Che
il lavoro salariato sia una forma di schiavitù, sebbene non più in catene, è un
fatto che nemmeno gli economisti borghesi più onesti mettono in discussione,
ammesso che oggi se ne trovino (*). E tuttavia il lavoro, sebbene comune a
tutte le epoche, ha caratteristiche differenti in ogni epoca storica. Laddove
si neghi questo fatto è per favorire una concezione delle categorie
dell’economia politica fuori e sopra la storia.
Per
venire all’attualità, ciò che distingue il modo di produzione capitalistico è
lo sfruttamento della classe operaia per mezzo del lavoro salariato. E questa
forma di lavoro fa la differenza rispetto alle altre forme di sfruttamento,
poiché contiene in germe le condizioni oggettive per il superamento della
società di classe.
Marx
ha scoperto e descritto le leggi e le categorie del modo di produzione
capitalistico, i rapporti di produzione e i rapporti di classe della società
capitalistica. La sua critica dell’economia politica è stata non solo ignorata dagli
economisti e altri apologeti borghesi, bensì mistificata e falsificata in tutti i modi per il
semplice motivo che essi esprimono gli interessi della classe dominante e
dunque il punto di vista della borghesia e delle sue frazioni, e hanno poi
avuto buon gioco nel veicolare l’assunto che la crisi dei modelli sociali
sedicenti socialisti debba essere imputata al fallimento del marxismo quale
ideologia ad essi corrispondente.
I
sistemi economici e sociali posti in essere nel secolo scorso a seguito della
rivoluzione russa e cinese, poggiavano essenzialmente su un marchiano
fraintendimento, ossia che bastasse abolire la proprietà privata dei mezzi di
produzione per gettare le fondamenta di una società fondata su rapporti sociali
di tipo socialista.
In
buona sostanza, in società economicamente e socialmente molto arretrate, si
calava dall’alto ciò che invece andava costruito dal basso e s’introduceva
dall’esterno ciò che invece doveva essere il prodotto di condizioni che
richiedono da un lato un processo di produzione altamente sviluppato e
dall’altro, come riflesso, uno sviluppo di rapporti sociali adeguati.
Tutto
questo non inficiava minimamente la critica dell’economia politica marxiana, il
disvelamento scientifico delle contraddizioni proprie del modo di produzione
capitalistico, e tuttavia il fallimento di quei sistemi sociali (che del
marxismo nelle sue declinazioni più varie avevano fatto la loro bandiera) ha sancito, presso il senso comune e anche presso molti “teorici”, che la crisi di quei sistemi fosse il
portato degli “errori” e “fraintendimenti” di Marx.
*
Noi
possiamo verificare con chiarezza di fatti che ogni passaggio d’epoca da una
forma di asservimento meno evoluta a una più evoluta, perciò da un modo di
produzione ad un altro, non è stato semplicemente il risultato di una lotta per
l’affermazione di un’ideale di giustizia, sebbene questo spesso costituisca il
motivo soggettivo dell’azione, ma anzitutto il prodotto dello svolgersi
plurisecolare della contraddizione tra le forze produttive materiali della
società e i rapporti di produzioni esistenti, cioè i rapporti di proprietà che
ne sono soltanto l’espressione giuridica (**).
E
tuttavia, come rilevava Marx, in tutte le rivoluzioni finora avvenute non è mai
stato toccato il tipo dell’attività, e si è trattato soltanto di un’altra
distribuzione di questa attività, di una nuova distribuzione del lavoro ad altre
persone. Ciò che invece segnerà il passaggio dal modo di produzione
capitalistico a una fase storica superiore e una svolta assolutamente inedita
nella storia, sarà la scomparsa della subordinazione servile degli individui
alla divisione del lavoro, e quindi del contrasto tra lavoro intellettuale e
manuale, con il risultato che il lavoro non sarà più soltanto mezzo di vita, ma diventerà
anche il primo bisogno della vita. Questo approdo inoltre segnerà la fine effettiva,
e non solo paludata nelle forme statuali del passato, dell’antagonismo fra
interesse particolare e interesse collettivo.
Per
quanto riguarda la nostra epoca, noi vediamo all’opera, non sempre percependone
le ragioni profonde (che qui non ho la pretesa d’illustrare in dettaglio
essendo esse ben esplicite nell’analisi scientifica condotta da Marx), una
contraddizione oggettiva che segna la crisi generale del modo di produzione
capitalistico. Essa si esprime non solo nelle forme più conclamate della crisi generale
stessa del sistema e che ognuno può cogliere alla sua superficie, ma nel fatto
stesso che il lavoro, in forma immediata, per effetto
dell’enorme sviluppo delle forze produttive, cessa sempre più di essere la
grande fonte della ricchezza.
Scrive
Marx che il capitale è esso stesso la contraddizione in processo, per il fatto
che tende a ridurre il tempo di lavoro a un minimo, mentre, d’altro lato, pone il tempo di lavoro come unica misura e
fonte della ricchezza.
Ciò
significa che a seguito dell’enorme sviluppo raggiunto dalla produzione e per
la tendenza del capitale a ridurre sempre più il tempo di lavoro (non necessariamente la giornata lavorativa!),
questo cessa e deve cessare di essere la misura della ricchezza prodotta, e
quindi il valore di scambio deve cessare di essere la misura del valore d’uso.
Ciò dimostra il carattere storico e transeunte della legge del valore.
Consegue
che il pluslavoro della massa degli operai è sempre meno la condizione dello
sviluppo della ricchezza generale, così come il non-lavoro dei pochi ha già
cessato di essere condizione dello sviluppo delle forze generali della mente
umana. Con ciò la produzione basata sul valore di scambio crolla, e il processo
di produzione materiale immediato viene a perdere anche la forma della miseria
e dell’antagonismo (***).
Un
giorno l’affrancamento dal lavoro salariato dalla catena produttiva
capitalistica sarà considerato come una tappa fondamentale dello sviluppo
dell’umanità e del progresso civile, e si guarderà ad esso così come oggi noi guardiamo con raccapriccio,
dall’alto delle nostre convenzioni ideologiche borghesi, alla catena
dell’antico schiavo.
(*)
«Allorché un individuo è costretto a
pagare e a lavorare per altri, questo individuo è lo schiavo degli altri»
(Maffeo Pantaleoni, La caduta della
Società Generale di Credito mobiliare Italiano, UTET, 1988).
(**)
È importante sottolineare il rapporto dialettico, ossia la continua interazione tra i rapporti di produzione e forze produttive quali unità di opposti, ad
evitare forme di determinismo storico, evoluzionistico e meccanicista, per cui le
forze produttive agirebbero di per sé e in modo sufficiente nel “passaggio al
socialismo”. Tutt’altro. In tal senso è tanto più necessaria l’azione
soggettiva, cosciente e organizzata come progetto scientifico di trasformazione
sulla base della conoscenza del passato, di analisi del presente e d’individuazione
delle latenze dell’avvenire, quanto più complessa e subdola diventa la
resistenza delle classi dominanti.
(***)
Oggi per produrre una qualsiasi merce è necessaria una quantità di lavoro vivo
(cioè di lavoro immediato) molto inferiore rispetto al passato. Ciò è evidente
a tutti qualora si consideri la massa di lavoro oggettivato che il lavoro immediato
può mettere in moto. In altri termini, la quantità di prodotti disponibili non
è determinata dalla quantità del lavoro erogato, ma dalla sua stessa forza
produttiva. E tuttavia la premessa della produzione basata sul valore è e
rimane la quantità di tempo di lavoro immediato, la quantità di lavoro
impiegato, come fattore decisivo della produzione della ricchezza, per quanto
tenda a prevalere la condizione di cui s’è detto.
"Ciò che invece segnerà il passaggio dal modo di produzione capitalistico a una fase storica superiore [...] sarà la scomparsa della subordinazione servile degli individui alla divisione del lavoro [...] con il risultato che il lavoro non sarà più soltanto mezzo di vita, ma diventerà anche il primo bisogno della vita. "
RispondiEliminaGià mi sembra di vedere l'addetto allo sturamento dei cessi che freme mentre si avvicina ad uno scarico intasato con la sua ventosa
elimineremo preventivamente gli stronzi più grossi
EliminaComprendo il sarcasmo ma il mio precedente post intendeva mettere in evidenza come sia impossibile eliminare la disutilità del lavoro. Quindi non vedo proprio come potrebbe mai diventare il primo bisogno della vita, nel senso di piacere, se non in rarissime e trascurabili circostanze.
EliminaIl lavoro, non inteso nel senso odierno, è effettivamente il primo bisogno della vita, è ciò che ci distingue maggiormente dagli altri animali, è ciò che ci rende umani. La sua degradazione subentra quando e quanto più esso è sottoposto alla necessità, e quando e quanto più tale necessità è usata per sfruttare il lavoro a vantaggio di qualcuno in particolare. Chiaro che in ogni epoca storica si dovranno svolgere anche i lavori più umili e meno gratificanti (peraltro anche quello dell’artigiano per lunghi secoli se non per millenni è stato considerato un lavoro da servi). Noi oggi, grazie allo sviluppo dell’industria e della scienza, possiamo intuire le enormi possibilità offerte a tutti di migliorare innanzitutto la propria condizione riducendo drasticamente la quantità di tempo necessaria a riprodurre i beni necessari e come questo tempo di lavoro possa essere meglio suddiviso tra tutti, facendovi partecipare anche coloro che oggi non lavorano o fanno un lavoro utile solo per l’attuale sistema di sfruttamento e di dominio. Resterà così molto tempo della nostra giornata e della nostra vita per dedicarci a tutte quelle attività che concorrono meglio allo sviluppo delle nostre capacità e facoltà. Non è utopia, potrebbe essere realtà già oggi e ancor più domani.
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