Ciò che i padroni non sono assolutamente disposti a concedere,
è che i profitti possano essere spartiti con gli schiavi che
li hanno prodotti.
Lo reputano un fatto ingiusto e innaturale,
così come un tempo apparivano naturali
altri tipi di disuguaglianza sociale.
Nel post precedente ho descritto,
con degli esempi semplici, come le condizioni di vita generali e segnatamente
quelle delle classi subalterne risultino oggi, rispetto a secoli precedenti,
incomparabilmente migliori. Si tratta dell’aspetto più positivo dello sviluppo
economico e sociale quale portato del modo di produzione capitalistico nelle
aree di più antica industrializzazione. In questo post, invece, intendo
riferirmi dapprima a come tutto ciò sia avvenuto incidentalmente, ossia sostanzialmente come tendenza necessaria del capitale e non come scopo scientemente e
globalmente perseguito, e poi accennare a come le stesse leggi di tendenza, a questo grado di sviluppo capitalistico e nonostante certe apparenze, frenino e
ostacolino lo sviluppo tecnologico e scientifico della società.
*
La produzione
capitalistica, la quale non produce beni per soddisfare dei bisogni ma produce
merci per valorizzare il capitale investito, mostra in generale un grande
interesse per l’innovazione e l’impiego di nuove tecnologie poiché esse rendono
il lavoro più produttivo e ciò riduce da un lato il tempo di lavoro necessario
a produrre le stesse merci, e dall’altro abbassa il costo della manodopera. Ciò
avviene in ogni fase storica del capitalismo, ma soprattutto nelle fasi e nei
rami produttivi nei quali è più agguerrita la concorrenza tra capitali, in modo
che la tecnologia, sempre più perfezionata, spinga il lavoro a fornire più
prodotto nel medesimo tempo e dunque renda le merci più competitive fin tanto
che i nuovi processi produttivi non si generalizzano.
In tale modo i processi
produttivi si pongono come problemi pratici che possono essere risolti solo
scientificamente e la produzione diviene sfera di applicazione della scienza così
come essa diviene fattore del processo produttivo. Il modo di produzione
capitalistico pone così per primo le scienze naturali al servizio immediato del
processo di produzione e la scienza ottiene il riconoscimento di essere un
mezzo per produrre ricchezza. Il fattore scientifico è così impiegato in
dimensioni inedite ad altre epoche e gli uomini che si occupano di scienza sono
messi in reciproca concorrenza nel tentativo di trovare applicazione pratica alle
loro scoperte e innovazioni.
Quanto precede è, per così
dire, il lato virtuoso del modo di produzione capitalistico, poiché il capitale
nella ricerca incessante di risparmiare lavoro e incrementare la produzione stimola
l’innovazione tecnologica e la ricerca scientifica.
C’è da mettere in luce al
riguardo alcuni aspetti particolari. La maggiore produttività del lavoro
raggiunta nell’ultimo secolo con l’introduzione di macchine e tecniche più
efficienti, pur avendo notevolmente abbassato il valore delle merci prodotte e
aumentato la parte di lavoro non pagata (il lavoro è merce, anzi è la merce per
eccellenza), non ha però comportato riduzioni della giornata lavorativa,
rimasta sostanzialmente inchiodata nei settori produttivi alle otto ore
giornaliere.
(Del resto, i sindacati,
divisi in ambito categoriale e nazionale, divisi in ambito continentale e
internazionale, dal dopoguerra in poi hanno puntato, non a caso, sugli
adeguamenti salariali ma hanno del tutto trascurato il problema della riduzione
della giornata lavorativa. Politica sindacale che, malgrado la crisi, perdura
tutt’ora. Non a caso, sempre non a caso).
Inoltre, l’apparente
leggerezza della mutata forma del lavoro che riversa sul macchinario quasi ogni
abilità, consente da un lato di sostituire le vecchie maestranze, orgogliose
della propria professionalità, con operai meno qualificati e perciò più
soggetti al controllo del capitale, e dall’altro di portare i salari al minimo
medio, ossia di ridurre i costi di produzione alla capacità del lavoro semplice.
Pertanto il capitalista
non introduce nuove macchine e tecnologie perché è un estimatore della scienza
e del progresso tecnico, il capitale non crea scienza ma la sfrutta
appropriandosene nel processo produttivo, ossia unicamente allo scopo di
rendere più produttivo il lavoro, per ridurre i costi di produzione, il costo
degli operai, la quota dei loro salari, e dunque per aumentare la parte di
lavoro erogata dall’operaio e non pagata dal padrone.
Ciò che governa il miglioramento
tecnico e il progresso tecnologico nella produzione capitalistica è il furto
del tempo di lavoro altrui sul quale si basa la ricchezza odierna, e tuttavia la
brama di profitto del singolo capitalista
risponde alla tendenza necessaria
del capitale in obbligo della legge generale
della produzione capitalistica.
Se da un lato il capitale
introduce nuove macchine più efficienti per ridurre il tempo di lavoro
necessario e dunque per appropriarsi di una quota sempre maggiore di
pluslavoro, ossia di lavoro non pagato, la stessa legge di tendenza lo porta contraddittoriamente
ad agire in senso contrario per far fronte a degli effetti non desiderati dell’introduzione
massiccia di nuove macchine.
Infatti, man mano che il
lavoro passato, sottoforma di macchine e impianti, dunque di capitale costante,
si fa proporzionalmente più massiccio rispetto al lavoro immediato (capitale
variabile), cambia la proporzione tecnicamente necessaria
per la sua combinazione con una determinata quantità di lavoro vivente. Ciò
determina una conseguenza assai sfavorevole per il capitale: aumentando la componente
tecnica del capitale in rapporto alla quantità di lavoro, anche se il
plusvalore (saggio di sfruttamento) resta invariato oppure dovesse aumentare,
il saggio del profitto (rapporto tra plusvalore e capitale complessivo) è
destinato a scendere.
Questa tendenza è espressione peculiare al modo di produzione
capitalistico, e in conseguenza della natura stessa di questa produzione, come
necessità logica del suo sviluppo, il saggio generale medio del plusvalore deve
esprimersi in una diminuzione del saggio generale del profitto (**). L’aumento
della composizione organica del capitale, come tendenza necessaria allo
sviluppo capitalistico, rappresenta la causa delle crisi di sovrapproduzione, così come la categoria del saggio del
profitto svolge un ruolo fondamentale nell’economia politica, in quanto il suo
movimento è alla base della crisi del
modo di produzione capitalistico.
Naturalmente la tendenza,
appunto perché tale, non si esprime in forma assoluta, e ne faccio qui cenno
necessariamente ma non entro in dettaglio perché non è questo il tema del post.
Chi volesse, se già non la sa lunga sull’argomento, può rivolgersi ai capp. 13,
14 e 15 del III libro de Il Capitale, critica dell’economia politica.
Ancora. La legge dell’aumento
della composizione organica del capitale va letta non solo dal lato del valore,
ma anche dal lato della grandezza fisica
dei mezzi di produzione in rapporto alla forza-lavoro che attiva. Pertanto a
un determinato livello dell’accumulazione la scala della produzione è data tecnicamente poiché per la sua
espansione è necessaria una quantità definita di capitale, e dunque la
grandezza di plusvalore che si richiede per consentire la sua valorizzazione non
è arbitraria, bensì sottoposta a vincoli
tecnici.
Altro aspetto
contraddittorio, sempre inerente ai fenomeni indotti dall’aumento della
composizione organica del capitale quale espressione del progressivo sviluppo
della produttività sociale del lavoro per mezzo dall’impiego crescente di
macchinario e di capitale fisso in generale, è dato dal fatto che ogni
prodotto, considerato in se stesso, contiene non solo una quantità minore di
lavoro di quanto avviene nei gradi più arretrati della produzione, ma anche una
quantità proporzionalmente minore del capitale costante investito. Vale a dire
che gli enormi costi per nuovi impianti e macchinari sono trasferiti (nel proprio valore) nelle merci solo in
misura molto più graduale, e dunque il tempo per il loro
ammortamento diventa più lungo. E ciò non è, come si può agevolmente intuire,
senza conseguenze sul piano dell’innovazione tecnologica e dunque degli
investimenti dedicati alla ricerca e sviluppo, in quanto il capitale s’aspetta
di recuperare gli investimenti nel più breve tempo possibile.
Tutto questo e molto
altro ha un preciso significato, ossia che l’accumulazione capitalistica è un
processo gravido di crisi e, semmai, se fossimo troppo ingenui, ci dovremmo
stupire che le sue contraddizioni non esplodano in forme sociali ancora più
deflagranti. Ma tempo al tempo.
(*) È da rilevare che in tal modo si accresce anche il numero delle merci nelle quali riappare – in parti aliquote – il valore del macchinario; quindi tanto minore è la componente di valore delle nuove macchine che riappare nella singola merce (ne tratto alla fine del post così come di altre determinazioni peraltro assai interessanti inerenti il saggio del plusvalore e del profitto).
(**) È questo, osserva
Marx nel capitolo tredicesimo del III libro, un fenomeno la cui esistenza gli
economisti non sono risusciti a scoprire nelle loro reali cause, e soggiunge
che data “l’enorme importanza che questa
legge riveste nella produzione capitalistica, possiamo dire che essa
costituisce il mistero da svelare alla cui soluzione si è affaticata tutta l’economia
politica sin da Adam Smith”.
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gianni, ciao
Bisognerebbe esporre questo post nelle università tecnico/scientifiche giusto per chiarire un po' le idee ai poveri studenti. Ho passato anni a sentir dire che la ricerca in Italia non funziona perchè non è adeguatamente correlata all'industria... gran bella mistificazione (ottimo sinonimo di Cxxxxta) ... bello perchè è come dire che per far funzionare la ricerca è necessario sfruttare il lavoro intellettuale delle persone (nonchè le strutture universitarie che paghiamo noi), impadronirsi dei risultati della ricerca pubblica, magari brevettarli, e fare soldi alla facciazza nostra.... ma come al solito le cose ovvie non sono ovvie per niente
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