosce, che determina come legge il modo del suo operare, e al
quale deve subordinare la sua volontà (Il Capitale,
I, cap. 5). Il significato dell’ultima frase di questo brano è spesso
trascurato per le sue decisive implicazioni.
(***) «Lo
schiavo romano era legato al suo proprietario da catene; l’operaio salariato lo
è al suo da invisibili fili. L’apparenza della sua autonomia è mantenuta dal
continuo mutare dei padroni individuali e dalla fictio juris del contratto» (Il Capitale, I, cap.
XXI).
Marx – lo sappiamo – era un poco di buono, un
sovversivo. Sentiamo invece un autorevole e pacato esponente dell’onorata
società: «Allorché un individuo è
costretto a pagare e a lavorare per altri, questo individuo è lo schiavo degli
altri» (Maffeo Pantaleoni, La caduta
della Società Generale di Credito mobiliare Italiano, UTET, 1988).
Oppure Cicerone:
«I mercanti non possono guadagnare senza mentire, e non c'è nulla di più
spregevole della menzogna [...] tutti
coloro che vendono la loro fatica e la loro industria, [...] chiunque offra il suo lavoro in cambio di
denaro vende se stesso e si mette a livello degli schiavi» (Dei doveri, I,
XLII).
(****)
Fino a quando i proletari non costruiranno – appropriandosi il processo
produttivo vitale – una propria coscienza sociale e dunque non definiranno
consapevolmente gli scopi della propria attività, vale a dire la loro identità,
la propria memoria, il proprio potere sociale, saranno dei perdenti. Dato il
carattere assoluto del dominio della borghesia, dunque del carattere assoluto
antagonismo sociale, ciò non potrà avvenire se non con la violenza e la
distruzione dei feticci del capitale.
Il lavoro, soprattutto quello pesantemente manuale, è così bistrattato perchè stanca.
RispondiEliminaQuando è avvenuto p.e.il cambiamento sostanziale - il riferimento è nel tempo di Uruk - IV sec.a.C.- di tipo organizzativo consistito nel separare e gestire la produzione del cibo e le funzioni specialistiche, si è relegato il primo alla campagna e furono creati così gli specialisti (amministratori,scribi,soldati,sacerdoti e artigiani) posizionati nella città. Per arrivare poi alle 'arti liberali' e a quelle meccaniche e alla fine del circuito alla svalutazione del lavoro con le mani nelle scelte scolastiche dei nostri figli (di una certa 'classe'), ancora oggi. Non sorvolerei su una distinzione di base pensando sinonimi lavoro intellettuale ,lavoro salariato in genere e lavoro salariato 'manuale' , il loro risultato resta sempre un rapporto sociale ma con coinvolgimenti sostanziali e altrettanto differenti, sia che lo sostenga il presidente di Confindustria o gli esperti ideologicamente trasversali.
"Mangerai il pane con il sudore della tua fronte” (Gn 3,19).
Voltare le pagine, impugnare la penna e premere i tasti fa sudare solo se
sei troppo coperto in un ambiente eccessivamente riscaldato.
I padroncini - piccoli imprenditori di se stessi nella versione marxiana - hanno un coinvolgimento diverso negli utili d'impresa rispetto ai sottoposti,
fatto salvo il medesimo atteggiamento di quest'ultimi quando diventano essi stessi padroncini, spesso con maggiore crudeltà. C'est le capitalisme malheureusement.
Un ulteriore vista prospettica sul tema, a mio vedere non trascurabile, mentre resterà pertanto da definire tra molti altri problemi chi si dovrà occupare dell'uno e chi dell'altro nella futura vita sociale, ci si augura meno faticosa per troppi ma nel contempo lontana dalle fantasie di Philip K.Dick.
Via Durkheim o Weber come possibili visioni alternative, c'è rimasto tale Giglioli che ora fa coppia fissa con mr.Pinketty. Sarà questo l'inizio di un possibile tentativo per normalizzare il linguaggio tra schiavi e padroni.
A parte le implicazioni di prassi della conclusione ("Dato il carattere assoluto del dominio della borghesia, dunque del carattere assoluto antagonismo sociale, ciò non potrà avvenire se non con la violenza e la distruzione dei feticci del capitale.") sulla quale vorrei sapere quale violenza, quale distruzione, in qualche punto avevo perplessità più facili.
RispondiEliminaPer esempio: "... il linguaggio è antico quanto la coscienza, 'il linguaggio è la coscienza reale, pratica, che esiste anche per gli altri uomini e che dunque è la sola esistente anche per me stesso' ”, però anche, come scrivi: "... Il lavoro e il linguaggio sono stati gli stimoli più essenziali per lo sviluppo del cervello, dei sensi al suo servizio, e di una coscienza sempre più chiara.. "
- "una coscienza più chiara" trova subito il mio accordo cognitivo, che invece non ho sulla identificazione tra coscienza e linguaggio - basti pensare al laboriosissimo primo anno di vita del bambino, alle intense e complesse comunicazioni con la madre fin dai primi giorni di vita - il bambino, l'infante, fino a che non parla sarebbe d'altra specie, e diventa umano solo quando comincia a parlare? Forse si può pensare che quando comincia a parlare comincia anche a correre il rischio di incamminarsi sulla strada della razionalità, che permette, sì, di costruire dighe da uomini e non da i castori, ma quando diventa razionalità pura, scissa, dominatrice, combina disastri che i castori non combineranno mai - incluse rivoluzioni che, assai razionali, hanno dimenticato qualcosa di essenziale per l'essere umano, o non lo hanno mai saputo.
- Il nostro stesso pensiero adulto non procede solo per lingua, concetti-parole e loro connessioni logiche-linguistiche, semmai è un linguaggio, solo in parte traducibile in parole, cioè non esauribile dalla lingua, ed ha una sua logica sottostante diversa da quella asimmetrica (per cui se mangio una mela la mela non mangia me e se sono il padre di mio figlio non sono suo figlio), cioè include processi mentali con logica di tipo simmetrico (non alogici, bensì con altra logica rispetto a quella di cui ci serviamo normalmente nella vita da svegli). Anche quello dei nostri sogni quando dormiamo è un linguaggio, e non cominciamo a sognare quando impariamo a parlare.
Ovvio che un bambino di un anno è un essere umano anche se ancora non articola un linguaggio complesso, anche se la sua coscienza è ancora a uno stato preverbale. La coscienza comincia a succhiarla con il latte materno, nell’ambiente domestico. La mia frase va intesa nel senso: la coscienza individuale può diventare coscienza soltanto nelle forme ideologiche dell’ambiente che gli vengono date: in questo senso il linguaggio (il sistema dei “segni”, non solo la lingua in sé) svolge un ruolo fondamentale. Perciò, evocando una nota espressione merxiana, è l’essere sociale che determina la coscienza e non viceversa, con tutte le implicazioni del caso.
EliminaLa frase: “il linguaggio è la coscienza reale, pratica, che esiste anche per gli altri uomini e che dunque è la sola esistente anche per me stesso”, come rendo esplicito, è di Marx, non mia.
Il tema del post non è però la coscienza, il linguaggio e i segni. Capisco che questi sono temi che ti prendono, ma io vi ho fatto solo un accenno per concetti rapidi.
Sì, è giusto il tuo richiamo: lo avevo premesso, che andavo su perplessità più facili. E che fosse una citazione di Marx lo avevo capito, ma inserita in una mia citazione delle tue parole avevo tolto le doppie virgolette e messo un apostrofo, che deve esserti sfuggito.
RispondiEliminaE' che sul tema centrale sono sicuro di non trovare le giuste parole per tradurre altro che sa più di quanto non sappia la mia mente parlante. Perciò prendi quello che provo a dirti come tentativi, che faccio qui. Marx ha il merito immenso di aver indicato il qui ed ora dell'uomo, le sua reali condizioni di vita, e che fondante, strutturale della condizione umana è la produzione del necessario per vivere, il lavoro, e in esso la realtà nascosta del pluslavoro, lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo - merito immenso è la sua lettura della realtà, il metodo che segue nel farla e che gli permette di indicare, svelare, e se ti allontani dalla realtà da lui metodicamente svelata vai per la tangente, via dalla realtà, fino a che la realtà resta quella pur nelle forme mutevoli che assume per restare realtà di sfruttamento dell'uomo sull'uomo.
E tu hai il merito di restare sulla indicazione di realtà di Marx. Questo non è facile affatto, anzi. Vorrei esserne capace anch'io. Avere il tuo coraggio, la tua ostinazione, restare legato al palo mentre le sirene vorrebbero il naufragio - il quale è forse inevitabile perché i tappi alle orecchie dei rematori non funzionano per niente, ma questa è un altra storia: almeno il naufragio del mio pensiero posso cercare di evitarlo, come fai tu.
Ora dovrei arrivare a dirti le perplessità meno secondarie rispetto alla identificazione tra coscienza e linguaggio - sempre secondaria è quella sull'essere sociale che determina la coscienza, la quale determinazione avviene entro limiti e con modalità che sono quelle del funzionamento delle strutture mentali dell'uomo, le condizioni a priori della sua possibilità di esperienza, innate alla prima nascita, e per indirizzo d'apprendimento - quello possibile - alla seconda nascita, con l'apprendimento della lingua e l'inserimento nel mondo dei segni.
C'è un lavoro che non è dell'uomo, e tu lo hai ricordato nel tuo post. Ma vorrei aggiungere altro, ed ho difficoltà. C'è un lavoro che produce il lavoro del ragno nel costruire la sua ragnatela. C'è un lavoro degli occhi nel guardare, delle orecchie nel sentire, cè un lavoro dei muscoli, dei nervi, dei tendini, delle ossa della mano che produce il lavoro della mano, così come c'è un lavoro del cervello che produce la specificità umana del lavoro di quella mano, se è un cervello umano, se è un cervello dell'homo sapiens sapiens. C'è un lavoro inconscio che produce il lavoro visibile - Marx ha svelato una parte importante del lavoro inconscio, sistematicamente rimosso, di livello immediatamente sottostante a quello del mondo del lavoro che è possibile vedere dopo che si sono tolte le maschere che lo nascondevano e continuano a nasconderlo - ha svelato il lavoro metodico di sfruttamento di alcuni su masse oppresse di altri umani, ma non è tutto il lavoro inconscio che genera la realtà del lavoro umano così come è. C'è altro, e credo, ricordo che pensai quando lo leggevo anche se ricordo poco di quello che leggevo, che lui lo sapesse, che lo avesse intuito e detto, anche se poi si è dedicato all'aspetto economico, al qui ed ora più urgente e condizionante. Per questo ti chiedevo de Il capitale rispetto agli scritti precedenti, a te che sei rimasta al punto mentre io me ne sono allontanato. Proverò in altra occasione a dirti meglio le mie perplessità, il mio sentire meccaniche, non più vitali, quelle che chiamo "formule marxiste" di interpretazione della realtà da parte di alcuni marxisti, a volte anche da parte tua.
Ti ringrazio.
La ricostruzione che fai è molto pertinente: Marx ha scoperto la legge dello sviluppo della storia umana, ha anche scoperto la legge peculiare dello sviluppo del moderno modo di produzione capitalistico e della società borghese da esso generata, la scoperta poi del plusvalore ha gettato un fascio di luce nell'oscurità in cui brancolavano prima, in tutte le loro ricerche, tanto gli economisti classici che i critici socialisti. Ma di ciò, attualmente, non importa alcunché ad alcuno.
EliminaLe tue difficoltà sono le difficoltà di tutti poiché la parola scritta richiede una cura e un’attenzione che quella verbale, immediata, richiede di meno, e perciò diventa maledettamente più complicata la comunicazione laddove molto del senso e delle sfumature, di tono e di espressione, del gesto stesso, che accompagnano il verbale viene perso nella più asettica e meccanica scrittura/lettura. Ciò è inevitabile, ma vedrai che con calma riusciremo a tirar fuori qualcosa di utile ad entrambi e, forse, anche ad altri.
poi, ieri sera, non stavo bene e perciò mi veniva difficile non solo scrivere la risposta.
grazie a te.