martedì 21 ottobre 2014

Il tema della lotta



«La contraddizione è universale, assoluta,
essa esiste in tutti i processi di sviluppo delle cose
e penetra tutti i processi dal principio alla fine».


Lavoro, uguaglianza e pari dignità, abitazione, istruzione e sanità gratuita, previdenza e assistenza nella vecchiaia, piena libertà d’espressione, sono questi gli elementi fondamentali e irrinunciabili su cui si viene a stabilire un’autentica democrazia. In nessun paese capitalistico questo tipo di democrazia si è realizzato, anche se in taluni paesi, ma assai meno negli Stati Uniti d’America, alcuni di questi diritti e principi sono divenuti realtà, pur se spesso in modo contraddittorio, parziale e vincolato. In tema di lavoro, uguaglianza e pari dignità siamo ben lontani – e sempre più con il procedere della crisi e della violentissima offensiva borghese – dall’aver raggiunto gli obiettivi auspicati, costituzionalmente sanciti, e del resto ciò è reso impossibile dallo stesso dispotismo economico su cui poggiano concretamente tali sistemi classisti.




Per quanto riguarda invece l’esperienza sovietica, essa venne a forgiarsi in una congiuntura storica che più difficile non si potrebbe immaginare dal punto di vista dello sviluppo economico e sociale, ancora largamente d’impronta semifeudale. E, per di più, ciò avvenne in condizioni di guerra civile, di carestie e blocchi commerciali delle potenze capitalistiche, tra due guerre mondiali di cui la seconda sommamente distruttiva e sanguinosissima. Seguì poi una fase di aspra contesa con il blocco capitalistico e la necessità di mantenere un elevato livello di predisposizione bellica. Tuttavia l’Urss riuscì a imbastire un sistema di garanzie sociali che, pur tra molte restrizioni, gravi penurie e sottoposto ad un’occhiuta burocrazia accentratrice, ottenne dei risultati indiscutibilmente positivi. Per il resto, per quanto riguarda segnatamente le libertà individuali, politiche, sindacali e d’espressione del pensiero, si trattava di un regime totalitario, poco meno di un gulag a cielo aperto.

Del resto le libertà individuali non sono un semplice e automatico portato di certe conquiste materiali, pur essendo l’affrancamento dai più basilari bisogni la reale e imprescindibile premessa di ogni altra forma di libertà. Era e resta questo il più grande dei problemi teorico-pratici della modernità, dunque il compito politico più difficile che è quello di conciliare sviluppo delle libertà individuali e progresso collettivo in un modello sociale che poggi in premessa sull’uguaglianza.

I sistemi economico-sociali capitalistici hanno potuto metter in campo, per un certo periodo, politiche social-democratiche che ponevano al centro del loro pragmatismo il lodevole proposito di migliorare il sistema delle garanzie sociali e attenuare le più stridenti disuguaglianze. E tuttavia tali politiche d’impronta riformatrice, se da un lato riuscivano a mascherare un modello di democrazia d’impronta classista, dall’altro contenevano in germe le contraddizioni di uno Stato parassitario e inefficiente. La crisi fiscale dello Stato e la minaccia di squilibrio che essa contiene ha mandato all’aria tali politiche d’impronta redistributiva, ribadendo la sola logica alla quale il sistema della competitività capitalistica deve necessariamente obbedire, ossia quello della massima redditività ed efficienza estorsiva.

Di quale tipo di libertà e di democrazia questo sistema sociale sia capace, lo possiamo riscontrare ogni giorno. È ciò in forza del fatto che la proprietà dei mezzi di produzione resta saldamente di natura privatistica, ed essendo il capitale un rapporto sociale, il resto è naturale e necessaria conseguenza (concetto assai difficile da far comprende e però non si può deflettere). Rapporti di natura privatistica, eppure anche su tale piano contraddittori, laddove il più grave pericolo per la proprietà privata risulta essere paradossalmente non già l’idea sovvertitrice del comunismo, ma il capitale stesso, laddove esso fagocita la piccola proprietà privata nel monopolio e concentra la ricchezza sociale in poche mani tendendo a proletarizzare le cosiddette classi medie.

Dal canto loro, i sistemi socialisti novecenteschi, per molte ragioni, fallirono in questo tentativo di conciliazione tra democrazia sostanziale e libertà individuali, se mai si posero realmente tale obiettivo e non ritennero invece che esso si esaurisse in alcuni dei risultati tangibili raggiunti. La dittatura del proletariato, declinata troppo meccanicamente, si trasformò nella dittatura di un partito e poi con Stalin nel dispotismo di un uomo solo e di un’élite burocratica.

Il fallimento del “socialismo reale” nel suo tracollo non trascinò le speranze, ormai assai residuali per non dire inesistenti, di una via al socialismo di stampo sovietico. E tuttavia l’implosione del sistema sovietico, coincise, ma non fu causa, con l’esaurirsi del movimento politico che dagli anni Sessanta soprattutto in Occidente s’era fatto interprete di nuove e dirompenti istanze non solo operaie ma anche di ceti sociali emergenti (**).

Vero è, per riprendere il discorso, che i paesi capitalistici riuscirono a trovare il modo di conciliare, pur tra molte contraddizioni e in modo parziale, libertà e democrazia solo dopo due conflitti mondiali e una crisi economica inedita per la sua gravità. Ciò poté avvenire solo in forza della spinta di un poderoso ciclo di accumulazione, di una fase potente di sviluppo industriale e di consumi allargati in cui l’intervento della spesa pubblica ebbe a svolgere un ruolo determinante. Fu quello il momento più alto delle politiche riformistiche favorite dal ciclo economico espansivo. Senza quelle forti spinte propulsive create dalle condizioni del dopoguerra, il modo di produzione capitalistico, lasciato a se stesso, non avrebbe potuto garantirsi stabilmente per decenni, e le intese politico-economiche e monetarie raggiunte tra le diverse potenze capitalistiche avrebbero avuto il destino di un nuovo fallimento con il riaprirsi d’insanabili conflitti.

Quella fase capitalistica, guidata dagli Usa come nuova e riconosciuta leadership occidentale, mostrò già la corda nel momento stesso in cui venne revocata unilateralmente la convertibilità tra dollaro e oro e dunque con la crisi degli anni Settanta. In seguito, l’introduzione di nuove tecnologie su base elettronica, l’immissione sul mercato di nuovi prodotti, gli investimenti pubblici a debito e le nuove occasioni di espansione favorite dagli accordi sul libero commercio, fornirono al sistema la possibilità di superare la fase di crisi. Ma proprio questa nuova situazione, l’internazionalizzazione dei capitali e dello sfruttamento del lavoro, l’introduzione massiccia di nuove tecnologie e il miglioramento dei processi produttivi, porta in sé gli elementi contraddittori e salienti di una nuova fase storica del capitalismo, quella della sua crisi generale nel momento del suo massimo trionfo e che riverbera in ogni aspetto delle odierne dinamiche sociali.

A seguito dell’introduzione delle nuove tecnologie e del loro dominio assunto nei processi produttivi e di comunicazione, il lavoro produttivo ha raggiunto livelli di efficienza quantitativa e qualitativa quasi inimmaginabili solo qualche decennio or sono. Specie nelle aree di più antica industrializzazione, dove è già stato raggiunto un elevato grado di perfezionamento delle attività produttive, c’è sempre minor bisogno di lavoro in rapporto al capitale investito in macchinari e materie prime. Ciò produce necessariamente da un lato l’aumento della disoccupazione e dall’altro una tendenza alla diminuzione del saggio del profitto.

Per far fronte alla disoccupazione si provvede con quelli che sono definiti come ammortizzatori sociali, e si ragiona sempre più spesso di reddito di cittadinanza e simili, ma ciò richiede risorse che alla lunga la fiscalità generale così com’è impostata non potrà in alcun caso garantire. E tuttavia il lavoro vivo appare sempre più residuale, benché sempre necessario, all’attività produttiva in rapporto al lavoro oggettivizzato che esso può mettere in moto. Si tratta di una realtà di cui anche gli economisti, loro malgrado, si sono accorti, per quanto questi confusi perditempo insistano nel chiedere un maggior sfruttamento degli operai per far fronte all'altro aspetto della contraddizione, ossia la caduta del saggio del profitto.

E in ciò Marx aveva visto giusto, laddove scriveva che a un certo grado dello sviluppo capitalistico, ossia non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura, e quindi il valore di scambio deve cessare di essere la misura del valore d’uso. Di modo che “Il pluslavoro della massa ha cessato di essere la condizione dello sviluppo della ricchezza generale, così come il non-lavoro dei pochi ha cessato di essere condizione dello sviluppo delle forze generali della mente umana. Con ciò la produzione basata sul valore di scambio crolla, e il processo di produzione materiale immediato viene a perdere anche la forma della miseria e dell’antagonismo”.

Ecco dunque perché i filosofi del non lavoro, aggrappandosi al più visibile dei fenomeni e non certo per analisi delle cause condotta di loro sponte, stanno già mettendo le mani avanti, con l’avido anticipo degli infantili, e, come solito, scambiando lucciole del presente per lanterne del futuro magnifico e progressivo. Se quella sommariamente descritta è una tendenza in atto, nondimeno il capitale e il sistema sociale che gli corrisponde, pone ovvia e non pacifica resistenza, per il semplice fatto che esso sa bene che il lavoro, e solo il lavoro vivo e produttivo, è l’unica fonte che aggiunge nuovo valore, e che il plusvalore nella declinazione borghese del profitto è lo scopo della sua stessa esistenza e per esso lotterà fino alla fine.

È in questa nuova insanabile contraddizione storica, tra sviluppo delle forze produttive e vecchi rapporti di produzione, ossia tra nuove dinamiche economico-sociali e l’appropriazione privata della ricchezza, che si dibatte il sistema capitalistico. La logica dello sviluppo delle istituzioni non può essere indipendente, come pretende Mario Tronti, dalle leggi di sviluppo del capitalismo. In forza di tali leggi di movimento e su questo preciso terreno politico, e dunque inevitabilmente su quello della comunicazione sociale, si combatterà la battaglia decisiva, molto lunga, cruenta e senza esclusione di colpi. Essa avrà per tema fondamentale, qualunque ne siano le motivazioni politiche addotte dai suoi interpreti del momento, l’affrancamento effettivo dello schiavo moderno e il superamento di un sistema di predazione che ha come esclusivo obiettivo il profitto per mezzo di uno sfruttamento divenuto anacronistico e in antitesi alle leggi di ulteriore sviluppo umano. Un sistema che snatura il concetto stesso di umanità, che mette a rischio la stessa sopravvivenza della specie nostra non meno delle altre, che strappa alla natura risorse che gestite altrimenti essa avrebbe prodigato senza limiti. Avrà dunque questa lotta per tema il comunismo (comunque denominato).  



(*) La libertà, dal suo lato formale, è una condizione irrinunciabile del modo di produzione capitalistico. Capitale e lavoro, capitalista e operaio, debbono trovarsi uno di fronte all’altro in un rapporto formalmente libero. E però non basta che il capitalista si presenti nella veste di possessore di merci o di denaro. Da ciò non risulta che possessori di merci e di denaro siano in sé e per sé dei capitalisti più di quanto merce e denaro non siano in sé e per sé capitale.

Solo in determinate condizioni merce e denaro si trasformano in capitale, solo in date condizioni i possessori di merci e di denaro si trasformano in capitalisti. Astraendo da altre considerazioni, qui superflue, condizione essenziale perché merce e denaro si trasformano in capitale e dunque i possessori di merci e di denaro si trasformano in capitalisti, è il libero incontro sul mercato di capitale e lavoro, di capitalisti e operai.

Gli uomini possono vivere a una sola condizione, quella di produrre mezzi di sussistenza, e possono produrli nella sola misura in cui possiedono mezzi di produzione, condizioni oggettive di lavoro. L’operaio spogliato dei mezzi di produzione lo è anche dei mezzi di sussistenza. Ecco dunque che quel denaro e quelle merci, mezzi di sussistenza e mezzi di produzione, si ergono di fronte alla forza-lavoro, spogliata di quella ricchezza materiale, come potenze autonome impersonate dai loro proprietari.

Non è l’operaio che acquista mezzi di sussistenza e mezzi di produzione; sono i mazzi di sussistenza che acquistano l’operaio per incorporarlo ai mezzi di produzione. L’operaio, con la vendita della sua forza-lavoro, diventa esso stesso un elemento del processo lavorativo, il cui prodotto non gli appartiene. Il consumo stesso dei mezzi di sussistenza dell’operaio appare in realtà come un puro accidente del processo produttivo, alla stessa stregua del consumo della materia prima da parte della macchina, del consumo del fieno da parte del cavallo come avveniva un tempo.

(**) Non fallo dicendo che tutti questi movimenti, tranne alcuni elementi primigeni delle Brigate Rosse, di altra profondità teorica, adottarono concetti e slogan mutuati dalla teoria politica più o meno marxista, in taluni casi dicendosene interpreti ortodossi e tuttavia segnalandosi per semplificazioni e deformazioni che s’accompagnano sempre in questi casi. Si trattò senz’altro di un movimento di massa, variamente strutturato, e tuttavia prevalentemente diretto da leader che alla prima occasione non trovarono di meglio che scendere a compromessi con quello che fino quel momento avevano sprezzantemente chiamavano “il sistema”. Questi falliti i cui nomi sono già obliati, non abiurarono solo la fede praticata in cambio di un posto al sole, ma ad ogni occasione che gli si offre continuano a screditare l’analisi scientifica marxiana che essi avevano così a lungo decantato e tanto poco o per nulla frequentato.
  

3 commenti:

  1. Madonna che post! Tutto l'ABC della situazione condensato in riassunto formidabile. Grazie.
    P. S.
    Sorge un dubbio: cosa scrivere di e in più?

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  2. Davvero complimenti per per come riesce a spiegare le cose.
    Roberto

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    1. questo genere di complimenti mi fa piacere. grazie Roberto

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