domenica 5 ottobre 2014

Job, job, job, perfino alla parola “lavoro” hanno cambiato nome


Quando parliamo di dignità del lavoro, di qualità della vita e di benessere, di che cosa esattamente parliamo?

Un sistema sociale che vede disoccupati oltre il 40 per cento dei suoi giovani (in vaste aree del paese si arriva a superare il 50%), e in cui la disoccupazione complessiva è a due cifre, può essere considerato un sistema sociale fallito. Queste poche cifre costituiscono il bilancio di un disastro, una condanna senza appello di questo sistema economico-sociale, delle sue politiche che richiamano ed esigono obbedienza verso gli assurdi imperativi mercantili e monetari, da cui dipendiamo e siamo prigionieri.

Come ho già scritto, il più grande dei problemi politici della modernità, il compito difficile, è quello di conciliare libertà e democrazia. E a che cosa serve la democrazia se non è subordinata alla libertà dal bisogno?



Possiamo descrivere con i toni più cupi e finanche deridere un sistema sociale come quello che per decenni ha dominato i paesi dell’Est Europa, le sue molte contraddizioni e l’assenza di certe irrinunciabili libertà. E però, senza anacronistici pregiudizi, va considerato anche nei suoi aspetti positivi, almeno quelli tendenziali e sui quali è utile fare una riflessione. Sono indubbiamente aspetti positivi quelli di un sistema sociale che forniva istruzione di qualità, sanità e alloggio gratis, sovvenzionava largamente i servizi pubblici e garantiva un lavoro tenendo conto di professionalità e titoli del lavoratore, dunque con un tasso di disoccupazione pari a zero.

A fronte un sistema sociale che ha trasformato l'istruzione e l'assistenza sanitaria in un business, al punto che un’alta percentuale di persone in molti paesi dell’occidente non può permettersi cure adeguate e regolari, e un numero crescente di giovani escono semi-analfabeti da scuola. Un sistema sociale con un altissimo sviluppo economico dove però l’abitazione non è un diritto delle persone, dove per anni sei alla ricerca di un’occupazione, e dove se non entri nel mercato del lavoro, ossia nel mercato delle braccia, non hai diritto nemmeno a un sussidio.

E quando finalmente trovi un lavoro, quasi mai è stabile, e non ti abbandona la preoccupazione, la tensione e l’ansia di perdere il posto tanto faticosamente acquisito. Un sistema sociale dove dopo i 40-50 anni sei considerato un rottame e trovare un altro posto di lavoro è impresa ai limiti del possibile.

E di che lavoro si tratta? Ormai sempre più di un lavoro precario, con un contratto di tre mesi nei servizi, in un call center, o come commesso o lavoratore stagionale, un contratto che, se ti va bene, sarà rinnovato fino al giorno che la normativa stabilisce che il lavoratore deve essere assunto a tempo pieno. Non parliamo poi dei contratti di formazione, del loro uso e abuso da parte del padronato, oppure delle aziende che offrono tirocini gratis, nel senso che non sono retribuiti e il padrone si becca le sovvenzioni statali (conosco personalmente casi da delirio).

Un sistema che dove le conoscenze e le abilità apprese risultano molto spesso inutili, dove l’estenuante ricerca del lavoro ti demoralizza e ti fa sentire uno sconfitto prima ancora d’iniziare a lavorare. Dove un giovane pur di ottenere un contratto di lavoro è pronto ad accettare un salario da miseria, a farsi adattabile e flessibile oltre ogni dire, con orari e condizioni di lavoro di vera e propria schiavitù, privo di un calendario decente per organizzare il proprio tempo di vita personale e della sua famiglia.

Un sistema dove un bambino di 13 anni può prepararsi già ad essere un emarginato nel momento in cui il suo curriculum scolastico e di vita è segnato dalla sua estrazione sociale. Perché dunque stupirsi dell’abbandono scolastico, dell’uso di alcol e di droga, della devianza e della delinquenza minorile? Se cresci in un quartiere invece che in un altro, se provieni da una famiglia con una storia di disoccupazione ed emarginazione, solo in casi eccezionali e fortuiti un giovane prenderà una strada diversa dai suoi coetanei del quartiere ghetto. E però la società avrà cura d’importi, come del resto è giusto, d’indossare il casco quando vai in motorino. E troverà sempre il modo di stipendiare uno sfigato in divisa e con la pistola perché ti controlli e inciampi.

È la stessa società tanto comprensiva e clemente con i reati dei cosiddetti colletti bianchi, dove i miliardi diventano disponibili per le voragini truffaldine delle banche, per i cacciabombardieri, e per molte altre ladronerie, ma non si trovano per dare formazione, sostanza di prospettive e lavoro ai giovani. Un grande esercito di disoccupati per tenere bassi i salari e favorire il precariato, questo è il fondamento del nostro modello socio-economico. E tutto ciò in nome della democrazia e della libertà, che può spingersi fino a tirare al presidente del consiglio pro tempore qualche ovetto. Di calibro innocuo e da notevole distanza.

Una società iper-tecnologica e iper-produttiva del XXI secolo dove il sindaco di Milano, esaltandosi come un gallo all'alba di un nuovo giorno, decanta da un lato un sito espositivo per merci alimentari di un milione di metri quadri, e dall'altro il "senso pratico" di un magnate che nell'aprire un "ristorante per i poveri", ha "messo la propria storia, il proprio lavoro, le proprie competenze al servizio della propria comunità".

Non c’è uno solo degli effetti benefici di questo sistema che non venga pagato dalla disuguaglianza e dalla disgrazia di generazioni condannate a raccogliere l’amarezza di una vita sacrificata alla ricchezza di un’oligarchia finanziaria. Dov’è la differenza sostanziale con le epoche del passato? Contro questo sistema lo schiavo non può consolarsi nella mera indignazione, bensì diventa doveroso ribellarsi e rifiutare collaborazione, a cominciare dalla partecipazione ai ridibili plebisciti elettorali.

Nulla è più importante di prendere coscienza della formidabile realtà di oppressione che è stata costruita, quindi di sognare un nuovo orizzonte di collaborazione, di gratuità del piacere autentico, per organizzarsi attorno a un progetto e di agire di conseguenza rompendo l’incantesimo mercantile del lavoro come sacrificio, del prestigio fatuo, degli atteggiamenti schizoidi delle mode e del consumo avido.




5 commenti:

  1. La descrizione dei sistemi sociali dell'Est va affrontata con discreta cautela per non prestare il fianco alla critica standard marxismo = bolscevismo, questo nel senso che sia presentato immediatamente al 'recto' il 'verso' della loro dirigenza,ovvero le contraddizioni dei privilegi e non solo.
    Sarebbe comunque da evitare sia l'effetto 'Goodbye Lenin' che l'effetto gulag.

    Quanto descritto è vero, istruzione (tra l'altro ottima scuola di pianoforte generalizzata), sanità, casa,ecc. gratuiti. La qualità dei servizi è ovviamente contestuale. Una volta in metropolitana a Mosca leggevano i classici, ora tutt'altro. Ancora oggi tra i maturi vige la mentalità del metroquadro, nel senso che era solito comparare la sua assegnazione al numero di occupanti, da cui la maternità facile per ottenere qualche metro in più. Le abitazioni erano - e sono in moti casi oggi - veramente 'misurate'. Da aggiungere le 'kommunalka' - abitazioni collettive - ne ho visitate tempo fa qualcuna residua a S.Pietroburgo insieme allo standard delle costruzioni prefabbricate utilizzato da Budapest ad Almaty (oggi in pessimi stati di manutenzione), in una delle quali in entrambe le città ho avuto occasione di vivere per qualche tempo.
    (L'argomento poco importante Repin piuttosto che Grigorji Segal versus Pollock lo affronteremo più avanti).
    Questo per dire che i presupposti erano la soddisfazione dell'existenz minimum, andavano bene i valenki non c'era ancora il tacco quindici con
    il richiamo delle Sirene del consumo al quale si sono e ci siamo arresi
    senza opporre particolari resistenze. A parte che fuori 50 km.da Mosca la situazione non si presenta oggi con caratteristiche moto differenti.
    Allora, come oggi posta una escatologia cooperativistica, il presupposto dovrebbe essere il desiderio di qualità della vita, aggiungerei semplice. Appartengo a quel filone di pensiero che delega ad un possibile devastante crack economico, certo quello ambientale, terribile (!!!) quello bellico un orientamento delle masse in questo senso, obtorto collo, molto obtorto.
    Per i giovani che non vogliono attendere, possono nel frattempo seguire l'esperienza kibbutz dei giovani ebrei comunisti di allora (oggi v.Lotan nel Negev).
    Antibiotici, ecografia, tomografia assiale compiuterizzata hanno il loro pezzo.
    Bon dimanche

    *****************

    Ad personam ,non pubblicabile, onde evitare da parte di qualche lettore supponenze polemiche che non mi appartengono.

    Suppongo non sia censurabile quella parte di esseri al mondo che motu proprio hanno deciso di condurre una vita nella più totale semplicità.
    Se poi ci sono arrivati senza la lettura marxiana poco importa, non consumano, non inquinano ma cosa molto importante !! non rompono i corbelli a nessuno. Vivono in silenzio, che non è poco al giorno d'oggi.
    Avercene.

    Nirvana = nir / vana - libertà dal desiderio






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    1. per ragioni tecniche non posso, a quanto ne so, intervenire nei commenti per cassarne una parte: o integralmente o niente.

      ad ogni buon conto non credo che la pensiamo allo stesso modo, per esempio io non auspica alcuna libertà dal desiderio, anzi. non per nulla nel post precedente scrivevo:

      L’idea – per nulla marxiana – di voler costruire una società sull’austerità e la penuria, non solo sulla statalizzazione dei mezzi di produzione ma anche sul sequestro dell’iniziativa individuale, della riduzione di tutto ad un unicum, è stata l’idea di un fallimento annunciato e protrattosi fin troppo a lungo. Si è scambiato il godimento quale risultato della creazione con l’edonismo, l’esibizione e la dissipazione quale prodotto dalla mercificazione. Hanno prevalso in quella concezione gli spiriti arcaici, le divinità avare che percepivano il benessere materiale delle masse come il “peccato”, come l’ombra velenosa da cui è affetto il capitalismo.

      saluti

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  2. Nell'attività sindacale aziendale toccai con percezione di cosa la potenza dell'azione rivendicativa e propositiva di gruppi di lavoratori coesi e decisi ad ottenere di fatto ciò che il diritto riconosceva loro sulla carta. Erano lavoratori privilegiati, quasi tutti con contratto a tempo indeterminato in azienda con più di quindici dipendenti. Cosa che non bastò quando la direzione mi licenziò in tronco con un cavillo legale che aveva reso, a loro parere, assenze ingiustificate i permessi sindacali (la nomina a rappresentante cgil era avvenuta per fonogramma invece che per telegramma come previsto alla lettera dal contratto - fu il giudice interessato a rimettermi nel posto di lavoro, con una frase agli agguerriti legali padronali che mi è rimasta impressa nella mente: "Non siamo più nel medioevo." - si sbagliava, in questo, ma mi reintegrò in tempi rapidi, condannando la direzione per condotta antisindacale - inutile dire sulla base di quale legge e quale articolo di quella legge).
    Volevo dire: non so se anche gruppi coesi e decisi di lavoratori non privilegiati possono trovare il modo per ottenere un miglioramento delle loro precarie condizioni di vita-lavoro; certamente le cose sono più difficili, ma l'ingiustizia sociale nei loro confronti dovrebbe bruciare sulla pelle ancora di più, e con ciò creare una reazione che dovrebbero essere capaci di indirizzare metodicamente nella direzione giusta, verso l'esterno che li violenta. Bisogna starci, lì, per capire, per sentire, per studiare i modi possibili per obiettivi che abbiano un reale potenziale di raggiungibilità.
    Può darsi che stia dicendo delle sciocchezze, di chi, appunto, lì non ci sta. Ma so che c'è un passo indispensabile: l'avvenire di quella coesione e decisione di gruppi di lavoratori di cui ho avuto esperienza: solo dopo il possibile diventa raggiungibile. Proprio questo passo, questo convergere di volontà metodiche e mature, era ciò che mancava quasi sempre, cioè sempre tranne rare eccezioni in vent'anni di attività sindacale aziendale - e da parte dei lavoratori più tutelati, anche se spesso sottoposti ad abusi di autorità padronale inaccettabili (ma accettati, infine, incomprensibilmente, quasi a marcare il passo, in attesa di cosa? impediti da cosa? per paura di cosa? non erano solo i controlli e le minacce padronali, era anche altro, c'era anche altro, non di quella situazione, non di quel presente - paura di perdere le proprie catene? non la libertà, ma la liberazione fa paura, evoca terribili fantasmi per la rabbia accumulata in famiglia, nelle scuole, nella società - questo dovrebbero sapere e saper fare i lavoratori e non solo, che la loro rabbia è giusta ed è possibile cambiare le cose, di situazione reale in situazione reale, con contenimento delle emozioni e metodo, e questo è possibile qui e ora grazie ai tanti che ci hanno preceduto e hanno evitato, almeno finora, che in strada ci fossero i carri armati - ma i mass media dovrebbero diventare strumenti ben diversi da quello che sono, al servizio di interessi molto diversi da quelli dei loro e nostri padroni).

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    1. un tempo c'erano le grandi fabbriche, il sindacato, il partito e le sue sezioni, i militanti, una coscienza di classe e una tradizione. oggi di tutto questo non c'è rimasto nulla. da un lato era inevitabile che ciò succedesse e perfino, per certi aspetti, un bene. il futuro s'incaricherà di creare nuove condizioni, ma non potrà essere indolore né possiamo avere la pretesa di esserne testimoni.

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  3. Penso di essermi espresso in modo parziale riferendomi nello specifico ad una quota di mondo lontana dalle cifre del pensiero occidentale, dove il concetto di peccato in particolare è totalmente al di fuori delle loro categorie ontologiche. Concordo nella prospettiva di un piacere autentico
    al netto di cilicio e relativo complesso di colpa.
    saluti

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