«La contraddizione è universale, assoluta,
essa esiste in tutti i processi di sviluppo delle cose
e penetra tutti i processi dal principio alla fine».
Lavoro, uguaglianza e pari
dignità, abitazione, istruzione e sanità gratuita, previdenza e assistenza nella
vecchiaia, piena libertà d’espressione, sono questi gli elementi fondamentali e
irrinunciabili su cui si viene a stabilire un’autentica democrazia. In nessun
paese capitalistico questo tipo di democrazia si è realizzato, anche se in
taluni paesi, ma assai meno negli Stati Uniti d’America, alcuni di questi
diritti e principi sono divenuti realtà, pur se spesso in modo contraddittorio,
parziale e vincolato. In tema di lavoro, uguaglianza e pari dignità siamo ben
lontani – e sempre più con il procedere della crisi e della violentissima offensiva
borghese – dall’aver raggiunto gli obiettivi auspicati, costituzionalmente
sanciti, e del resto ciò è reso impossibile dallo stesso dispotismo economico su
cui poggiano concretamente tali sistemi classisti.
Per quanto riguarda invece l’esperienza
sovietica, essa venne a forgiarsi in una congiuntura storica che più difficile
non si potrebbe immaginare dal punto di vista dello sviluppo economico e
sociale, ancora largamente d’impronta semifeudale. E, per di più, ciò avvenne in
condizioni di guerra civile, di carestie e blocchi commerciali delle potenze
capitalistiche, tra due guerre mondiali di cui la seconda sommamente distruttiva
e sanguinosissima. Seguì poi una fase di aspra contesa con il blocco
capitalistico e la necessità di mantenere un elevato livello di predisposizione
bellica. Tuttavia l’Urss riuscì a imbastire un sistema di garanzie sociali che,
pur tra molte restrizioni, gravi penurie e sottoposto ad un’occhiuta burocrazia
accentratrice, ottenne dei risultati indiscutibilmente positivi. Per il resto,
per quanto riguarda segnatamente le libertà individuali, politiche, sindacali e
d’espressione del pensiero, si trattava di un regime totalitario, poco meno di
un gulag a cielo aperto.
Del resto le libertà individuali
non sono un semplice e automatico portato di certe conquiste materiali, pur essendo l’affrancamento dai più basilari
bisogni la reale e imprescindibile premessa di ogni altra forma di libertà.
Era e resta questo il più grande dei problemi teorico-pratici della modernità, dunque
il compito politico più difficile che è quello di conciliare sviluppo delle libertà
individuali e progresso collettivo in un modello sociale che poggi in premessa sull’uguaglianza.
I sistemi economico-sociali
capitalistici hanno potuto metter in campo, per un certo periodo, politiche social-democratiche
che ponevano al centro del loro pragmatismo il lodevole proposito di migliorare
il sistema delle garanzie sociali e attenuare le più stridenti disuguaglianze.
E tuttavia tali politiche d’impronta riformatrice, se da un lato riuscivano a
mascherare un modello di democrazia d’impronta classista, dall’altro contenevano
in germe le contraddizioni di uno Stato parassitario e inefficiente. La crisi
fiscale dello Stato e la minaccia di squilibrio che essa contiene ha mandato
all’aria tali politiche d’impronta redistributiva, ribadendo la sola logica
alla quale il sistema della competitività capitalistica deve necessariamente obbedire, ossia quello
della massima redditività ed efficienza estorsiva.
Di quale tipo di libertà e di
democrazia questo sistema sociale sia capace, lo possiamo riscontrare ogni
giorno. È ciò in forza del fatto che la proprietà dei mezzi di produzione resta
saldamente di natura privatistica, ed essendo il capitale un rapporto sociale, il
resto è naturale e necessaria conseguenza (concetto assai difficile da far
comprende e però non si può deflettere). Rapporti di natura privatistica,
eppure anche su tale piano contraddittori, laddove il più grave pericolo per la
proprietà privata risulta essere paradossalmente non già l’idea sovvertitrice
del comunismo, ma il capitale stesso, laddove esso fagocita la piccola proprietà privata nel monopolio e concentra la ricchezza sociale
in poche mani tendendo a proletarizzare le cosiddette classi medie.
Dal canto loro, i sistemi
socialisti novecenteschi, per molte ragioni, fallirono in questo tentativo di
conciliazione tra democrazia sostanziale e libertà individuali, se mai si posero
realmente tale obiettivo e non ritennero
invece che esso si esaurisse in alcuni dei risultati tangibili raggiunti. La
dittatura del proletariato, declinata troppo meccanicamente, si trasformò nella dittatura
di un partito e poi con Stalin nel dispotismo di un uomo solo e di un’élite
burocratica.
Il fallimento del “socialismo reale” nel suo tracollo non trascinò le speranze, ormai assai residuali per non dire inesistenti, di una via al socialismo di stampo sovietico. E tuttavia l’implosione del sistema sovietico, coincise, ma non fu causa, con l’esaurirsi del movimento politico che dagli anni Sessanta soprattutto in Occidente s’era fatto interprete di nuove e dirompenti istanze non solo operaie ma anche di ceti sociali emergenti (**).
Il fallimento del “socialismo reale” nel suo tracollo non trascinò le speranze, ormai assai residuali per non dire inesistenti, di una via al socialismo di stampo sovietico. E tuttavia l’implosione del sistema sovietico, coincise, ma non fu causa, con l’esaurirsi del movimento politico che dagli anni Sessanta soprattutto in Occidente s’era fatto interprete di nuove e dirompenti istanze non solo operaie ma anche di ceti sociali emergenti (**).
Vero è, per riprendere il
discorso, che i paesi capitalistici riuscirono a trovare il modo di conciliare,
pur tra molte contraddizioni e in modo parziale, libertà e democrazia solo dopo
due conflitti mondiali e una crisi economica inedita per la sua gravità. Ciò
poté avvenire solo in forza della spinta di un poderoso ciclo di accumulazione,
di una fase potente di sviluppo industriale e di consumi allargati in cui
l’intervento della spesa pubblica ebbe a svolgere un ruolo determinante. Fu
quello il momento più alto delle politiche riformistiche favorite dal ciclo
economico espansivo. Senza quelle forti spinte propulsive create dalle
condizioni del dopoguerra, il modo di produzione capitalistico, lasciato a se
stesso, non avrebbe potuto garantirsi stabilmente per decenni, e le intese
politico-economiche e monetarie raggiunte tra le diverse potenze capitalistiche
avrebbero avuto il destino di un nuovo fallimento con il riaprirsi d’insanabili
conflitti.
Quella fase capitalistica, guidata
dagli Usa come nuova e riconosciuta leadership occidentale, mostrò già la corda
nel momento stesso in cui venne revocata unilateralmente la convertibilità tra
dollaro e oro e dunque con la crisi degli anni Settanta. In seguito, l’introduzione
di nuove tecnologie su base elettronica, l’immissione sul mercato di nuovi
prodotti, gli investimenti pubblici a debito e le nuove occasioni di espansione
favorite dagli accordi sul libero commercio, fornirono al sistema la
possibilità di superare la fase di crisi. Ma proprio questa nuova situazione,
l’internazionalizzazione dei capitali e dello sfruttamento del lavoro,
l’introduzione massiccia di nuove tecnologie e il miglioramento dei processi
produttivi, porta in sé gli elementi contraddittori e salienti di una nuova
fase storica del capitalismo, quella della sua crisi generale nel momento del suo massimo trionfo e che riverbera in ogni
aspetto delle odierne dinamiche sociali.
A seguito dell’introduzione
delle nuove tecnologie e del loro dominio assunto nei processi produttivi e di
comunicazione, il lavoro produttivo ha raggiunto livelli di efficienza quantitativa
e qualitativa quasi inimmaginabili solo qualche decennio or sono. Specie nelle
aree di più antica industrializzazione, dove è già stato raggiunto un elevato
grado di perfezionamento delle attività produttive, c’è sempre minor bisogno di
lavoro in rapporto al capitale investito in macchinari e materie prime. Ciò
produce necessariamente da un lato l’aumento della disoccupazione e dall’altro
una tendenza alla diminuzione del saggio del profitto.
Per far fronte alla
disoccupazione si provvede con quelli che sono definiti come ammortizzatori
sociali, e si ragiona sempre più spesso di reddito di cittadinanza e simili, ma
ciò richiede risorse che alla lunga la fiscalità generale così com’è impostata
non potrà in alcun caso garantire. E tuttavia il lavoro vivo appare sempre più
residuale, benché sempre necessario, all’attività produttiva in rapporto al
lavoro oggettivizzato che esso può mettere in moto. Si tratta di una realtà di
cui anche gli economisti, loro malgrado, si sono accorti, per quanto questi confusi
perditempo insistano nel chiedere un maggior sfruttamento degli operai per far fronte all'altro aspetto della contraddizione, ossia la caduta del saggio del profitto.
E in ciò Marx aveva visto
giusto, laddove scriveva che a un certo grado dello sviluppo capitalistico, ossia
non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte
della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua
misura, e quindi il valore di scambio deve cessare di essere la misura del
valore d’uso. Di modo che “Il pluslavoro
della massa ha cessato di essere la condizione dello sviluppo della ricchezza
generale, così come il non-lavoro dei pochi ha cessato di essere condizione
dello sviluppo delle forze generali della mente umana. Con ciò la produzione
basata sul valore di scambio crolla, e il processo di produzione materiale
immediato viene a perdere anche la forma della miseria e dell’antagonismo”.
Ecco dunque perché i filosofi del
non lavoro, aggrappandosi al più visibile dei fenomeni e non certo per analisi
delle cause condotta di loro sponte, stanno già mettendo le mani avanti, con l’avido
anticipo degli infantili, e, come solito, scambiando lucciole del presente per
lanterne del futuro magnifico e progressivo. Se quella sommariamente descritta
è una tendenza in atto, nondimeno il capitale e il sistema sociale che gli
corrisponde, pone ovvia e non pacifica
resistenza, per il semplice fatto che esso sa bene che il lavoro, e solo il lavoro vivo e produttivo, è l’unica fonte che
aggiunge nuovo valore, e che il plusvalore nella declinazione borghese del
profitto è lo scopo della sua stessa esistenza e per esso lotterà fino alla fine.
È in questa nuova insanabile
contraddizione storica, tra sviluppo delle forze produttive e vecchi rapporti
di produzione, ossia tra nuove dinamiche economico-sociali e l’appropriazione privata della ricchezza, che si dibatte
il sistema capitalistico. La logica dello sviluppo delle istituzioni non può
essere indipendente, come pretende Mario Tronti, dalle leggi di sviluppo del
capitalismo. In forza di tali leggi di movimento e su questo preciso terreno
politico, e dunque inevitabilmente su quello della comunicazione sociale, si
combatterà la battaglia decisiva, molto lunga, cruenta e senza esclusione di
colpi. Essa avrà per tema fondamentale, qualunque ne siano le motivazioni
politiche addotte dai suoi interpreti del momento, l’affrancamento effettivo
dello schiavo moderno e il superamento di un sistema di predazione che ha come
esclusivo obiettivo il profitto per mezzo di uno sfruttamento divenuto anacronistico
e in antitesi alle leggi di ulteriore sviluppo umano. Un sistema che snatura il
concetto stesso di umanità, che mette a rischio la stessa sopravvivenza della
specie nostra non meno delle altre, che strappa alla natura risorse che
gestite altrimenti essa avrebbe prodigato senza limiti. Avrà dunque questa
lotta per tema il comunismo (comunque denominato).
(*) La libertà, dal suo lato
formale, è una condizione irrinunciabile del modo di produzione capitalistico.
Capitale e lavoro, capitalista e operaio, debbono trovarsi uno di fronte
all’altro in un rapporto formalmente libero. E però non basta che il
capitalista si presenti nella veste di possessore di merci o di denaro. Da ciò
non risulta che possessori di merci e di denaro siano in sé e per sé dei
capitalisti più di quanto merce e denaro non siano in sé e per sé capitale.
Solo in determinate condizioni
merce e denaro si trasformano in capitale, solo in date condizioni i possessori
di merci e di denaro si trasformano in capitalisti. Astraendo da altre
considerazioni, qui superflue, condizione essenziale perché merce e denaro si
trasformano in capitale e dunque i possessori di merci e di denaro si
trasformano in capitalisti, è il libero incontro sul mercato di capitale e
lavoro, di capitalisti e operai.
Gli uomini possono vivere a una
sola condizione, quella di produrre mezzi di sussistenza, e possono produrli
nella sola misura in cui possiedono mezzi di produzione, condizioni oggettive
di lavoro. L’operaio spogliato dei mezzi di produzione lo è anche dei mezzi di
sussistenza. Ecco dunque che quel denaro e quelle merci, mezzi di sussistenza e
mezzi di produzione, si ergono di fronte alla forza-lavoro, spogliata di quella
ricchezza materiale, come potenze autonome impersonate dai loro proprietari.
Non è l’operaio che acquista
mezzi di sussistenza e mezzi di produzione; sono i mazzi di sussistenza che
acquistano l’operaio per incorporarlo ai mezzi di produzione. L’operaio, con la
vendita della sua forza-lavoro, diventa esso stesso un elemento del processo
lavorativo, il cui prodotto non gli appartiene. Il consumo stesso dei mezzi di
sussistenza dell’operaio appare in realtà come un puro accidente del processo
produttivo, alla stessa stregua del consumo della materia prima da parte della
macchina, del consumo del fieno da parte del cavallo come avveniva un tempo.
(**) Non fallo dicendo che
tutti questi movimenti, tranne alcuni elementi primigeni delle Brigate Rosse,
di altra profondità teorica, adottarono concetti e slogan mutuati dalla teoria
politica più o meno marxista, in taluni casi dicendosene interpreti ortodossi e
tuttavia segnalandosi per semplificazioni e deformazioni che s’accompagnano
sempre in questi casi. Si trattò senz’altro di un movimento di massa,
variamente strutturato, e tuttavia prevalentemente diretto da leader che alla
prima occasione non trovarono di meglio che scendere a compromessi con quello
che fino quel momento avevano sprezzantemente chiamavano “il sistema”. Questi
falliti i cui nomi sono già obliati, non abiurarono solo la fede praticata in
cambio di un posto al sole, ma ad ogni occasione che gli si offre continuano a
screditare l’analisi scientifica marxiana che essi avevano così a lungo
decantato e tanto poco o per nulla frequentato.
Madonna che post! Tutto l'ABC della situazione condensato in riassunto formidabile. Grazie.
RispondiEliminaP. S.
Sorge un dubbio: cosa scrivere di e in più?
Davvero complimenti per per come riesce a spiegare le cose.
RispondiEliminaRoberto
questo genere di complimenti mi fa piacere. grazie Roberto
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